Ragionevole e giusto, che dire di un processo civile in corso da 26 anni?

scritto da il 01 Marzo 2020

L’autore di questo post è Eraclito, pseudonimo che un “umile servitore dello Stato”, esperto di economia e finanza, soprattutto in ambito internazionale, ha scelto per scrivere con maggior libertà – 

Detto in breve, una Giustizia Civile troppo lenta (e l’evidenza sembra dire che in Italia l’aggettivo “lento” è particolarmente calzante per la Giustizia Civile) impedisce agli individui di ottimizzare nel tempo vitale i propri consumi e il proprio tenore di vita. Naturalmente, questa sabbia infiltrata negli ingranaggi delle decisioni degli individui è particolarmente insidiosa se essi hanno in qualche modo a che fare (direttamente o meno) con la Giustizia Civile.

Prima di argomentare, sono d’obbligo due premesse:

(i) la prima è che questo articolo non intende scaricare le responsabilità sulla classe dei magistrati (anche se tra loro ci sarà di sicuro qualcuno che alimenta questa lentezza) ma piuttosto sulla classe dei politici (anche se tra loro ci sarà di sicuro qualcuno animato da buone intenzioni); come detto in seguito, questa prima premessa si fonda su quanto afferma la nostra Costituzione che delega alla legge (ossia al Parlamento, composto da politici) di mettere in pratica gli alti principi lì dettati;

(ii) la seconda premessa è che, non essendo un esperto in giurisprudenza, chi scrive non può offrire soluzioni operative o commentare quelle in discussione; può però affermare che qualsiasi soluzione operativa è vuota se non mette in pratica a regola d’arte quanto enunciato nella nostra bella Costituzione.

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Il principio del “giusto processo”
Torniamo alla domanda posta nel titolo. Chiunque abbia risposto: “come il cavolo a merenda” non conosce ad esempio Franco Modigliani e la sua ipotesi del ciclo vitale (male, molto male anche perché è l’unico italiano, indegnamente costretto dalle Autorità italiane del tempo a fuggire via dall’Italia, ad aver vinto il premio Nobel per l’economia), oppure non sa formulare le proprie decisioni nell’arco del tempo ma le prende impulsivamente sulla base dei propri bisogni immediati (anche questo di solito non va bene), oppure ancora non ha avuto a che fare con la Giustizia Civile Italiana (e questo invece va benissimo e lo auguro a tutti di tutto cuore).

Mi accingo a spiegare il nesso tra scelte economiche nel ciclo di vita e giustizia civile in Italia approfittando dell’esempio concreto che meglio conosco, ovvero la mia esperienza. Prima, però, è bene chiarire ai non esperti (come in larga parte me stesso) come sono disciplinati nella nostra Costituzione i meccanismi principe della Giustizia Civile in materia di processo, da un lato, e cosa afferma la teoria del ciclo vitale postulata per la prima volta da Modigliani negli anni ’60 del secolo scorso, dall’altro lato:

Per quanto riguarda il primo aspetto, la nostra Costituzione recita testualmente all’articolo 111: “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.” La Costituzione continua poi disciplinando in maniera articolata i principi del processo penale che naturalmente merita un approfondimento particolare ed è quello oggi all’attenzione dei nostri politici (che spero non trascurino l’importanza del processo civile).

Pur non essendo un giurista, mi sento di dire che ai sensi dell’art. 111 della Costituzione italiana il processo deve essere giusto e, a tale scopo, va disciplinato per bene e articolatamente dalla legge ordinaria. Quest’ultima non può prescindere da alcuni elementi: (i) l’ascolto di entrambe le parti in contrapposizione tra loro da parte di chi deve giudicare, (ii) la garanzia che entrambe le parti contrapposte siano in condizioni paritarie, ossia che Davide, da un lato, e Golia, dall’altro, siano trattati allo stesso modo, (iii) chi deve giudicare ed emettere sentenza deve essere imparziale ed una condizione a tal fine è che sia terzo rispetto alle parti. Anche se non incorporata nella stessa frase dell’art. 111, mi pare proprio che si possa ascrivere un quarto elemento come condizione necessaria perché un processo sia giusto ossia (iv) la sua “ragionevole durata” che – secondo la Costituzione – deve essere assicurata dalla legge.

Badate bene, ragionevole durata non significa breve (ma nemmeno lunga) durata; significa piuttosto che – date le circostanze di contesto e il caso processuale – il tempo necessario per arrivare a sentenza definitiva (nel gergo, passata in giudicato) deve essere ragionevole. Dunque, è probabile che la legge avrà difficoltà ad indicare una durata precisa entro cui il processo deve concludersi affinché il processo sia giusto. Tuttavia, un cittadino italiano, a maggior ragione se ragionevole, ha il diritto di attendersi una sentenza passata in giudicato in tempi altrettanto ragionevoli.

