Giulio Einaudi editore, i difetti leggendari e il fiuto per i libri di successo

scritto da il 02 Febbraio 2020

Luigi e Giulio Einaudi. Padre e figlio. Due persone profondamente diverse. Luigi studioso di fama, professore di Economia a soli 28 anni. Il figlio non laureato. Il futuro presidente della Repubblica sposato con Donna Ida per tutta la vita. Giulio, due matrimoni, sei figli, tre nel primo e tre nel secondo. Il presidente della Repubblica sobrio, che divide una pera con i commensali al Quirinale, il secondo che non si cura dei conti della casa editrice (facendo preoccupare parecchio il padre). Luigi, uomo di grandi letture, pacato, il figlio Giulio istintivo, collerico, preda di giudizi sferzanti. Insomma, due soggetti veramente differenti, con lo stesso cognome.

Nel mese di novembre a Dogliani (Cuneo) si è ricordato in grande stile l’editore Giulio Einaudi scomparso 20 anni fa. Nella storia italiana la casa editrice ha svolto un ruolo molto rilevante. Non si contano gli autori, nonché collaboratori, che hanno segnato il Novecento: Cesare Pavese, Leone e Natalia Ginzburg, Elsa Morante, Norberto Bobbio, Italo Calvino, Elio Vittorini.
La casa editrice nasce a Torino, la città di Antonio Gramsci e Piero Gobetti, come ditta individuale nel 1933 (Giulio Einaudi era ventunenne) con la sede in Via Arcivescovado 7, per poi trasformarsi in Società per azioni nel 1954.

Così il fondatore della casa editrice racconta: “Eravamo quattro gatti: c’erano difatti una segretaria, un fattorino, e c’era Leone Ginzburg che abbiamo subito stipendiato, nel marzo ’36, appena uscito dal carcere di Civitavecchia…E circa un anno dopo o poco più anche Cesare Pavese, di ritorno dal confino, fu stipendiato, anche se all’inizio non ne voleva sapere”.
Note sono le difficoltà affrontate dalla casa editrice durante il fascismo. Pavese al confino, Mila e Foa in carcere, Ginzburg morto a Regina Coeli per le torture, Giaime Pintor saltato su una mina. Raffaele Mattioli, allora amministratore delegato della Banca Commerciale italiana, lo aiutò finanziariamente (“Qui hanno messo dentro tutti della casa Einaudi”) e non, concedendogli anche il simbolo dello “Struzzo” con un chiodo in bocca e con la scritta “spiritus durissima coquit”, “lo spirito, insomma, la cultura, può aiutare a digerire anche i tempi di ferro che stiamo attraversando”.

Giulio Einaudi (1912-1999) è stato un insieme di moltitudini, un uomo geniale, capriccioso, ingombrante, che in qualche modo travolge la severa tradizione di famiglia. Recentemente Pietro Citati così ha definito Einaudi: “Non sapeva niente. L’intelligenza unita all’ironia lo spaventavano. Ma sapeva scegliersi gli uomini. E aveva il dono di capire se un libro poteva aspirare al successo. Non è poco per un editore. I suoi difetti sono diventati leggendari, man mano che passavano di bocca. Si era immedesimato nella parte del figliolo del re (“il principe dell’editoria”, ndr) a cui tutto è lecito. Durante certi pranzi infastidiva i commensali – da Fruttero a Manganelli – rovistando nei loro piatti”.

Roberto Einaudi, il secondo dei tre figli di Luigi, professore ad Harvard, tra i fondatori del gruppo Techint, disse parafrasando Churchill: “Buono o cattivo, è mio fratello”. Non gli negò mai nei momenti di difficoltà della casa editrice, un sostegno finanziario incondizionato. Fu grazie a Roberto che la tenuta di famiglia a San Giacomo in Dogliani venne salvata dal dissesto della casa editrice dei primi anni Ottanta.

