Non siamo i vostri schiavi: l’automazione del lavoro tra arte ed economia

scritto da il 23 Ottobre 2019

L’autore di questo post è Nicolò Andreula, economista e consulente strategico, coautore del libro Flow Generation

Nel 2008, all’indomani della crisi finanziaria globale, la regina Elisabetta fece un discorso alla London School of Economics, e rivolgendosi ad esperti di finanza, mercati e macrotrends…disse :

“Come avete fatto a non accorgervene? Perché non ci avete avvisato?”

Quelle parole, secche e fortissime, sanciscono definitivamente la fine della fede cieca del mondo occidentale nei confronti della disciplina economica tradizionale.

Da economista, anzi da laureato in Discipline Economiche e Sociali, mi sento di voler spezzare una lancia nei confronti dei miei colleghi che si occupano di previsioni, anzi di futurologia. È un mondo sempre più veloce, complicato e multipolare, ed è sempre più difficile fornire un’approssimazione del futuro con un ragionevole margine d’errore.

La maggior parte delle previsioni quantitative tradizionali si basano sull’econometria, la statistica, le regressioni. Strumenti che risultano affidabili in situazioni statiche e ripetitive, ma che in un mondo in costante divenire sono buone solo a “prevedere il passato”, come dicono alcuni dei loro critici più acerrimi.

In questo mondo incasinato, oppure VUCA, come lo definiscono gli addetti ai lavori (Volatile, Incerto, Complesso & Ambiguo), c’è dunque bisogno di nuovi strumenti e processi per prepararsi al futuro.

E come spesso accade in questi casi, basta fare un tuffo nel passato: nel 1965, un economista chiamato Jimmy Davidson convince la Shell ad iniziare un’attività chiamata “Long Term Studies” e a scrivere un report immaginando il 2000, cioè il futuro tra 33 anni, con metodi diversi.

La tesi è tanto semplice quanto rivoluzionaria, soprattutto per quei tempi: in un mondo sempre più difficile da prevedere, dobbiamo rinunciare a questo falso senso di sicurezza che ci dà l’approssimazione di una previsione, e passare dallo studio della probabilità a quello della possibilità.

In anni più recenti Angela Wilkinson e la cosiddetta scuola di Oxford, con grande umiltà e senso di realtà, proseguono su questo filone: l’economia dura e pura si arrende all’impossibilità di una previsione univoca e preferisce focalizzare i propri sforzi e il proprio capitale intellettuale per individuare le variabili che possono condizionare il futuro nel breve e nel lungo termine, si mette a giocare con le combinazioni dei vari scenari per capire quali avrebbero l’effetto più devastante.

Questa disciplina è chiamata “Scenario Planning”, ed è ormai utilizzata con successo da grandi multinazionali, società di consulenza ed anche governi nazionali. Per esempio ha aiutato la società mineraria AngloAmerican ad immaginare prima di tutti la fine dell’Apartheid in Sudafrica, e Singapore a prepararsi con successo ad un’epidemia potenzialmente disastrosa come l’influenza aviaria.

La cosa straordinaria, in questo processo iterativo, è l’affiancamento dell’analisi qualitativa agli strumenti quantitativi, cioè delle parole e dell’immaginazione accanto a numeri ed equazioni.

Il valore di queste previsioni è tanto alto quanto la nostra capacità di immedesimarci in queste situazioni, di calarci in questa realtà e provare a pensare come potremmo e dovremmo comportarci.

Per fare questo i numeri non bastano, anzi. Spesso possono essere analgesici o anestetici. Bisogna ricorrere ad uno storytelling grafico, visual, vivido. Ad una narrazione fatta di parole, visioni ed immagini.

Ci abbiamo provato anche io e l’artista Marco Biscardi.

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Nell’opera intitolata “We are not your slaves” (Non siamo i vostri schiavi) abbiamo voluto fare un piccolo esercizio di scenario planning, giocando con un paio di variabili legate all’evoluzione del mondo del lavoro nei prossimi anni:

– Diffusione dell’automazione (alta)

– Intelligenza emotiva delle macchine (molto sviluppata)

– Attitudine nei confronti degli umani (tendenzialmente negativa)

Schiavi delle macchine? Non è uno scenario probabile, ma non è neanche impossibile. È plausibile, e ci è bastato questo. Nessuno sa a cosa potrebbe portare l’autoprogrammazione degli algoritmi di machine learning tra 10 o 20 anni, e come – o in cosa – potrebbero trasformarsi dei robot che scrivono i loro stessi codici.

Non sono un futurologo e neanche uno scrittore visionario come Philip K Dick, che già nel 1968 intitolò un libro con la domanda “Ma Gli Androidi Sognano Pecore Elettriche?”, a cui qualche anno dopo si ispirò il regista Ridley Scott con il capolavoro Blade Runner.

Ecco perché mi limito a proporre la visione di “We are not your slaves” e a riflettere sul futuro del lavoro.

Twitter @NicoloAndreula