Può un’Italia di camerieri e commesse diventare l’Eldorado dei diritti civili?

scritto da il 24 Novembre 2019

L’autore è Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico. Founder della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e vice presidente dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) –

Mentre la situazione Ilva è sempre più grave e complicata, sui social il bersaglio sono i sindacati, sono gli immigrati e i diritti civili, sono il Pd e LeU. In poche parole, la sinistra. “I social seminano fake news, alimentano la disinformazione e la semplificazione, sobillano l’odio sociale!”, dirà qualcuno. Troppo facile, il problema è più complesso e ha una radice razionale che fa più comodo ignorare che affrontare. (lo so, mi ripeto, ma è un leit motiv in questa fase storica).

Per capire la genesi di quello che a prima vista sembrerebbe il 1572° episodio della saga “E allora il Pd?” bisogna, però, mettere ordine tra tanti fattori. E partire da lontano. Ufficialmente il Paese attraversa una perdurante crisi economica da oltre un decennio ma in realtà è in declino da almeno 20/30 anni. In una economia in declino le diseguaglianze aumentano, l’ascensore sociale si blocca, il tessuto civile si sfalda, le speranze si trasformano in frustrazioni, la rabbia aumenta e il dibattito pubblico si imbarbarisce. È fisiologico.

Un semplice esempio: le statistiche sottolineano periodicamente che negli ultimi 10 anni più di 250.000 giovani sono emigrati per cercare fortuna all’estero, stimano che questo fenomeno abbia comportato un danno economico, legato all’investimento nella loro istruzione, quantificabile in qualche decina di miliardi di euro. Ma qual è l’effetto psicologico, sociale e quindi politico di vedere partire tanti giovani volonterosi, preparati e intraprendenti mentre il figlio del professionista, che magari non si è mai impegnato più di tanto e non brilla per preparazione, a 26 anni gira in Mercedes e ha già una posizione nello studio di famiglia? Come si evolve il dibattito pubblico in un Paese dove un’ampia fetta dei giovani più istruiti emigra?

Fino a qualche decennio fa la sinistra avrebbe cercato in ogni modo di intercettare il malcontento delle classi popolari o di quello che resta della piccola borghesia per trasformarlo in consenso ma oggi le cose sono cambiate, Pasolini è stato profetico.

Come osserva Piketty, a votare la sinistra, i partiti progressisti, non sono più in gran parte poveri e piccolo-borghesi, il consenso è diventato trasversale alle classi sociali e se prima era legato in larga parte al reddito, oggi è più correlato all’istruzione che al portafoglio.

Tuttavia, i riferimenti culturali più autorevoli sono rimasti ancorati a una visione politica radicale, utopica, anacronistica: nel 2007, mentre usciva il primo iPhone e il mondo si preparava ad affrontare le conseguenze della crisi dei mutui sub-prime, Zygmunt Bauman pubblicava l’acclamatissimo saggio “Consumo, dunque sono”, in cui formulava una critica durissima al mondo dei consumi e alla cultura di massa. Istanze molto lontane da quelle delle classi popolari, alla ricerca del benessere materiale perduto o mai conquistato e di opportunità di riscatto sociale.

Schiacciata in questo groviglio di contraddizioni, la leadership progressista ha cercato una scorciatoia.

In una società democratica la classe dirigente legittima il suo potere e i suoi privilegi assicurando il benessere collettivo senza comprimere le libertà e i diritti individuali. Se riesce in questa difficile impresa, il suo sistema culturale e valoriale viene emulato dalle masse, trasformandosi in cultura diffusa.

In poche parole: se sei in grado di dimostrare agli altri di essere più bravo di loro non hai bisogno di convincerli a seguirti. E, in una società democratica, far funzionare bene le cose per tutti è il modo migliore per dimostrare il proprio valore.

A scanso di equivoci: colui che individua questo meccanismo, e che lo battezza egemonia morale e culturale, è Antonio Gramsci. E cioè, quello che ufficialmente è uno dei principali riferimenti culturali della sinistra contemporanea.

Incapaci di assicurare il benessere collettivo, i partiti progressisti hanno provato a ribaltare il modello: hanno cercato di far evolvere il sistema valoriale e culturale delle proprie comunità per legittimare il loro potere e i loro privilegi, a dispetto dell’incapacità di proporre un modello di sviluppo in grado di assicurare il benessere collettivo.

