Pretendi la risposta! Ecco alcune questioni ancora aperte sul lavoro

scritto da il 06 Marzo 2020

L’autore di questo post è Savino Balzano, autore del libro “Pretendi il lavoro! L’alienazione ai tempi degli algoritmi” (GOG, 2019). Sindacalista Unisin nel settore del credito, si occupa di contrattazione collettiva, studi e formazione nell’ambito del diritto del lavoro. Già autore del libro Riflessioni senza trama (Ibiskos, 2011) – 

Che il tema del lavoro, della sua tutela e della lotta a ogni forma di precarietà sia di drammatica attualità è di assoluta evidenza. Molti, moltissimi, sono i segnali che inducono a vederla in questo modo: il fatto che, ad esempio, durante la recente campagna elettorale in occasione delle regionali, l’argomento sia tornato in primo piano costituisce la prova di come la politica sia consapevole dell’utilità di ricorrere a tale sensibilità per racimolare qualche voto; come pure il successo di alcuni testi, in particolar modo dei più militanti, dimostra come l’attenzione sia fortemente orientata verso chi decide di farsi portavoce di determinate istanze ormai emarginate.

La politica, come pure il grande sindacato tradizionale, è assai distante dalle rivendicazioni del lavoro e il fatto che oggi, in Italia come in Europa, si sia costretti a discutere di una normativa che garantisca un salario minimo ai lavoratori è prova di quanto questi versino in condizioni di drammatica subalternità, come pure dell’iniquo prodotto delle scelte politiche operate a tutti i livelli negli ultimi trent’anni almeno.

I lavoratori sono in perenne e costante attesa di un segnale: chi scrive libri di lotta in difesa del lavoro di questo è assai consapevole e ne riceve continue conferme in occasione di ogni presentazione del testo, che inevitabilmente si trasforma in quell’acceso dibattito che ricorda un’assemblea sindacale o un consiglio di fabbrica.

Quello che però in questa circostanza si vuole provare a fare, seppur molto rapidamente, è insistere su una specifica chiave di lettura circa le attuali condizioni dei lavoratori italiani, circa i processi messi in atto per porli nel loro attuale stato di prostrazione e in merito alla sopraggiunta impossibilità degli stessi a porre in campo una reazione, quantomeno entro i limiti del tradizionale diritto sindacale.

L’errore che oggi si compie, e vengo al punto di quello che mi sento di scrivere, è soffermarsi sempre e comunque, ostinatamente, pervicacemente, manicheamente sui processi di erosione dei diritti individuali dei lavoratori tout court e fine della storia. Vale a dire: prima avevamo diritto a quello e ora questo; prima godevamo di certe tutele e ora non più; prima erano garantiti e rispettati certi presidi di diritto e adesso no.

Questo non è sbagliato di per sé, per carità, ma significa continuare ad insistere sulla prossimità e sull’immediatezza (verrebbe quasi da dire provocatoriamente sulla meschinità dei propri interessi di giardino), perdendo inevitabilmente di vista le gravissime conseguenze che tale erosione ha comportato: conseguenze che minano direttamente gli assetti a vocazione democratica dello Stato.

Pure è assolutamente fuorviante insistere nel qualificare come fallimenti tutti gli interventi di flessibilizzazione del mercato del lavoro e le ultime riforme di ridimensionamento del diritto del lavoro: si afferma che tali misure non abbiano prodotto i risultati che erano stati prefissati ovvero aumento dell’occupazione, miglioramento della sua qualità, attrazione dei capitali e degli investimenti, redistribuzione della ricchezza in chiave di equità. Insomma, Monsieur de Lapalisse non avrebbe saputo fare di meglio: lo sanno tutti che quegli obiettivi sono stati mancati, eppure tali riforme vengono difese con le unghie e con i denti e si persevera nel mantenerle in piedi. La ratio di questo asserragliamento è da ricondurre a una assai semplice ragione: gli obiettivi fissati non erano quelli proclamati e presentati in quegli anni all’opinione pubblica.

