Cina e capitali: tra benefici per l’economia e rischi per la sicurezza

scritto da il 17 Dicembre 2019

Post di Mario Angiolillo e Flavio Menghini. Angiolillo è direttore dell’Osservatorio Relazioni EU-UK-USA di The Smart Institute. Esperto di tematiche geopolitiche e di relazioni internazionali, svolge attività di advisory per diverse società con particolare riferimento agli impatti e alle opportunità offerte da Brexit. Menghini, esperto di commercio internazionale e foreign direct investment, si occupa in particolare di relazioni esterne dell’Unione Europea e sviluppo sostenibile – 

L’Unione Europea si conferma ancora una volta un attore capace di affrontare in maniera efficace i rischi sottesi a un’economia globale. Non vi è alcun dubbio che i benefici delle global value chains e di un mondo quasi completamente interconnesso siano innumerevoli – e folle sarebbe isolarsi – ma non si può nemmeno dimenticare che la circolazione sempre più libera dei capitali presenta delle sfide senza precedenti. Le possibilità offerte agli investitori stranieri di acquisire assets e tecnologie strategiche hanno una portata epocale con pesanti ripercussioni sugli equilibri geopolitici, in particolare lungo la direttrice occidente-estremo oriente.

Dopo avere affinato le proprie abilità con innumerevoli battaglie a tutela dei cittadini europei contro le minacce interne – prodotti difettosi e trasparenza dei prezzi, trasporti aerei e degli animali domestici, sicurezza agroalimentare, clausole contrattuali e pratiche commerciali abusive etc. – l’UE sta volgendo l’attenzione in maniera sempre più marcata verso le minacce che dall’esterno incombono sui propri cittadini. Basti pensare all’incessante attività a difesa dei consumatori condotta dalla commissaria Margrethe Vestager contro i giganti della tecnologia; oppure alle tutele sempre più marcate offerte ai produttori dell’agroalimentare europeo negli accordi commerciali firmati dall’Unione – non si dimentichi che le 41 Indicazioni Geografiche italiane che rappresentano il 98% dell’export di prodotti IG in Canada godono finalmente, grazie al nuovo accordo commerciale CETA, di meccanismi di tutela contro le contraffazioni anche in terre canadesi.

huawei5g1Alla luce di ciò, non vi erano dubbi che l’Unione Europea, per vero spronata da Italia, Francia e Germania, e incalzata dall’esterno dagli Usa, sarebbe intervenuta in una delle questioni più spinose del nostro tempo: lo screening dei capitali extracomunitari impiegati per l’acquisto di aziende e tecnologie strategiche. I flussi di capitale di cui si parla sono inquadrati nel cosiddetto foreign direct investment (FDI), di gran lunga uno degli argomenti più controversi e dibattuti a partire dalla seconda metà del secolo scorso – i temi sono molteplici: lo sfruttamento delle risorse dei Paesi in via di sviluppo, la tutela ambientale, le implicazioni socio-economiche, i problemi legati alla corruzione etc. A tutto ciò si sono aggiunti, più di recente ma in maniera sempre più preponderante, i timori legati alle implicazioni per la sicurezza nazionale dell’acquisizione di aziende strategiche in settori chiave da parte di rivali geopolitici che potrebbero procurarsi in questo modo un’influenza indebita all’interno del nostro Paese e degli altri Stati membri.

Per vero, in Italia è già presente una norma sullo screening degli investimenti stranieri – si veda il Decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, successivamente convertito e integrato, da cui il cosiddetto golden power del Governo – tuttavia sarebbe sufficiente che un solo Paese membro ne fosse sprovvisto per creare forti vulnerabilità all’intero apparato europeo, e di Paesi privi di tali meccanismi ve ne sono ben tredici.

È in questo contesto che lo scorso marzo l’UE ha promulgato un regolamento che, da un lato, “istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione … per motivi di sicurezza o di ordine pubblico” (art. 1, par. 1) e, dall’altro, “un meccanismo di cooperazione” che ha ad oggetto i medesimi investimenti. In attesa che il regolamento trovi applicazione a partire dall’11 ottobre 2020 (Regolamento UE 2019/452), risulta utile presentare alcune considerazioni.

In primo luogo, non si possono sottovalutare le difficoltà prodotte da un meccanismo di pre-screening, ossia rallentamenti e una possibile riduzione dei capitali in entrata. Se da un lato infatti chiunque sarebbe in principio concorde sulla necessità di tutelare gli interessi nazionali a fronte di ingerenze straniere, dall’altro appare assai più complesso trovare un equilibrio adeguato tra le esigenze di capitale per creare lavoro, gli interessi degli imprenditori e la sicurezza nazionale. Inevitabile che alcuni Stati membri, desiderosi di sostenere l’economia con iniezioni di capitale straniero, non abbiano mai introdotto norme che gli investitori stranieri potrebbero percepire come degli ostacoli.