La teoria del “ciclo vitale”
L’ipotesi del ciclo vitale di Modigliani postula che un individuo determinerà le proprie scelte su come ripartire il proprio reddito tra consumo e risparmio non già anno per anno in base al proprio reddito corrente ma guardando all’interezza del proprio ciclo vitale. Ad esempio, egli cercherà di valutare quando il suo reddito corrente sarà talmente alto da valere la pena accantonarne una parte per i tempi bui e quando il reddito corrente sarà talmente basso da valere la pena di attingere ai propri risparmi per sostenere un livello di consumi adeguato alle proprie esigenze.

Credo sia incontrovertibile che tutti noi, pur senza ricalcare in tutto e per tutto il modello teorico di Modigliani, tendiamo a comportarci come afferma l’economista ebraico con passaporto italiano costretto nel 1939 a fuggire negli Stati Uniti: chi di noi spende tutto il proprio reddito immediatamente senza tenere conto di esigenze prevedibili o di quelle che imprevedibilmente ci possono affliggere e che potranno realizzarsi in futuro?

Ad esempio, i vostri figli spendono la paghetta per intero il giorno dopo che la ricevono? Probabilmente no anche se probabilmente la consumano interamente prima del successivo giorno di paghetta. Se accade sistematicamente così, i vostri figli dovrebbero diventare pienamente consapevoli del proprio errore di restare senza soldi l’ultima settimana del mese e dovrebbero correggersi spalmando meglio la paghetta lungo tutto il mese. Se così non accade, sarà perché non hanno aspettative razionali (sono ragazzi che sbagliano con regolarità) oppure sono amanti dell’azzardo morale (moral hazard): fanno affidamento sui soldi elargiti fuori sacco da papà e mamma quando quelli della paghetta sono finiti), o entrambe le cose. Oppure, i loro bisogni di sussistenza sono incomprimibili e non possono fare a meno di spendere tutto subito per soddisfarli.

Per gli adulti è un po’ la stessa cosa solo che, avendo essi un po’ più di esperienza, saranno probabilmente maggiormente disciplinati perché sanno che se in vecchiaia finiranno i soldi dovranno condurre una vita di stenti. Potrebbero comunque essere amanti dell’azzardo morale contando sullo Stato oppure sui propri figli. Tuttavia, lo Stato non è “fesso” e per questo durante la loro vita lavorativa li obbliga a pagarsi un capitale previdenziale per ottenere la pensione con cui mantenersi in vecchiaia. Se i figli siano “fessi” o no, ovvero se sia una buona idea per i genitori fare affidamento sul sostegno dei propri figli in vecchiaia, non saprei proprio dire. Vale comunque anche per gli adulti il discorso dei bisogni incomprimibili da soddisfare che probabilmente è il motivo per cui oggi molti non hanno un fondo pensione privato.

Ad ogni modo, tralasciando i modelli matematici, è un fatto abbastanza chiaro che gli individui basino le proprie scelte di consumo non sul reddito corrente ma su quello che Milton Friedman, altro grande economista dopo Modigliani, ha definito “reddito permanente”. Ahimè, nello sforzo di avere un livello di consumi costante nell’arco della vita intera, evitare errori sistematici sarà particolarmente difficile perché un umano ha una sola vita e non sette come i gatti, per cui se commette un qualsiasi errore di valutazione è poi davvero difficile che rimedi.

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Il nesso tra il “giusto processo” e la teoria del “ciclo vitale”: un processo tra i tanti ordinariamente celebrati dalla Giustizia Civile italiana

Veniamo ora al legame tra diritto ed economia nella vita reale tracciando il caso concreto che la vita ha imposto a chi scrive e a cui egli è tuttora soggetto:

– appena entrato nel mercato del lavoro, pur avendo iniziato a godere di un certo reddito, avevo ancora bisogno dei miei genitori tra l’altro per assicurarmi un’abitazione dignitosa, quando il buon Dio decise di portarmi via mamma e papà, tutti e due insieme in un incidente. Era il 1994;

– di lì a breve sarebbe iniziato il processo (che secondo la Costituzione deve essere giusto) per determinare le responsabilità delle varie parti in contraddittorio e di conseguenza dei danni provocati o subiti da pagare o di cui essere risarciti. Era il 1996;
– i n primo grado, le parti responsabili sono state individuate ed è stata determinata l’entità del danno che doveva essere risarcita alle parti lese (tra cui chi scrive). Tale danno, ahimè liquidato solo in termini monetari, fu poi effettivamente versato in denaro. Era il 2005;