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Dire che l’art. 1 della Costituzione riconosca a tutti il diritto al lavoro è tanto ricorrente quanto insopportabile: è l’art. 4 della Carta a riconoscere tale diritto e a esprimere l’adesione della Costituzione ai principi della piena occupazione.

L’art. 1 consacra piuttosto il rapporto fortissimo tra lavoro e democrazia nella visione dei Padri del paese: in un regime di piena occupazione (ai sensi dell’art. 4) fondare la Repubblica sul lavoro significava poggiarla su qualcosa che appartenesse a tutti e pertanto la si vocava alla massima democraticità, ma non solo. Il costituente aveva in mente un preciso modello di lavoro, modello di lavoro che garantisse dignità al lavoratore mediante specifici presidi di tutela che non lo rendessero vulnerabile e ricattabile. È evidente, infatti, che colui il quale sia esposto a una eventuale ritorsione, inevitabilmente sarà tentato di rinunciare all’esercizio dei propri diritti sindacali (in senso lato) e politici: ecco perché tutelare il lavoro, elevarlo a fondamento stesso dello Stato, avrebbe garantito al paese la sua anima democratica e partecipativa.

Questo è ben noto a chi è intervenuto nel rivedere i diritti che con tanti anni di lotta i lavoratori erano riusciti tempo per tempo a conquistare: minare la stabilità di un rapporto di lavoro mediante il costante e liberalizzato ricorso ai contratti di lavoro a termine (a partire dal Pacchetto Treu in poi); rivedere la disciplina del controllo a distanza e del demansionamento (come ha fatto il Jobs Act) e sfondare gli argini posti a contenimento del licenziamento illegittimo, abrogando quasi del tutto la reintegra, (come hanno fatto la Legge Fornero e il Jobs Act) ha significato costruire un nuovo e voluto modello di lavoro.

In estrema sintesi è necessario domandarsi: un lavoratore, consapevole della “scadenza” del suo rapporto di lavoro e del fatto che il datore è libero di non confermare il contratto, consapevole del rischio costante e continuo di essere sottoposto a forme di controllo a distanza, conscio della possibilità riservata al datore di lavoro di demansionarlo liberamente minando al patrimonio di competenze maturate con fatica nel tempo, edotto circa l’impossibilità (in gran parte dei casi) di tornare a lavoro in caso di licenziamento illegittimo, sarà disposto a esercitare prerogative sindacali e politiche (in fabbrica e fuori di essa)?

Ancora, un lavoratore consapevole del suo versare nelle più profonda precarietà del e nel lavoro, sarà disposto a contrastare la scelta di un datore di lavoro che si rifiuti di rispettare le norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro? Sarà pronto a lottare perché la negazione di importanti diritti, quale ad esempio la retribuzione piena del lavoro straordinario, cessi? Sarà disposto ad organizzarsi sindacalmente richiedendo locali sindacali, indicendo assemblee, proclamando scioperi aziendali, di settore, generali o politici? Sarà disposto a rivendicare migliori condizioni di lavoro nella tradizionale e secolarizzata logica delle relazioni sindacali italiane?

Ebbene, questo è quello che è fondamentale evidenziare: piuttosto che limitarci a denunciare l’erosione della sfera individuale dei diritti dei lavoratori, non è forse necessario anzitutto porre la lente d’ingrandimento sul disegno complessivo che si intendeva perseguire e su come questo disegno abbia oggi reso difficilissimo organizzare forme di resistenza sindacale nel lavoro?

Le riforme in materia di lavoro erano riforme di potere: l’obiettivo era minare alla vocazione democratica del lavoro sancita in Costituzione, disinnescando conseguentemente ogni forma di resistenza, e tale obiettivo è stato perfettamente centrato: se non comprendiamo questo e non ci focalizziamo su quest’ottica, sarà disperato e infruttuoso ogni tentativo di equa restaurazione.

Twitter @SavinoBalzano