L’economia, il coronavirus e la variabile umana. Che ne dice la filosofia?

scritto da il 28 Febbraio 2020

Post di Diego Bolchini, docente di analisi delle informazioni per la sicurezza presso @UNI_FIRENZE in sinergia con la PcM-DIS e collaboratore dello IAI di Roma – 

Per il poeta romantico tedesco Friedrich Holderlin (1770-1843) “un dio è l’uomo quando sogna, un mendicante quando riflette”. Nel settore dell’economia, i grattacapi iniziano già con l’Economia Politica, per la quale si afferma in modo placido e rassicurante, nei manuali di testo, che essa analizzi i meccanismi di funzionamento dei mercati dandone descrizioni e spiegazioni.

Ma nell’interazione tra data, facts e modelli teorici utilizzati per spiegare i fenomeni economici, il convitato di pietra rimane spesso il noumeno di kantiana memoria, ovvero la “cosa in sé”, che si pone al fondo – quale primo motore immobile – dei fenomeni osservati. Rischiamo in questo senso di rincorrere i fenomeni dall’esterno, esclusivamente nella loro epifanìa materiale di minaccia (o di opportunità).

Ad aggravare il nostro quadro conoscitivo concorre anche il fatto che un attore/fenomeno economico non si atteggia sempre nello stesso modo da un contesto all’altro, sviluppando un modus cogitandi ed operandi diversificato. Se questo è lo scenario di fondo, potrebbe chiedersi il filosofo tedesco se si aggirasse oggi per le capitali del mondo, che fiducia riporre nelle misure di Politica Economica, alla quale spetta tradizionalmente il compito di fornire prescrizioni orientate al conseguimento di obiettivi?

Si consideri il funzionamento stesso dei mercati (ed i relativi fallimenti), narrati dalla vulgata comune come oggetti fissi e plastici, quasi essi fossero costruzioni naturali e soggetti a leggi universali e immutabili, come quelle della fisica. Laddove appare evidente come il loro funzionamento dipenda da svariate circostanze, molte delle quali dettate da scelte umane, tradotte in normative che specificano regole di azione. Queste sono alcune prime osservazioni che Immanuel Kant si porrebbe forse oggi, al tempo incerto del Quantitative Easing (QE) e del quadrupede chimerico rappresentato dall’equilibrio generale macroeconomico.

Forse egli rimarrebbe anche stupito dal concetto delle Global Value Chain, considerando le differenze di fabbricazione tra il suo cocchio con cavalli di Konigsberg e le Land Rover inglesi odierne, composte da oltre 30.000 componenti, dei quali solo il 40% circa costruito in fabbriche inglesi. Gli si potrebbe spiegare delle differenti fasi e posizionamenti nella catena del valore, parlando dei freni Brembo per vetture Audi e del mercato di export americano.

O delle differenze di statuto tra FED e BCE, tra stabilità di prezzi ed occupazione. Siamo quasi certi che sorriderebbe se gli venisse spiegata la teoria della “buona limonata” di Dani Rodrik, per la quale “i mercati sono l’essenza di una economia proprio come i limoni sono l’ingrediente imprescindibile della limonata. Ma il succo di limone puro è praticamente imbevibile”.

Ma per certo troverebbe familiare il concetto di produttività inteso come sommatoria di investimenti adeguati, qualità delle istituzioni, importanza del capitale umano e della sua formazione. Un concetto valido dalla Prussia Orientale del suo tempo sino alle grandi Università del nostro tempo. In economia questo appare ancora più vero perché nelle scienze sociali il pensiero fa parte integrante del contenuto, a differenza delle scienze naturali dove le cose accadono nonostante ciò che si pensi. Dietro le variabili aggregate e al loro movimento si nasconde sempre la forza della micro-fondazione di singole volontà e singoli cervelli.

Gli economisti, quali scienziati sociali specializzati, sono oggi impegnati in importanti dibattiti specialistici che di rado raggiungono audience non tecniche. Ma quanto i loro ragionamenti rimangono autoreferenziali e quanto invece vi è reale disponibilità di apertura a contaminazioni disciplinari? Il rischio è quello di rimanere imbrigliati in isole di sapere specialistico, separate tra di loro (c.d. effetto stovepiping) ed inadeguate a livello meta-cognitivo (ovvero rispetto ai modi di pensare) per raggiungere nuovi livelli di validità euristica, al di là della corrente generazione di indicatori economici, secondo alcuni – già da alcuni anni – “misleading”.

Di contro, la regola TEAM ci dice che “Together Everyone Achieves More”, laddove ambienti VICAR (Volatili, Incerti, Complessi, Adattivi e Rapidamente Mutanti) richiedono una nuova densità e diversità di pensiero integrata per essere affrontati. E’ questa consapevolezza che forse che diede origine, già 100 anni or sono, all’idea tri-disciplinare di PPE (Politics, Philosophy and Economics) nato ad Oxford, e ancora oggi decisamente rilevante nella formazione delle élites britanniche, trasversali allo spettro politico di riferimento.

Oggi allora, ancora più di ieri, appare necessario mettere insieme squadre coese di teste “ben piene” e teste “ben formate”, allargando i confini di interdisciplinarità secondo la nota espressione del filosofo francese Edgar Morin, classe anagrafica 1921, e pioniere del pensiero complesso. Continua dunque la ricerca di nuovi framework per l’analisi economica che integrino nel modello anche fattori interferenti diversificati come quelli socio-sanitari, considerando ad esempio – riferendoci alla più stretta attualità – le aspettative razionali e gli “animal spirits” al tempo del Covid-19, l’ormai celebre coronavirus.