Ma il coronavirus impatterà sulla gestione e sulla disponibilità del cibo?

scritto da il 15 Maggio 2020

L’autore di questo post è Corrado Griffa, manager bancario ed industriale, consulente aziendale in Italia e all’estero –

Immaginare come potrebbe essere il post-coronavirus è come fare affidamento sull’arte divinatoria degli aruspici, consistente nell’esame delle viscere di animali sacrificali per trarne segni premonitori: opera illusoria, priva di elementi concreti su cui elaborare e lavorare; meglio non fare troppo affidamento sulle previsioni di guru di varia disciplina.

Restano poche cose certe, come quelle che fanno riferimento a clima e cibo; secondo la tesi di Malthus se la popolazione eccede la disponibilità di cibo presente nella società, il risultato sarà fame e povertà. L’evoluzione del cambiamento climatico ed il suo impatto sulla disponibilità di cibo, combinata allo tsunami che il coronavirus promette di scaricare su clima e cibo stessi, porta a scenari duri e difficili, ad un approdo … malthusiano.

Alcune domande: il coronavirus impatta sulla gestione e sulla disponibilità di cibo? Dobbiamo attenderci variazioni nel paradigma alimentare, oggi diretto verso un crescente consumo di carne rispetto al passato? Le risorse diminuiranno, come potrebbe accadere con le aree coltivate? Perché?

La maggior parte dell’umanità ha sempre vissuto in regioni con una temperatura media variabile fra un minimo di 6° ed un massimo di 28°, ideale per la vita umana e per la produzione di cibo; nel caso la temperatura media salisse di 3°, la temperatura percepita crescerebbe di 7,5° rendendo molto precaria la nostra vita su questa Terra; in questo scenario (dipinto prima dell’impatto del coronavirus), quasi 1/3 della popolazione mondiale vivrebbe in situazioni di caldo combinato ad un aumento dell’umidità in regioni come India, Nigeria, Pakistan, Indonesia. Condizioni negative per la vita umana, per l’allevamento, per l’agricoltura e quindi per le risorse alimentari. O scappi, o ti adatti. L’adattamento a temperature ed umidità così elevate è difficile. Resta la migrazione. Dove? Certamente non nelle aree urbane litoranee, dove già vivono i 2/3 della popolazione mondiale, e che in caso di aumento della temperatura dei mari di 2° verrebbero in parte sommerse.

Tre quarti del cibo consumato nel pianeta è fatto di riso, grano, mais; metà di tutto quanto mangiano i 7 miliardi di esseri umani è rappresentato da riso. Un terzo della popolazione mondiale, oggi, non ha cibo a sufficienza, e gli sforzi per ridurne il numero sono stati largamente infruttuosi, con un aumento della pressione demografica. 

Mangiare animali, nel nostro mercato globale, è un lusso, diffusosi in aree di recente sviluppo economico, come la Cina ed ampie zone del Sud Est asiatico; mangiare carne mette l’uomo in competizione con gli animali nella scelta di che cosa mangiare; seppure per millenni gli animali abbiano mangiato erba, oggi essi mangiano gli stessi alimenti che rientrano nella dieta dell’uomo: soia, mais, altri cereali.

I bovini, 50 anni fa, erano 700 milioni: oggi sono 1.400 milioni, il doppio. Sono necessarie 4 calorie vegetali per produrre 1 caloria di pollo, 6 per 1 caloria di maiale, 10 per una caloria di bovino od agnello.

In termini economici, mangiare carne significa “appropriarsi” di risorse vegetali che potrebbero bastare per 5 o 10 persone.

L’uomo ha via via “conquistato” terreno coltivabile distruggendo foreste ed habitat animali, quegli stessi animali che possono trasmettere virus e batteri all’uomo, cosa che avviene sia con animali selvatici con cui si viene direttamente in contatto in queste aree “di confine”, sia indirettamente, tramite contatti fra animali selvatici ed animali addomesticati, come sono gli animali che vivono in allevamenti, destinati alla macellazione ed al consumo per l’uomo.

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Allora, che facciamo?

Se spingiamo oltre la politica alimentare attuale (più carne!) corriamo rischi crescenti in termini di esposizione a virus e batteri dannosi per l’uomo, spesso mortali; se ci fermiamo e viriamo verso una riduzione di spazi destinati all’allevamento intensivo ed un aumento della coltivazione vegetale, avremmo risorse sufficienti per tutta l’umanità?

Se uniamo i punti fra cambiamento climatico, scelta alimentare, impatto futuro del coronavirus, il quadro che osserviamo è il classico “worst case scenario”:

– per limitare, se non escludere, il diffondersi di virus letali per l’uomo, sarà necessario abbandonare gli allevamenti animali posti vicino agli habitat delle specie selvagge; riducendo la produzione di carne; queste aree non saranno disponibili, se non in parte, per la coltivazione vegetale per consumo umano; questa sarà una prima risposta “strategica” per combattere la possibile diffusione di nuovi e vecchi virus;

– si dovranno incrementare, a discapito dell’allevamento di bestiame, le coltivazioni di alimenti di origine vegetale, che hanno una migliore resa, ma anche un valore proteico inferiore alla carne (un “passo indietro” di difficile accettazione);

– … gli spazi destinati alla agricoltura potrebbero rapidamente ridursi, in alcuni casi esaurirsi, per effetto del cambiamento climatico; il risultato: una riduzione del cibo disponibile;

Avremo una riduzione delle risorse, e quindi una riduzione del tasso di crescita (se non una sua inversione) della popolazione, che si dovrà allineare alla dinamica della disponibilità di risorse alimentare: tornerebbe il “vecchio paradigma” della crescita aritmetica (positiva e/o negativa) di risorse alimentare (cibo) e popolazione, con una tendenza all’allineamento. “uno vale uno”, ovvero Malthus is back!

Uno scenario arduo da accettare: chi si approprierà delle (sempre più) scarse risorse alimentari (inclusa l’acqua)? Chi oggi già ne ha la disponibilità, i ricchi paesi del Nord del mondo, oppure chi dai paesi poveri del mondo sarà costretto a migrare, pacificamente o più spesso non pacificamente?

Il coronavirus non ha fatto altro che metterci dinanzi, inesorabilmente, a dure scelte. Il governo del mondo, peraltro, è oggi largamente dominato da paesi che adottano quelle che eufemisticamente potremmo chiamare “politiche antipatiche” (USA, Russia, Cina, Turchia, Brasile), ma che contano più di tutti gli altri messi insieme.

Fasten your seat belt, and pray!

Twitter @CorradoGriffa