Autonomia differenziata e cittadini di serie A e serie B

scritto da il 15 Luglio 2019

In questi giorni il Governo è impegnato nella ricerca della quadra politica per superare l’impasse relativo all’autonomia differenziata.

Il lavoro va avanti dall’insediamento dell’attuale Esecutivo ed ha prodotto sin ora risultati modesti. Ma si sa, le riforme istituzionali richiedono tempo.

Ecco il primo punto: si tratta di una riforma istituzionale oppure no? La risposta sostanziale non può che essere affermativa. Trasferire la potestà su tutte le materie legislative “concorrenti”, incidere sulla ripartizione dei fondi pubblici, potrebbe mutare l’assetto della Repubblica. Eppure, da un punto di vista di iter, l’approccio è molto diverso.

Solitamente è il Parlamento ad essere la casa naturale delle riforme. Ma il percorso previsto dall’articolo 116, comma 3, della Costituzione prevede per l’organo legislativo un ruolo di ratifica di un’intesa raggiunta tra il Governo e la Regione richiedente maggiore autonomia. Tuttavia, le voci che chiedono un coinvolgimento effettivo del Parlamento nel merito diventano sempre più rumorose e sarà difficile spegnerle.

L’iter suscita perplessità in molti. Ma ci sono almeno altre due questioni di fondo che rappresentano dei veri e propri nodi della vicenda.

Il primo è essenzialmente politico e riguarda il modello di assetto istituzionale dello Stato. C’è stata sempre grande confusione in proposito. Fatta l’Unità, si decise di estendere il modello sabaudo a tutta la penisola. In quella fase, sarebbe stato forse più opportuno lasciare più autonomia ai territori, per permettere una più morbida integrazione, ma si scelse una strada accentratrice. La Costituzione repubblicana sin da subito ha invece fatto delle concessioni alle autonomie, ma mantenendo un atteggiamento ibrido, tentennante. Un’incertezza mantenuta sia con l’istituzione delle Regioni sia a seguito della riforma costituzionale 2001.

Il percorso di autonomia differenziata mira proprio a mettere una toppa ai buchi lasciati dalla riforma del 2001. Quest’utlima ha acuito come non mai la conflittualità Stato-Regioni. Ma la toppa potrebbe essere peggiore del buco, se cucita solo in base a logiche politiche.

Quello che manca, infatti, è, in primo luogo, l’idea di Stato che si ha in mente. Affidarsi ad un mero comma, scritto anche male e privo di una legge di attuazione, appare un rischio. In secondo luogo, manca un’analisi economica che giustifichi il trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni. La stessa dovrebbe precedere il trasferimento, che dovrebbe a sua volta riguardare solo le competenze che potrebbero essere gestite con maggiore efficienza a livello locale.

Non si può (o non si dovrebbe) prescindere dall’impatto che avrebbe la riforma sulle scelte di investimento di operatori privati nazionali o stranieri, che già faticano a dimenarsi nel labirinto (spesso illogico) delle Leggi Regionali.

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Il secondo nodo riguarda le implicazioni di finanza pubblica. Come contemperare l’autonomia differenziata con l’articolo 119 della Costituzione? La sensazione evidente è che non potrà essere un gioco a somma zero, almeno sulla base delle trattative sul tavolo. Tuttavia, pare si voglia procedere inizialmente basandosi sulla spesa storica e, quindi, lasciando sostanzialmente neutro il trasferimento per il bilancio dello Stato. Ma poi, necessariamente, si dovranno definire i fabbisogni standard e, in quella sede, gli effetti potrebbero essere meno equilibrati.

Sarà difficile sciogliere questi due nodi. Anche perché riguardano temi in grado di inasprire il dibattito tra fazioni territoriali.

Vi è però un equivoco politico-mediatico da superare. I critici dell’autonomia lamentano, infatti, che la stessa potrebbe creare cittadini di Serie A e Serie B. Ma la situazione attuale presenta già questo problema. Anzi, dovremmo aggiungere la Serie C eccetera.

Il modello Italiano ha visto crescere lungo la sua storia i divari regionali, che si sono ridotti veramente solo durante il boom economico. Oltre ai dati macroeconomici, ci sono differenze estremamente visibili -e suffragate dai dati- in materia di servizi pubblici, sanità, scuola, infrastrutture.

Oltre alle ragioni storiche, ciò accade perché le Regioni non hanno le medesime efficienze (né mai le avranno). Inoltre, lo Stato fa fatica ad assolvere alla sua funzione di rimozione degli squilibri economici e sociali.

Il dibattito dovrebbe pertanto invertirsi. Non occorre concentrarsi su come impedire che l’autonomia crei cittadini di serie A e serie B (che già esistono), bensì tentare di costruire un modello decentrato più vicino alle esigenze delle persone e dei territori, con uno Stato centrale che possa veramente fungere da garanzia per i diritti individuali dei cittadini ed intervenire in via sussidiaria in caso di inefficienza degli enti locali.

Twitter @frabruno88