Un miracolo non basta più. E l’Italia del boom economico non tornerà

scritto da il 09 Febbraio 2020

È da circa 30 anni che l’Italia declina in modo inesorabile. Le cause non vanno certo cercate nell’Europa – mero capro espiatorio – o nell’euro (con la lira staremmo meglio? Giammai!). La domanda che ci dobbiamo porre è quindi la seguente: perché il nostro Paese, che nel dopoguerra ha avuto la migliore produttività d’Europa, è sprofondato e sembra non farcela ad uscire dallo stagno? Sappiamo bene che la rana nell’acqua tiepida sta così bene che non si ribella se viene bollita a fuoco lento.

Due economisti, Francesco Silva e Augusto Ninni, hanno provato a rispondere a questo enorme quesito nel loro volume “Un miracolo non basta” (Donzelli, 2019). Nell’introduzione si va subito al punto: “Questi decenni (dal 1947 al 1989, ndr) non sono il ‘paradiso perduto’, ossia una fase a cui richiamarsi per progettare il nostro futuro. Le molte nostalgie di vario tipo e colore che oggi sembrano prosperare sono mal riposte. Certamente quel quarantennio ha prodotto molti successi, ma ha anche incubato la malattia depressiva che ci preoccupa sempre di più”.

Tra I tanti temi messi sotto la lente, la concorrenza è un tema chiave, soprattutto perché sembra il grande assente nel dibattito di oggi. Nella nostra Costituzione – che non è certo “la più bella del mondo” – non se ne fa cenno. Si immagina un futuro sempiterno di economia mista, dove lo Stato la deve fare da padrone. A un certo punto, scrivono gli autori, “il Paese deve fare i conti con gli squilibri economici e sociali che lo sviluppo stesso ha generato. Le istituzioni poco flessibili di cui è dotato e la struttura del potere politico ed economico – il cui carattere tendenzialmente monopolistico lo rende poco adatto ad accogliere il cambiamento – non riescono a farvi fronte anche per effetto del vincolo politico internazionale dettato dalla Guerra fredda”.

Anche gli industriali guardano la concorrenza con sospetto. Fece una gran fatica l’allora presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo nel 2006 ad organizzare un assise a Vicenza dal titolo “Concorrenza, bene pubblico”. Purtroppo l’intervento del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e lo scambio di apprezzamenti (sigh!) con Diego Della Valle (“Gli imprenditori che stanno a sinistra hanno scheletri negli armadi, sono sotto il manto protettivo della sinistra e di Magistratura democratica”. “Prego il signor della Valle, se si rivolge al presidente del Consiglio, di dargli del lei e non del tu…”) misero nel dimenticatoio l’intervento esemplare di Francesco Giavazzi, nel quale evidenziava l’abnorme differenza nel margine operativo lordo tra imprese aperte alla concorrenza internazionale e imprese operanti in settori protetti.

Tempo fa l’economista Gianni Toniolo ha evidenziato come la concorrenza – attraverso la distruzione creatrice (Schumpeter, cit.) – crei dei vincenti e dei perdenti. Questi ultimi necessitano di sostegno da parte della fiscalità generale, che deve supportare il cambio e la ricerca di un nuovo lavoro con la formazione, le politiche attive del lavoro (dove sono finite?).
Se un’impresa viene sconfitta dal mercato, per evitare che i lavoratori si leghino con le catene ai cancelli o salgano sui silos per protestare – come avviene solitamente nel nostro Paese – è necessario che il welfare funzioni. E qui nascono i problemi. Infatti in Italia non è stato creato un welfare a sostegno della concorrenza. Il nostro welfare è stato disegnato per periodi di crescita infinita e senza discontinuità.

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In un’epoca in cui anche un campione come Nokia viene spazzato via dal mercato dei cellulari, dove gli scenari cambiano in un battibaleno, nel mondo liquido così ben descritto da Zygmunt Bauman, è indispensabile avere un welfare di politiche attive, che non ostacolino e anzi facilitino il passaggio da un lavoro ad un altro.

Cosa ci ha lasciato la (deludente) classe dirigente degli ultimi 30 anni? Un welfare basato esclusivamente su politiche passive (cassa integrazione ordinaria e straordinaria, cassa in deroga, mobilità, prepensionamenti), le quali si ripercuotono inevitabilmente su un sistema pensionistico che sostiene i pensionandi fin da giovani (a 45 anni si entra in cassa integrazione, poi in mobilità, poi si va in pensione, che viene naturalmente calcolata con il sistema retributivo, così pagano le generazioni successive. Bello, no?).

Come sottolineò Giacomo Vaciago, è chiaro che l’attuale sistema di tutele è avverso alla concorrenza. Gli italiani non vogliono più concorrenza perché non vogliono sostenerne i costi. La crescita crea dei perdenti che l’italiano non desidera. L’Italia aspira al pareggio perché per vincere bisogna anche prendere in considerazione la possibilità di perdere.

Silva e Ninni concludono così: “Gli anni settanta e ottanta sono il periodo di incubazione della stagnazione (quando non del declino) che si concretizza nella fase successive. Essi lasciano in eredità I benefici di grandi successi economici, ma anche pesantissime lacerazioni e debolezze economiche”.

Credo che in Italia si viva ancora di nostalgia. A molti di noi frulla in testa – in modo retrotopico – che il “miracolo economico” possa tornare presto. Non si fanno i conti con la realtà che il “miracolo” è esogeno. Non deriva dalla nostra azione. Solo definirlo “miracolo” significa che non ci credevamo tanto, pensavamo che non fosse opera nostra.

Silva è convinto che senza una buona politica economica e istituzioni inclusive (Acemoglu, cit.) non si possa andare da nessuna parte. Torna in mente il bellissimo romanzo del 1962 (proprio negli anni del “miracolo”) “La vita agra” di Luciano Bianciardi, che in un passo memorabile, scrive: “Non abbiamo altro metro se non la capacità di ciascuno di restare a galla… A chi scelga una professione terziaria o quartaria occorrono doti e attitudini di tipo politico. La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buongoverno, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere. Così la bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo che vi si mantiene. E la lotta politica, cioè la lotta per la conquista e la conservazione del potere, non è ormai più – apparenze a parte – fra stato e stato, tra fazione e fazione, ma interna allo stato, interna alla fazione”.

Un quadro sconfortante, Bianciardi ebbe lo sguardo lungo. La politica italiana, capace di esprimersi solo con l’acquisto del consenso tramite il debito pubblico, ci ha portato nell’abisso della depressione e dell’incapacità di vedere un futuro che non sia di sottrazione di risorse nei confronti della generazione successiva.

Twitter @beniapiccone