Giulio e Luigi Einaudi

Giulio e Luigi Einaudi

Sicuramente Giulio era ben diverso dal padre, uomo di un rigore leggendario, che aiutò il figlio al momento della costituzione: “Ci aveva messo capitali, contatti, consigli, idee, prestigio scientifico e morale” (Ernesto Ferrero, cit.). Tra l’altro suggerendo a Giulio di andare da Luigi Albertini, già direttore del Corriere della Sera, per proporgli di diventare socio dell’iniziativa. Successivamente Luigi Einaudi, in qualità di presidente della Repubblica – dal 1948 al 1955 – si tenne molto alla larga, per paura di essere coinvolto nelle difficoltà della casa editrice. In precedenza, nel diario scritto negli anni dell’esilio in Svizzera tra il 1943 e il 1944, mostra più di una preoccupazione per le sue simpatie comuniste.

Negli anni Ottanta tutto il mondo dell’editoria se la passava bene. L’”Italia va”, disse il presidente del Consiglio Bettino Craxi, senza specificare che la crescita era drogata dall’esplosione del debito pubblico. Le vendite crescevano e il conto economico degli editori era denso di soddisfazioni. Antonio Sellerio, figlio di Enzo ed Elvira Sellerio, in un dialogo con Paolo Bricco dice: “Gli anni Ottanta furono di grande spolvero. La casa editrice aveva ormai una sua precisa e nitida identità: nel marchio e nei libri come oggetti che si riconoscono a distanza. Le vendite andavano bene. Gli anni Novanta sono stati più complicati”.

La cosa che sorprende in questo contesto favorevole è il fallimento della Giulio Einaudi S.p.A. nel 1983, nel decennio favorevole per l’editoria italiana. Infatti il 29 dicembre 1983 il tribunale di Torino dichiarò lo stato di insolvenza della Giulio Einaudi Editore S.p.A. Successivamente, nel decreto del 25 gennaio 1984, firmato da Renato Altissimo, allora ministro dell’industria, vista la sussistenza dei requisiti, la casa editrice fu assoggettata alla procedura di amministrazione straordinaria, che venne successivamente prorogata fino al 1997. L’Elemond (originariamente nata dall’accordo tra Electa e Arnoldo Mondadori) comprò la maggioranza delle azioni della casa editrice Einaudi. A fine 1994 gli azionisti dell’Elemond, i signori Vitta Zelman e Fantoni, vendettero la maggioranza delle azioni Elemond alla Mondadori, che si ritrovò quindi tutto il catalogo Einaudi.

Spesso nel ricercare le cause del dissesto di un’azienda ci si concentra sulla storia recente. Ha invece senso andare più in là nel tempo. Il decano di economia aziendale prof. Vittorio Coda, nel ripercorrere le vicende del Banco Ambrosiano, scrisse: “Se vogliamo capire perché una bella banca come questa è andata a finire su una china rovinosa, dobbiamo risalire a parecchi anni indietro”. Così è opportuno fare con la Giulio Einaudi Editore, caratterizzata da una assoluta assenza di controllo dei costi e da una gestione di bilancio superficiale. Probabilmente il convincimento profondo di Giulio Einaudi era che lo sviluppo culturale dovesse prevalere su tutto. Anche a scapito del risultato economico. Però, a trascurare la corretta gestione, prima o poi il redde rationem arriva.

Il 29 ottobre 1954 Giulio Einaudi vendette ad uno sconosciuto Lorenzo Albanese un millesimo della ditta individuale Giulio Einaudi Editore, trasformandola in società semplice. Immediatamente dopo i due soci costituirono la Giulio Einaudi Editore S.p.a. Il ruolo di Lorenzo Albanese, all’interno della compagine sociale, fu molto breve: il 1957 cedette la propria quota e si dimise da tutte le cariche societarie.

Il mutamento della natura giuridica della casa editrice fu per Giulio una scelta obbligata. L’editore aveva accumulato ingenti debiti (nell’ordine di centinaia di milioni di lire) con diverse banche. Il 5 ottobre 1946 il banchiere Anton Dante Coda – presidente dell’Istituto San Paolo di Torino – annota nei suoi diari (Un malinconico leggero pessimismo. Diario di politica e di banca (1946-1952): “Al mattino sono ricevuto da Einaudi alla Banca d’Italia. Conosco Menichella, direttore generale che mi fa un’ottima impressione, energico, chiaro e soprattutto simpatico, il che non guasta. Tratto con lui la situazione della casa editrice Einaudi”. Il 15 novembre 1946 sempre Coda scrive: “Visita al sen. Einaudi alla Banca d’Italia (dove era Governatore, ndr). Gli prospetto la situazione della casa editrice del figlio Giulio. E’ combattuto fra il desiderio di aiutarlo e la preoccupazione di profondere in un baratro i risparmi accumulati in tanti anni di sudato risparmio. <Figlio mio…figlio mio!>”

Carte del Fondo Restituzione Antonini presso l’Archivio Banca Commerciale italiana riportano che nel 1950 Mediobanca aveva rifiutato ad Einaudi un cospicuo finanziamento in quanto la casa editrice era ditta individuale e quindi c’era un evidente squilibrio fra mezzi propri e capitale sociale.

