Dal profumo al whisky l’intelligenza artificiale conquista mercato. Perché?

scritto da il 28 Agosto 2019

L’autore di questo post è Andrea Ciucci, PhD in filosofia contemporanea, prete cattolico, ufficiale della Pontificia Accademia per la Vita. Lavora sui nessi tra antropologia, etica ed esperienza religiosa, con particolare riferimento alle nuove tecnologie, alla comunicazione, alla condizione giovanile e familiare, al cibo. I suoi libri migliori sono per bambini –

Seppur con una crescita leggermente rallentata rispetto agli anni precedenti, anche il 2018 ha segnato a livello mondiale un aumento del 4% del mercato delle così dette technical consumer good, superando per la prima volta la quota simbolica di un trilione di euro. Il successo planetario (il 40% della cifra è stato generato in Asia) delle vendite di smartphone, computer e tv di ultima generazione, non è certo una novità, sebbene la cifra assoluta non può lasciare indifferenti. Quello che invece appare come un fenomeno nuovo e meritevole di qualche considerazione, è la pervasività che l’elemento tecnologico ha guadagnato nei confronti del mondo non hi tech, per cui Chris Anderson, direttore di Wired, già nel 2008 non esitava a parlare di “una via migliore” offerta dalla disponibilità di enormi quantità di dati. Due recentissime storie lo dimostrano.

Alcune settimane fa Microsoft ha annunciato lo sviluppo del primo whiskey realizzato grazie all’Intelligenza artificiale. Gli uomini di Seattle infatti, in collaborazione con i distillatori svedesi della Mackmyra e la tech company finlandese Fourkind, hanno affidato il database delle preferenze dei clienti e quello delle loro ricette a un sistema di machine learning capace di 70 milioni di diverse combinazioni di liquore, per produrre un nuovo prodotto che sarà disponibile nell’autunno 2019, “the world’ first AI-created whishy”, come recita il sito ufficiale di Microsoft, ripreso da Forbes e da molti altri siti specializzati.

A fine ottobre 2018 è stato annunciato il lancio, previsto per metà 2019, di Egeo, il primo profumo, naturalmente in doppia versione maschile e femminile, sviluppato grazie all’intelligenza artificiale dalla casa produttrice Boticario, che ha utilizzato il sistema di AI per profumi Phylira di IBM e la consulenza tecnologica di Symrise.

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Il dato interessante non è solo quello che mostra l’estrema duttilità ed efficacia raggiunta dai sistemi di intelligenza artificiale e machine learning per la produzione di beni non tecnologici, bensì il fatto che questa cooperazione viene evidenziata in ambito pubblicitario, fino a diventare il vero motivo di interesse del prodotto in questione.

Le motivazioni di questa apertura di credito fiduciale nei confronti dell’intelligenza artificiale, così profonda e diffusa da diventare argomento efficace per la promozione pubblicitaria, sono naturalmente molteplici e solo comprese nella loro totalità possono spiegare adeguatamente il senso del fenomeno osservato.

Una direttrice culturale merita però una particolare attenzione: se oggi c’è una consistente fiducia verso la tecnologia nelle sue forme più avanzate, questo accade perché esse sembrano essere gli unici luoghi dove gli uomini e le donne del nostro tempo possono trovare una qualche risposta alle domande di sempre dell’esistenza umana, almeno così come sono state espresse nella tradizione culturale occidentale. Cinque esempi per chiarire.

1. Alla radice della diffusione pervasiva dell’Ict risiede anzitutto la possibilità ormai raggiunta di digitalizzare ogni tipo di informazione, ovvero la capacità di poter esprimere (e quindi condividere, mescolare, lasciare interagire) ogni tipo di informazione con un unico linguaggio, fatto sostanzialmente di 0 e 1. La digitalizzazione completata dell’informazione (e in avanzato stadio di completamento della realtà intera, come sembrano indicare, ad esempio, i progetti di mappatura genomica degli esseri viventi o di informatizzazione delle funzioni emozionali del cervello umano) sembra realizzare il sogno di un linguaggio condiviso e universale, capace di dire il tutto della realtà. Quello che non sono riusciti a fare gli esperantisti alla fine dell’Ottocento, lo hanno realizzato gli informatici di oggi: abbiamo un linguaggio comune, un’unica lingua con cui possiamo intenderci tutti. I numeri della diffusione planetaria, senza esclusione geografica alcuna, delle nuove tecnologie confermano tale tendenza. La consonanza stretta con il racconto biblico della Torre di Babele (Gen 11) che vede gli uomini insensatamente alla ricerca di una lingua comune che abbatte ogni differenza, dimostra al contempo che il desiderio di un unico linguaggio è da sempre iscritto nella storia dell’umanità ma che esso, a causa della sua incapacità di custodire fino in fondo l’irriducibilità della diversità, può suonare come maledizione.