Come conseguenza diretta di tali complessità, si aggiungono quelle di un legislatore europeo indebolito da Paesi membri forieri di interessi divergenti che hanno inevitabilmente ridotto la portata del regolamento in analisi, il quale non prevede infatti un meccanismo di screening bensì delle linee guida sussidiarie al riconoscimento degli investimenti potenzialmente pericolosi nonché un meccanismo di cooperazione tra Stati membri e tra Stati e Commissione – la disciplina dello screening viene infatti demandata per intero ai singoli Stati. Per inciso, è utile ricordare che, secondo il dettato delle norme sull’attribuzione delle competenze tra Unione e Stati membri, la sicurezza nazionale è un ambito nel quale gli Stati hanno competenza esclusiva e per un’uniformazione europea non è sufficiente l’assenso della maggioranza degli gli Stati membri – non a caso si precisa che “nessuna disposizione del presente regolamento limita il diritto di ciascuno Stato membro di decidere se controllare o meno un particolare investimento estero” (art. 1, para. 3).

Infine, in mancanza di un meccanismo uniforme a livello comunitario, si presenta il problema della expertise necessaria per affrontare un tema tanto intricato – non si dimentichi che gli investimenti potenzialmente pericolosi sono pochi e che costruire ex novo un impianto legislativo che riesca a fermarli senza imporre appesantimenti inutili e indiscriminati richiede competenze che non sempre gli Stati possiedono. Ciononostante, un indubbio merito del nuovo regolamento europeo sta nell’introdurre il succitato meccanismo di cooperazione, il quale non solo renderà più vigili gli Stati membri finora inerti, ma potrà anche aiutarli ad individuare investimenti potenzialmente problematici che sarebbero altrimenti sfuggiti ad un attento esame.

A tal proposito appare utile sottolineare come la nascita di questo regolamento guardi indubbiamente anche all’estremo oriente ed in particolare alla Belt and Road Initiative (BRI), la cosiddetta Nuova Via della Seta, il progetto lanciato nel 2013 dal presidente cinese Xi Jinping con l’obiettivo di creare un grande spazio economico eurasiatico.

L’entità complessiva degli investimenti previsti dal progetto cinese è sontuosa e prevede una serie di iniziative secondo lo schema della partnership pubblico-privato tra soggetti internazionali. Il Governo Cinese investirà ingenti risorse ma all’interno dei singoli progetti sono previsti anche investimenti pubblici da parte dei Paesi toccati dalla BRI e da parte di soggetti privati. Per supportare una così ingente quantità di investimenti è stata costituita dal Governo Cinese una Task Force finanziaria, con presenza di azionisti anche esteri, composta da ICBC (Industrial and Commercial Bank of China) che dispone al momento di un fondo dedicato ai progetti BRI per un ammontare pari a 460 miliardi di dollari, AIIB (Asian Infrastructure Investment Bank) con un fondo di 100 miliardi di dollari e Silk Road Fund con una dotazione di 40 miliardi di dollari. Secondo le stime dell’Ufficio Nazionale di Statistica di Pechino almeno 1700 miliardi di dollari saranno investiti nel complesso degli interventi programmati.

Il regolamento UE in esame si inserisce nel quadro in uno sforzo legislativo comunitario volto ad affrontare le numerose perplessità legate alla Belt and Road Initiative. Non si dimentichi anzitutto il tema relativo al rispetto delle normative da parte dei soggetti coinvolti nei progetti avviati. È questo ad esempio il caso della linea ferroviaria Belgrado-Budapest che ha visto l’opposizione dell’UE che ha ravvisato il sospetto di presunte irregolarità sul rispetto delle normative comunitarie.

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Ma ancor più rilevante per la nostra analisi è il tema economico-finanziario. Alcune perplessità sono state riscontrate su quanto accaduto in Paesi quali Pakistan, Sri Lanka o Mongolia, dove gran parte delle operazioni di competenza di questi Paesi è stata finanziata con ingenti risorse da banche e imprese cinesi, di fatto legando i Paesi beneficiari alla Cina in uno stretto legame di dipendenza economico-finanziaria.

Non stupisce quindi che il regolamento UE 2019/452 voglia evitare che i capitali cinesi possano prendere il controllo delle infrastrutture critiche, tecnologie, e i fattori produttivi “essenziali per la sicurezza o il mantenimento dell’ordine pubblico” (Preambolo, 13). Non bisogna infatti dimenticare il tema relativo alla possibile partecipazione della cinese Huawei nell’implementazione della rete 5G nei Paesi europei, partecipazione fortemente osteggiata dagli Usa e dal fronte dei Five Eyes (USA, UK, Canada, Australia e Nuova Zelanda) secondo cui la possibilità di accesso ad informazioni sensibili nei Paesi NATO da parte dell’azienda di Shenzhen, di fatto controllata da Pechino, rappresenterebbe una pericolosa ed inaccettabile ingerenza del Dragone in settori di interesse nazionale.

Come già accennato più su, tuttavia, il nuovo regolamento UE non pone sugli Stati membri un obbligo di screening degli investimenti in entrata, ma si limita a creare un framework operativo e ad istituire un meccanismo di cooperazione – il che si traduce nella totale autonomia degli Stati membri di accettare o meno l’ingerenza cinese nella tecnologia 5G così come in altre strutture strategiche. Non si può però dimenticare che, come oramai da tradizione nella storia dell’Unione Europea, il progresso è fatto non di grandi balzi in avanti ma di piccoli passi nella giusta direzione.

Twitter @DottAngiolillo

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