– in secondo grado, le condanne per la responsabilità delle parti coinvolte sono state confermate ma l’entità del danno è stata rideterminata a svantaggio delle parti lese con sentenza immediatamente esecutiva; per fortuna (chissà come avrei fatto altrimenti), una parte responsabile del danno non ha chiesto indietro i denari già versati e l’altra ha concesso una rateazione in 10 rate trimestrali per restituire quanto percepito in eccesso dopo il primo grado. Era il 2014;

– Adito l’ultimo grado di giudizio, la Corte di Cassazione si è espressa rimettendo al giudice di secondo grado la questione di rideterminare il danno in base ad alcuni principi che apparentemente erano stati trascurati. Era il 2017;

– Allo stato attuale, quando il giudice di secondo grado si pronuncerà come richiesto dalla Cassazione, bisognerà attendere che quest’ultima si pronunci a sua volta su quella sentenza per ottenere che la sentenza passi in giudicato. Che data sarà e se sarò ancora in vita non è dato sapere;

Morale della storia: chi scrive ancora non sa (e non lo saprà per un bel po’ a meno di un accordo stragiudiziale tra tutte le parti) su quali sostanze patrimoniali potrà contare per gestire la sua difficile (anche per questioni meramente monetarie) esistenza su questa terra (ovvero il suo consumo nell’arco del ciclo vitale, secondo la terminologia di Modigliani).

Credo sia superfluo sottolineare che, pur volendo aderire alla teoria del ciclo vitale per ottimizzare intertemporalmente i propri consumi (gli economisti dicono così), l’impresa a cui chi scrive è stato ed è soggetto è particolarmente ardua. Peraltro, dopo che per le vicende della vita, egli ha perso l’abitazione che i genitori avevano per lui predisposto e adesso, in età ormai avanzata, chi scrive si trova ancora in una situazione abitativa precaria senza sapere bene se investire i propri risparmi nell’acquisto di una casa (naturalmente congiuntamente all’accensione di un mutuo importante) oppure se pagare un affitto per locare un immobile (quanto grande e in quale quartiere? Mah!). La scelta non è facile ma purtroppo è dal 1994 che tale incertezza impera, ossia da tanto tempo da quando la Giustizia Civile italiana deve pronunciarsi su una vicenda che si riverbera sulle vicende personali degli intervenuti nel giusto processo che si sta celebrando e che invero è iniziato solo due anni dopo i fatti processuali, nel 1996.

Conclusioni e responsabilità di un’inerte classe politica italiana che non osserva di fatto l’art. 111 della Costituzione
Chiudo ricordandovi che siamo nel 2020 e che gli anni trascorsi da quando sono accaduti i fatti processuali sono 26 (ventisei), 24 (ventiquattro) se consideriamo l’inizio del processo come data di partenza. Un processo che dura da tanto e che non si è ancora chiuso è giusto? È di ragionevole durata? Secondo me, NO: la fatica e l’incertezza che ha sopportato e che sta continuando a sopportare chi scrive anche a causa della lentezza della giustizia civile italiana sono davvero enormi e comportano costi economici (e psicologici, che prescindono dall’anima razionale dell’economista) altrettanto enormi.

Mi dicono che una volta chiuso il processo sarà possibile chiedere i danni allo Stato se si riuscirà a dimostrare quanto sopra. Magari come strumento di prova per il danno subito si potrebbe usare un modellino del ciclo vitale di Modigliani. Chissà mai se giustizia sarà fatta, chissà mai in quali tempi e chissà se, in caso positivo, il risarcimento varrà a compensare fatica e incertezza sopportati. Sento amaramente di poter già rispondere di NO anche perché nessuno potrà mai restituirmi, oltre che i miei genitori vivi, 26 anni della mia vita che avrebbero potuto essere più sereni di quanto non siano stati.

Soprattutto, però, tornando al ben più importante dibattito pubblico, chissà se i nostri politici ritengono che un processo civile (come ce ne sono tanti in Italia) pendente sinora da 26 anni dopo gli avvenimenti abbia avuto o meno una “durata ragionevole”. Soprattutto, chissà se, come prescrive la Costituzione, i nostri politici assicureranno con lo strumento della legge almeno per il futuro che i processi civili (senza parlare di quelli penali) celebrati in Italia seguano il principio del “giusto processo”, comprendendo in quest’ultimo concetto sia la ragionevole durata del processo sia gli altri tre principi citati dall’articolo 111 della Costituzione italiana (contraddittorio tra le parti, condizione paritaria delle stesse e imparzialità del giudice).
Ai posteri l’ardua sentenza.

Per approfondire:

Nord e Sud separati dai tempi dei processi civili

La giustizia migliora, ma non è ancora uguale per tutti