Ingaggiando furibonde battaglie sul tema dell’immigrazione, dell’autodeterminazione sessuale, dei diritti civili, i leader progressisti hanno cercato di colmare il vuoto lasciato in ambito socioeconomico, di legittimare il loro ruolo dirigenziale ostentando la loro bontà.

Il calcolo politico si è rivelato drammaticamente sbagliato.

Quando si rimprovera alla cultura di sinistra di aver insistito troppo sui temi etici si incappa inevitabilmente nell’accusa di voler contrapporre benessere e diritti. Beninteso, in molti casi è vero: le narrative conservatrici, che non hanno mai digerito le tante conquiste dei decenni precedenti, stanno cercando di cavalcare il disagio sociale per tornare indietro. Contrapponendo, per l’appunto, il benessere perduto ai diritti conquistati, dall’aborto alla maternità.

Ma è anche vero che questo argomento viene usato come spauracchio per nascondere un aspetto dello sviluppo che alla sinistra non è mai piaciuto: non esiste un esempio nella storia dell’umanità di una società in declino economico in cui libertà e diritti individuali aumentino. La decrescita felice è voodoo.

Si tratta di logica, o di statica se preferite: se le fondamenta di un edificio si stanno deteriorando, aggiungere un altro piano vuol dire solamente aumentare le probabilità che tutta la costruzione venga giù. E le fondamenta delle comunità umane, delle nostre costruzioni socioculturali, sono il benessere diffuso e l’armonia sociale mentre i piani, che costruiamo lentamente ma inesorabilmente, sono i diritti e le libertà.

Non si tratta di contrapporre benessere e diritti ma di accettare che diritti e libertà derivano dalla diffusione del benessere.

Come illustra nella sua opera più famosa (Il processo di civilizzazione, 1983) uno dei padri della sociologia moderna, Norbert Elias, in un sistema economico che non cresce, l’arricchimento passa necessariamente per l’impoverimento di qualcun altro.

Non deve stupire, perciò, che per secoli gli individui più intraprendenti e competitivi invece che studiare, lanciarsi in carriere ambiziose o aprire un’azienda contribuendo al benessere collettivo, passavano gran parte della loro breve vita ad ammazzarsi l’un l’altro, devastando casa loro e quella degli altri.

Interessante un aneddoto riportato da un giornalista britannico a inizio ‘900: “Un membro ereditario della Camera dei Lord britannica lamentò che il primo ministro Lloyd George avesse nominato lord degli individui solo perché erano milionari che si erano fatti da sé e avevano da poco acquistato grandi estensioni di terra. Quando gli fu chiesto ‘Com’è diventato lord il suo antenato?’, rispose severo ‘Con l’ascia da battaglia, signore, con l’ascia da battaglia!’”

Percentuale di aristocratici inglesi morti di morte violenta (%) 
1350-1829

(attualmente il tasso di morti violente in Inghilterra è lo 0,0012%)

schermata-2019-11-24-alle-01-36-58

Fonte: Steven Pinker, Il declino della violenza

L’opera di Elias riprende in maniera vistosa alcuni aspetti di quella del padre della sinistra moderna, Karl Marx. È lui, infatti, che mette l’economia al centro dell’analisi storica. Quando analizziamo una civiltà del passato oramai la prima cosa che ci chiediamo è: di che tecnologia disponevano? Quanto grano e quanto ferro producevano?

Cortés con un manipolo di uomini, qualche centinaio di soldati in tutto, è riuscito a sottomettere venti milioni di aztechi. Beh, chiaro, gli spagnoli avevano corazze di ferro, cavalli e armi da fuoco mentre gli aztechi combattevano seminudi, pensavano che i cavalli fossero creature mitologiche e le armi da fuoco strumenti magici.

Oggi sembra naturale pensare così ma prima di Marx non lo era. Uno storico settecentesco avrebbe spiegato il successo di Cortés con ragioni razziali oppure incentrando la sua ricerca sul carattere dei popoli sudamericani, evidentemente debole e predisposto alla sottomissione.

