Passano i governi, restano i nodi sul tavolo dell’ autonomia differenziata

scritto da il 13 Settembre 2019

In questo pezzo del maggio 2018, cercavo di immaginare come potesse svilupparsi il tema dell’ autonomia differenziata nel primo Governo Conte, all’epoca non ancora insediatosi.

È stato facile in quell’occasione prevedere le difficoltà del percorso, alla luce dei principali bacini elettorali dei due partiti di maggioranza (Nord-Lega e Sud-M5S). L’impasse era inevitabile.

Proviamo a ripetere lo stesso esercizio con il nuovo Governo.

Innanzitutto, cambiano i volti protagonisti dell’Esecutivo. Agli Affari regionali, si passa da Erika Stefani, leghista veneta, a Francesco Boccia, pugliese del Partito Democratico.

Come sempre in questi casi, il territorio di provenienza scatena la polemica. Se prima si accusava la ministra Stefani di complicità -principalmente- con la Regione Veneto, adesso si accuserà il neo-ministro di voler fare naufragare il progetto.

È la genesi del problema: osservare il tema -che è nazionale- con l’occhio campanilistico.

Contano anche relativamente poco alcune passate dichiarazioni di Boccia sul tema. Quanto detto da membro dell’opposizione spesso viene poi “ripulito” una volta che si passa all’altra sponda del fiume.

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Infine, c’è il nuovo ministro del Sud, che subentra alla poco incisiva Barbara Lezzi. Giuseppe Provenzano, vicedirettore della SVIMEZ, non ha mai risparmiato -come l’associazione di cui fa parte- critiche al progetto di autonomia. Potrebbe quindi far sentire la sua voce.

Sul fronte delle Regioni, soprattutto i governatori di Lombardia e Veneto, ambedue leghisti, potrebbero aumentare i decibel nella discussione, puntando sull’ampio consenso di cui gode l’ autonomia nelle rispettive regioni (che va oltre gli elettori della Lega).

Se gli attori sono noti, molto più incerto appare il merito della questione.

Il nodo principale resta politico. Fino a che il tema sarà tirato dalla giacchetta dalle rispettive compagini territoriali, difficilmente ne uscirà qualcosa di buono.

Poi ci sono gli altri nodi, di metodo e di contenuti. Potrebbero cambiare entrambi. A livello di contenuti, come ha scritto Gianni Trovati su “Il Sole 24 Ore” del 6 settembre, si guarda al modello dell’Emilia-Romagna, che si differenzia in alcuni aspetti rispetto a quello Lombardo-Veneto, come sul caldissimo capitolo scuola.

Ma potrebbe cambiare anche il percorso, attraverso un maggiore coinvolgimento del Parlamento. Su quest’ultimo aspetto andrebbe quantomeno valutata l’opportunità di procedere con una legge di attuazione dell’articolo 116, comma 3, della Costituzione (“Terzo Comma”). Preoccupano le tempistiche di un simile percorso, ma costruirlo ex novo sulla base di trattative -che si complicheranno con un coinvolgimento incerto e privo di riferimenti normativi da parte del Parlamento- non pare essere una strada efficace. Il Terzo Comma è troppo “misero” per fare da base a quella che è in realtà una riforma in grado di cambiare l’assetto istituzionale della Repubblica.

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La legge di attuazione dovrebbe avere lo scopo principale di chiarire, una volta per tutte, il capitolo risorse. Ora, si sostiene in dottrina che la fonte del Terzo Comma 3 sia atipica e rinforzata, quindi una legge ordinaria non potrebbe di certo derogare ad essa senza finire per essere tacciata di incostituzionalità. Ma il Terzo Comma non affronta direttamente il tema delle risorse, si limita a richiamare il rispetto dei principi di cui all’articolo 119.

Ecco perché il capitolo risorse potrebbe essere affrontato dal legislatore in un’ottica di riordino definitivo della disciplina di finanziamento delle regioni a statuto ordinario.

Perché non può che essere il Parlamento, ad esempio, a definire i criteri per la determinazione dei fabbisogni standard, vero nodo economico della questione. Ad esempio, negli Accordi Preliminari del febbraio 2018 , si includeva -a sorpresa- anche il gettito fiscale tra i parametri da utilizzare per determinare i fabbisogni standard, criterio poi abbandonato nel corso delle trattative. Ciò significa che, sebbene in linea di principio vi sia una sorta di unanime consenso per cercare di superare il criterio di finanziamento basato sulla spesa storica -molto distorsivo-, l’argomento è molto più incerto se si passa al tema concreto dell’individuazione dei fabbisogni. Che non a caso occupa il dibattito tra decenni.

Per concludere, a differenza del “Conte 1”, il governo “Conte bis” potrebbe avere meno scontri all’interno della maggioranza, ma un confronto più aspro con le Regioni richiedenti. Il quadro politico potrebbe mutare se i governatori di Lombardia e Veneto fossero più autonomi nella trattativa rispetto al partito di appartenenza -che guiderà l’opposizione all’Esecutivo-  in modo da facilitare il dialogo con il Governo stesso.

Il secondo problema, come detto, riguarda il percorso aspro previsto dalla norma costituzionale, soprattutto in assenza di una legge di attuazione che resta politicamente improbabile.

Ecco perché, anche questa volta, la strada per l’ autonomia differenziata appare in salita.

Twitter @frabruno88