Il banchiere di Mediobanca Enrico Cuccia rispose negativamente così: “Egregio dr. Einaudi,…come Le avevo fatto prevedere, è da escludere la concessione di una finanziamento a medio termine ad una ditta unipersonale. D’altra parte, però, una trasformazione giuridica dell’azienda metterebbe ancora di più in evidenza il problema del rapporto tra i mezzi propri ed i mezzi dei terzi, sottolineando la necessità di procedere in primo luogo ad una sistemazione del capitale dell’impresa”. Due anni dopo, sempre le stesse carte, attestano d’un primo progetto di trasformazione della ditta individuale in società per azioni con contestuale aumento di capitale mediante prestito obbligazionario. Abortito probabilmente perché non in grado di risolvere le rilevate criticità aziendali.

Il banchiere Coda al 1° giugno 1951 scrive: “Roma. Visita a Menichella al quale prospetto sinceramente la difficile posizione di Giulio Einaudi ed i pericoli che può far correre alla reputazione del padre. Discorso sulla situazione della direzione del San Paolo ed implicita approvazione della mia tattica dilazionatrice”. Dalla lettura dei bilanci della storia della casa editrice emerge la costante precarietà dei conti. Si susseguono esercizi in perdita, con l’auspicio – spesso smentito – che l’anno successivo sia migliore.

Agli inizi del 1954 l’Einaudi aveva una situazione patrimoniale decisamente compromessa. Una relazione della Banca commerciale riferisce che, alla data del 7 agosto 1954, i debiti verso le banche fossero lievitati a 360 milioni e nel complesso la ditta avesse passività per 1750 milioni di lire. Il presupposto della trasformazione, secondo i consulenti della banca, era che Giulio Einaudi s’accollasse debiti per oltre 328 milioni di lire. La Relazione, in ogni caso, sconsigliava di procedere ad una trasformazione da ditta individuale a società per azioni anche per le difficoltà di una perizia giurata ai sensi dell’art. 2343 c.c.

Giulio Einaudi non ritenne di accogliere il suggerimento e scelse di procedere comunque ad una trasformazione che avvenne appunto il 29 ottobre 1954. Precedentemente, stando a documentazione non autenticata allegata al relativo verbale assembleare, Giulio Einaudi avrebbe proceduto, il 26 agosto 1954, a richiedere al Tribunale di Torino la nomina di un perito. Il cui Presidente, dott. Emilio Germano, il giorno successivo avrebbe nominato perito Luciano Giuseppe Foà il quale, infine, il 27 ottobre 1954 avrebbe prestato giuramento nella Pretura di Torino.

Luciano G. Foà in verità non era un soggetto terzo ed estraneo in quanto dirigente dal 1943 dell’Einaudi stessa. In quanto collaboratore della società perizianda, Foà aveva un gigantesco conflitto di interesse nello svolgere il compito di consulente tecnico del tribunale nella fase di stima del capitale sociale. E l’indipendenza prescritta dalla legge?

Il perito, nella sua relazione, riferì che la situazione patrimoniale sottesa al suo esame fosse stata fornita dalla contabilità aziendale alla data del 7 agosto 1954 e quantificò le passività in “sole” 935 milioni e le attività in 985 milioni di lire. Con un avanzo pertanto di 50 milioni di lire che costituì l’originario capitale della Giulio Einaudi editore S.p.a.

Il 3 novembre 1954, Giulio Einaudi depositò, nella cancelleria del Tribunale di Torino, la richiesta d’iscrizione nel registro delle imprese presso il Tribunale. Il detto Tribunale, presieduto dal dott. Emilio Germano, il 13 novembre 1954 omologò la trasformazione.