Partendo dall’idea che gli uomini non sono tutti uguali, non interessava tanto approfondire di che mezzi disponessero. Se eri sottosviluppato, se eri povero, se eri ignorante, chiaramente eri nato con qualche caratteristica che ti predisponeva a esserlo. E si studiavano i teschi (la frenologia) per capire che caratteristiche fisiche avessero gli individui “superiori”.

Frederich Engels, l’altro autore del Manifesto del partito comunista, sintetizza la prospettiva storica marxista in una celebre lettera:

“L’evoluzione politica, giuridica, filosofica, religiosa, letteraria, artistica, ecc. poggia sull’evoluzione economica. Ma esse reagiscono tutte l’una sull’altra e sulla base economica. Non è che la situazione economica sia causa essa sola attiva e tutto il resto nient’altro che effetto passivo. Vi è al contrario azione reciproca sulla base della necessità economica che, in ultima istanza, sempre s’impone.”

Cinquecento anni prima, con sublime sintesi, il Sommo Poeta aveva scritto qualcosa di molto simile: “più dell’onor, potè il digiuno”.

Sorprendentemente nella stessa lettera – ma è un tema ricorrente nei suoi scritti – Engels si scaglia contro il pietismo che, nella sua concezione, è “la maschera per coprire lo sfruttamento disumano delle sfortunate masse e la povertà della vita intellettuale”. Tradotto: le belle parole e i gesti caritatevoli delle crocerossine (in quell’epoca gran parte delle donne di buona famiglia era impegnata in “opere di carità”) coprono con un sudario d’ipocrisia la fame dei poveri e i soprusi dei padroni (i mariti delle crocerossine), impedendo lo sviluppo di un dibattito pubblico che affronti seriamente l’ingiustizia sociale (quella che nella concezione di Marx e Engels sarebbe stata la premessa della dittatura del proletariato e che invece è stata l’anticamera della rivoluzione liberale).

A qualcuno dovrebbero fischiare le orecchie.

Negli ultimi anni in molti, da Giacomo Papi a Giorgio Cremaschi, hanno notato l’assonanza tra l’accusa di pietismo e quella di buonismo.

Curiosamente, però, l’hanno ricollegata tutti alla retorica fascista, che accusava di pietismo chiunque si schierasse contro alle politiche razziali del regime. A dispetto delle tante, becere, strumentalizzazioni è pretestuoso ricondurre l’accusa di buonismo a una matrice razziale, mentre sembra decisamente più aderente quella sociale, che, invece, presenta impressionanti assonanze con l’accusa di pietismo formulata da Engels.

Tirando i fili di quella che potrebbe sembrare una lunga e pretestuosa digressione – mentre è una premessa necessaria – la sinistra deve rassegnarsi a essere il bersaglio politico di qualsiasi crisi sociale, industriale o finanziaria che scuoterà il Paese nei prossimi anni.

La deriva mistica degli ultimi anni, infatti, ha avuto un effetto duplice.

Da una parte, ripudiando le leggi fondamentali che governano lo sviluppo delle comunità umane, elaborate in secoli di osservazioni empiriche passate attraverso la lente di numerose discipline scientifiche (dall’antropologia all’econometria), la cultura progressista si è affidata a emozioni e suggestioni, perdendo il contatto con la realtà.

Dall’altra, ridisegnando la sua identità politica, la sinistra ha tradito le classi popolari, a cui aveva promesso una cosa, e solo una: estendere anche a loro i privilegi del benessere materiale. Tutto il resto, dalla cultura dell’accoglienza ai diritti di genere, è venuto dopo e solo grazie ai buoni risultati ottenuti in campo economico e sociale. Oggi può sembrare stupefacente ma fino al 1970 il tema dei diritti degli omosessuali era assente dal dibattito pubblico.

Diffusione delle tematiche relative ai diritti civili nel dibattito pubblico

(% di testi che trattano i rispettivi temi [diritti civili in generale, diritti delle donne, diritti dei bambini, diritti degli omosessuali, diritti degli animali] rispetto al numero di testi analoghi pubblicati nel 2000)

schermata-2019-11-24-alle-01-36-38

Fonte: Steven Pinker, Il declino della violenza

Forse sarebbe il caso di mettere per un attimo da parte la biografia della trentenne Alexandra Ocasio-Cortez o il libro di Greta Thunberg per riprendere in mano qualche classico. Sembriamo aver dimenticato che, se possiamo guardare così lontano, è perché siamo seduti sulle spalle di giganti.