2. La digitalizzazione della realtà, accostata alla crescente capacità di calcolo dei nuovi processori (anche solo considerando i dati in Qubits),

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permette di trattare finalmente in modo efficace, una quantità di dati fino a pochi anni fa assolutamente inimmaginabile. Tale potenza si mostra nel momento in cui il paradigma della riflessione contemporanea sulla scienza si è spostato, nel giro di pochi decenni, dalla sbornia ottimistica del positivismo di fine Ottocento alla comprensione del limite della ricerca scientifica, consacrato dal principio di indeterminazione di Heisemberg che dichiara che non è possibile conoscere la realtà nella sua totalità. La sorprendente efficacia e l’insospettabile facilità del trattamento dei big data sembra far dimenticare al sentire comune la fastidiosa e umiliante limitatezza del procedere scientifico. Pare siamo finalmente nelle condizioni di poter registrare tutti i dati della realtà, di poter conoscere tutto. È solo un problema di quantità, che progressivamente pare stiamo diventando capaci di maneggiare.

3. Il fine di ogni conoscenza che ha la pretesa di essere completa non è e non è mai stato quello enciclopedico della semplice descrizione della realtà intera. Se nell’esperienza umana la domanda di conoscenza piena è sempre stata presente e oggi particolarmente accessibile grazie ai big data, ciò accade perché siamo interessati a sapere qualcosa del nostro futuro. La funzione predittiva del trattamento dei big data è esattamente il motivo per cui li trattiamo e per cui continuiamo a ricercarli con sempre maggior spasmodica efficacia: più ampliamo lo spettro dei dati a disposizione più le nostre predizioni risultano efficaci, soppiantando di fatto i comuni metodi di analisi compiuti dall’uomo, sempre meno capaci di reggere il confronto dell’affidabilità predittiva. Qualcuno pensava fosse un caso che una delle maggiori (e forse la più conosciuta) società di database si chiami Oracle? Oracle, oracolo, come quello di Delfi, dove 2800 anni fa ci si dirigeva per sapere cosa sarebbe capitato.

4. Il miracolo però lo fanno le blockchain, cioè una struttura dati condivisa e definita immutabile, grazie all’uso di particolari crittografie che rendono immodificabili i blocchi che la costituiscono. Nell’epoca della società liquida, del relativismo assoluto, dell’impossibilità del “per sempre” in campo professionale e affettivo, c’è qualcosa che ha il carattere dell’immutabilità, che è così per sempre, che si conosce per quello che è, che rende trasparente e condiviso un punto fermo e irremovibile. Dopo decenni di demolizione totale di ogni parvenza di certezza, avere un dispositivo che offre dati immutabili offre una rassicurazione psicologica e procedurale imprevista e preziosissima.

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Previsioni sullo sviluppo del mercato blockchain.(fonte)

5. Il quinto esempio mostra, infine, il riemergere dell’ultima domanda essenziale e perenne che l’umanità si pone: chi sono io? Nel momento in cui costruiamo robot antropomorfi o progettiamo così dette intelligenze artificiali, per realizzare questo progetto non possiamo eludere la domanda sulla forma umana (in tutte le sue dimensioni) e sulla sua intelligenza. Istruiamo, di fatto, un continuo confronto che ribalta continuamente la questione. Anche la domanda etica posta dal dibattito crescente sul tema rivela lo spostamento: il problema centrale non è l’etica dei robot o degli algoritmi, bensì quella dei loro costruttori e programmatori. Alla fine, tutto questo trionfo di tecnologia che sembra sempre più rendere l’uomo attore marginale della storia, ripone al centro proprio l’uomo e la sua preoccupazione circa la sua identità e la sua primazialità, questa volta nei confronti delle macchine e non più di una natura ormai non più ostile.

L’efficacia commerciale del riferimento delle nuove tecnologie è certo frutto di strategie complesse e dei risultati sorprendenti che esse offrono; ma se sono così efficaci non è solo perché, per dirla con Naief Yehya (Homo cyborg, Eleuthera 2005) “con i computer possiamo trasformare quasi tutti i problemi umani in statistiche, grafiche, equazioni, (…) creando l’illusione che questi problemi siano risolvibili con computer”. Se le nuove tecnologie sono così suadenti è anche perché parlano al cuore dell’uomo, gli corrispondono, lo aiutano nella sua perenne ricerca di un linguaggio comune, di una conoscenza ampia e certa, di un futuro non ostile. E per avere questo siamo disposti a qualunque cosa, a spendere qualsiasi cifra.

Twitter @donciucci