Il ricorso al Tribunale per la nomina del perito estimatore, il decreto di nomina, la perizia giurata in Pretura in verità non pare siano mai esistiti. Nel corso degli anni, il Tribunale di Torino ha versato all’Archivio di Stato di Torino i fascicoli della Volontaria Giurisdizione del Tribunale e della Pretura di Torino, sicuramente quelli del 1954. Pur se ricercati, i detti fascicoli non risultano esservi. Gli stessi d’altronde non sono neppure citati nelle rubriche giudiziali. Si trova invece il fascicolo della trasformazione in spa della ditta individuale.

Nonostante la stranezza delle operazioni di costituzione della società per azioni Giulio Einaudi Editore la situazione contabile della casa editrice nondimeno non mutò in meglio. Tanto è vero che nel 1956 nella relazione del consiglio di amministrazione si legge: “Il bilancio che vi presentiamo al termine del secondo esercizio di vita della Società registra nuovamente una perdita e rispecchia una situazione tuttora difficile. Sarà nostra cura informarVene compiutamente […].

Ancor prima di passare all’esame delle cifre occorre dire infatti che la situazione finanziaria presente aspetti di innegabile pesantezza. La trasformazione da ditta personale a Società per azioni, avvenuta in quella forma largamente democratica che Voi conoscete, consentì a suo tempo un apporto di capitale di circa 350 milioni…In realtà… la necessaria riorganizzazione aziendale, se da un lato ha consentito un assetto rispondente alle caratteristiche e alle esigenze della nostra attività, dall’altro non ha potuto evitare che venisse intaccato il capitale, che già inizialmente, poteva sostenere il nostro giro finanziario solo entro limiti di stretta misura.

Questa situazione ha caratterizzato anche l’ultimo esercizio. Pur presentando esso dei risultati ben più confortanti che non l’esercizio precedente, il pareggio che il secondo semestre della gestione 1955 aveva lasciato sperare non è stato ancora raggiunto. Il profitto industriale, infatti, il cui ammontare è di L. 63.338.381, non è stato sufficiente a coprire il sostenimento degli oneri finanziari che assommano a L. 128.842.761. Di conseguenza l’esercizio si chiude con una perdita di L. 65.504.380 che va ad aggiungersi alla perdita di L. 235.391.905 verificatasi nell’esercizio precedente”.

Se il valore delle vendite era passato da L. 541 milioni del 1955 a L. 675 nel 1956, gli oneri finanziari ammontarono a quasi 129 milioni. Il rapporto oneri finanziari/fatturato era altissimo, intorno al 19%, evidentemente a causa di una struttura finanziaria del passivo sbilanciato sul capitale di debito (rispetto al capitale proprio). Una situazione a lungo andare insostenibile.
La proposta all’Assemblea non poté che essere la seguente: “Questo capitale risultante in nominali L. 395.467.00 è ormai perso per L. 300.896.285 – ai termini del bilancio che Vi presentiamo, e Voi siete tenuti a deliberare la sua riduzione, considerando che il netto aziendale è di L. 94.570.715”.

Grazie alle ricerche di Sandro Gerbi, possiamo dire che proprio nel 1955 nel “Notiziario Einaudi” – in un articolo forse steso da Italo Calvino e intitolato “La responsabilità dei lettori e i problemi dell’autonomia editoriale” – si ammetteva che la casa editrice aveva attraversato “periodi difficili”; senza però “mai deflettere dalla sua linea d’azione, ispirata al proposito di contribuire al consolidamento e al rinnovamento della nostra cultura”. Orgogliosamente si sosteneva che “il problema posto da una gestione editoriale non è e non può essere considerato come un problema puramente economico”. Perché all’attività editoriale competevano ben altre “responsabilità” e “dignità”.