In un Paese dove tutti sono sulle barricate per difendere qualcosa è impensabile progredire.

L’Italia non ha semplicemente bisogno di posti di lavoro ma di posti di lavoro ad alto valore aggiunto, che assicurino, cioè, un reddito medio-alto, sufficiente a garantire un elevato livello di servizi pubblici attraverso una contribuzione fiscale equa. Per creare posti di lavoro ad alto valore aggiunto il sistema produttivo deve essere complesso, innovativo, competitivo, dinamico. Per sviluppare un sistema produttivo all’avanguardia il Paese deve essere in grado di attirare capitali e capitalisti, innovatori, pensatori, deve essere capace di sfruttare l’ingente capitale umano di cui già dispone. E, quindi, puntare tutto sulla tassazione dei redditi più elevati è un autogol, per quanto sia impopolare dirlo.

E le fabbriche? Certo, oggi ci possono apparire il retaggio di un passato povero e lontano, il simbolo di un modello di sviluppo ad alto impatto ambientale e sociale. Oltretutto, da quando la Cina è diventata la fabbrica del mondo che senso ha parlare di fabbriche in Italia?

La nostra Repubblica, però, è fondata sul lavoro, non sull’ambizione. Non si può, e non si deve, pretendere da tutti una carriera da cardiochirurgo o fisico nucleare. Le fabbriche, perciò, servono, offrono uno stipendio a chi vuole semplicemente farsi una famiglia e mantenerla dignitosamente senza essere costretto ad andare a fare la spesa con la carta del reddito di cittadinanza. Bisogna ingegnarsi per renderle meno invasive dal punto socio-ambientale, senza sacrificare la competitività.

All’apparenza un rebus, in realtà la politica.

Se vuole arrivare ai diritti, la sinistra è da qui che deve partire. Tutto il resto verrà dopo, naturalmente e conseguentemente.

Sembra fede, sembra ideologia? Guardate l’Irlanda. Ieri un Paese povero, retrogrado, chiuso. Terra d’emigrazione. Oggi un Paese accogliente, ricco, dinamico, in cui la Chiesa d’Irlanda – fino a ieri una delle componenti più conservatrici della Chiesa Cattolica – ha lasciato libertà di coscienza ai fedeli nel referendum per mettere in Costituzione i matrimoni gay. E il referendum è passato, con l’appoggio di tutte le principali forze politiche.

Nel mezzo? Quattro decenni di prodigiosa crescita economica.

È realistico credere che un’Italia di camerieri e commesse a 800/1200 euro al mese diventi l’Eldorado dei diritti civili? Mentre i crescenti ammanchi di bilancio, dovuti al declino economico, metteranno in discussione la sanità e l’istruzione pubblica (in realtà già lo fanno) è credibile immaginare una società sempre più equa? Che senso ha parlare di solidarietà in un Paese in cui un povero per uscire dalla condizione di povertà ci mette mediamente 5 generazioni?

Numero di generazioni necessarie per passare dalla condizione di povertà relativa a quella di benessere minimo o modesto (reddito mediano)

schermata-2019-11-24-alle-01-31-54

Fonte: OCSE

Charles Darwin veniva da una famiglia di antischiavisti. Il padre, la madre, gli zii erano tutti antischiavisti, invischiati con quelli che per l’epoca erano terroristi, in un sistema giuridico dove lo schiavismo era legale e l’antischiavismo illegale (A. Desmond, J. Moore. La sacra causa di Darwin). Sin da ragazzo leggeva avidamente testi rivoluzionari e frequentava persone colorate, come si chiamavano allora. Comportamento deprecabile nell’Inghilterra di metà Ottocento. Ma per convincere i suoi contemporanei che gli uomini sono tutti uguali glielo ha dimostrato, partorendo la teoria più solida e più rivoluzionaria della storia della Scienza, non ha passato la vita a sferzarli sagacemente con la sua erudizione.

Perché aveva ben chiaro che, alla fine, le parole in sé, per quanto belle, “cose d’aria sono”.

Twitter @enricomariutti