Nell’assemblea degli azionisti del 21 giugno 1957 il socio dr. Giovanni Arduin prende la parola e critica fortemente l’operato degli amministratori. A verbale si legge: “Disapprova l’impostazione del Conto Economico e chiede spiegazioni sul numero dei Dirigenti e degli impiegati e sugli stipendi degli stessi, trovando eccessivo il numero dei Direttori e Procuratori dell’Azienda tra i quali anche il Direttore Tecnico, che, secondo lui non sarebbe necessario, dato il genere di attività dell’azienda stessa, e sottolinea il contrasto tra le cifre del Passivo del Bilancio 1956 con quelle risultanti dalla perizia Foà, inserita all’atto di trasformazione dell’azienda in Società, e per conto l’enorme aumento delle Voci “Crediti rispetto alla perizia costitutiva…dichiarando non solo di non condividere l’ottimismo e le speranze del Consiglio di Amministrazione, ma di essere profondamente pessimista sull’avvenire dell’azienda che, secondo lui, non può che finire, essendo bacata sin dall’inizio della vita si Società per Azioni per il probabile accollo alla Società di debiti personali del Dr. Giulio Einaudi”. Insomma, un’accusa forte: perizia difforme rispetto alla realtà e debiti personali di Giulio Einaudi scaricati sulla società per azioni. Arduin rimarca che i debiti complessivi di L. 1.300.000.000 “non possono essere frutto soltanto della Società per Azioni”, evidenziando implicitamente un aumento della posizione debitoria dovuta ad altri fattori.

Chi scrive ritiene che il primo vulnus sia da ricercarsi nella perizia di valutazione del netto aziendale – stimato nel 1954 dal perito Giuseppe Luciano Foà (segretario generale dell’Einaudi dal 1945 al 1955), nominato dal Presidente del Tribunale di Torino – in 50 milioni di lire, differenza tra L. 875.601.800 dell’attivo, contro un passivo di L. 825.601.800.

Nel suo bellissimo volume “I migliori anni della nostra vita”, Ernesto Ferrero, a lungo direttore editoriale della Einaudi, scrive della felicità dell’Editore Giulio: “Era il piacere che nasce dall’accudire una vigna. Era il gusto di inseguire qualcosa che aspetta al di là dell’orizzonte conosciuto, di scovare prima degli altri le cose che stanno nascendo o maturando. Correre senza fermarsi, non accontentarsi mai, guardare sempre in avanti, rilanciare la posta. Voluttà della scommessa. Pubblicare libri di cui nessuno aveva sentito parlare, a dispetto del mercato, e dopo dieci, vent’anni, diventano indispensabili: Proust, il diario di una ragazza ebrea di Amsterdam, Musil, Braudel, Beckett, Yourcenar”.

La domanda che ci si deve porre è come fa un personaggio così inquieto e scoppiettante a tenere in ordine i conti. Un uomo che voleva stupirsi e stupire, la cui madre Ida era nota per l’acribia con cui teneva i conti di famiglia. Nelle memorie di Coda – 28 dicembre 1946 – si legge: “Nel lasciarmi, Luigi Einaudi mi parla del figlio Giulio, e quasi commosso, mi prospetta la triste situazione di fronte alla doppia famiglia che il figlio mantiene (Giulio aveva sposato Clelia Grignolio, dalla quale aveva avuto tre figli: Ida, Riccardo e Mario. Il matrimonio venne annullato nel 1950, a causa della relazione con Renata Aldovrandi, conosciuta nel 1940, dalla quale ebbe tre figli: Elena, Giuliana e Ludovico, ndr): <Ho dovuto chiamare a Roma per Natale mia nuora e i figli. Gli dovrei scrivere, come vuole mia moglie, ma cosa posso dire a mio figlio, della sua vita morale?>”.

I figli spesso vogliono contrapporsi ai padri, dimostrare la loro forza, soprattutto se il genitore è un illustre personaggio che fa tanta ombra. Se il risparmio è l’emblema di Luigi e Ida Einaudi, il figlio non poteva che essere un matterellone. In una lettera ad un amico, il piccolo professore di economia spiegava che aveva scelto la fidanzata veronese, la contessa Pellegrini, perché la sapeva parsimoniosa. Cosa possiamo dire di Giulio. Nelle parole di Ferrero: “Ogni giornata di apriva nel segno di una rincorsa che spostava un po’ in là il paletto dell’ultimo confine. Ogni giornata doveva essere memorabile, diversa da quella precedente. Il cambiamento scandiva il senso di una crescita che voleva essere ininterrotta”. Ferrero prosegue disegnando di fatto il fallimento della casa editrice del 1983: “L’Editore sembrava l’incarnazione del modello cosmologico che prevede un’espansione impetuosa e continua, un Big Bang che non raffredda mai l’esplosione iniziale”.

Twitter @beniapiccone

Ha collaborato Ivano Cimatti