Stato e Regioni, sulla salute il caos organizzato che spiazza gli italiani

scritto da il 19 Maggio 2020

L’autrice di questo post è Mari Miceli, consulente senior, si occupa di assistenza tecnica e legale in materia di programmi ed interventi cofinanziati con i Fondi strutturali dell’Unione Europea –

Sullo sfondo di un complesso quadro emergenziale, la gestione della salute pubblica è stata rimessa pressoché totalmente alla regolamentazione nazionale. È bene chiarire subito però che in materia di sanità pubblica la normativa costituzionale permette, sia in contesti ordinari che emergenziali, un’azione di Governo congiunta: l’art. 117, comma 3, della Costituzione, infatti, annovera, tra le materie devolute alla legislazione concorrente, proprio il diritto alla salute.

Invero, abbiamo assistito negli ultimi mesi ad un ruolo dei poteri di coordinamento statale piuttosto accentrato, sebbene le amministrazioni periferiche siano rimaste in prima linea impegnate nel fronteggiare l’emergenza Covid19. La natura eccezionale dell’epidemia, infatti, ha determinato delle ripercussioni sul rapporto Governo e Istituzioni periferiche.

L’analisi della normativa governativa, promulgata nel corso di questa emergenza, permette di trarre importanti indicazioni sul modo in cui sono stati modellati i rapporti tra Stato e le autonomie locali.

Il Governo ha mostrato di voler, sin da subito, svolgere un ruolo particolarmente incisivo e accentrato. Basta leggere il decreto n.6 del 2020: il DPCM, infatti, prevedeva da un lato che i decreti fossero adottati con la semplice consultazione delle Regioni e dall’altro che le ordinanze regionali fossero emanate rispettando un procedimento accentrato gestito dal Presidente del Consiglio.

Questa particolare previsione ha destato non poche perplessità, non tanto nel merito, quanto nel ruolo marginale che è stato riconosciuto alle Regioni stesse.

Il principio di leale collaborazione, infatti, rappresenta uno dei capisaldi su cui devono uniformarsi i rapporti tra Stato e Governi periferici. D’altra parte il sopra citato principio, opera proprio in materie di legislazione concorrente.

Eppure, nella prima fase di questo quadro emergenziale ci si è trovati dinnanzi ad un elevatissimo numero di ordinanze adottate dalle singole Regioni [1], con prescrizioni talvolta più restrittive di quelle statali e di diverso impatto territoriale, con momenti in cui si è – quasi – sfiorato anche lo scontro tra Governo centrale e regionale.

Basti pensare all’ordinanza emanata dal Governatore della Lombardia il 21 marzo, con cui disponeva la limitazione non solo degli spostamenti nel territorio regionale, ma invitava i lombardi a considerare valide le proprie disposizioni, ritenendo quelle nazionali troppo riduttive a fronte dell’emergenza.

il premier Conte e il governatore della Lombardia, Fontana

Il premier Conte e il governatore della Lombardia, Fontana

Ed ancora, il caso della Regione Marche, dove alla data del 25 Febbraio non si erano ancora registrati contagi. Ciò nonostante, il Presidente della Giunta aveva emanato un’ordinanza restrittiva con la quale aveva adottato tutte le misure già previste dalle regioni del nord. L’ordinanza fu impugnata dal Prefetto e poi sospesa dal TAR.

Così, al fine di evitare ordinanze difformi il Ministero della Salute dovette emanare un modello di ordinanza a cui si sarebbero dovuti attenere tutte le Regioni.

In questo contesto sarebbe stato auspicabile un maggiore coinvolgimento dei Governi periferici al fine anche di evitare adozioni di diversi provvedimenti, seppure abbastanza omogenei tra i singoli territori. Ciò avrebbe permesso una co-gestione degli interessi nazionali e regionali, in virtù anche di una maggiore conoscenza da parte dei governatori delle specifiche esigenze delle singole aree di appartenenza.

Una considerazione riguarda anche le differenti scelte dei singoli Presidenti delle Regioni su come rilevare i contagi. Si passa da tamponi eseguiti solo a persone sintomatiche (per esempio in Abruzzo, Puglia o Sardegna), a tamponi eseguiti nei confronti di persone asintomatiche (per esempio nelle Marche, Toscana, Veneto e Umbria).

Appare evidente che nella gestione dell’attuale emergenza, il rapporto fra ordinanze statali e regionali è rimasto un profilo problematico.

Nell’evoluzione della lotta al Covid19, si è assistito ad un attivismo delle amministrazioni regionali (e non solo) che si è manifestato nella previsione di sempre nuovi e più dettagliati provvedimenti, in cui la libertà sancita dalla nostra Costituzione ha trovato un suo riconoscimento, in un assetto rovesciato: il cittadino può fare solo ciò che il DPCM o l’ordinanza regionale gli consentono di fare.

Nella cosiddetta “Fase 2”, i Governatori hanno chiesto e ottenuto un maggior coinvolgimento da parte del Governo, in un’ottica di maggiore coinvolgimento istituzionale.

Ad oggi, è essenziale evitare l’adozione di misure diverse per ogni singola Regione che rischierebbe di produrre una inutile Babele di provvedimenti, senza corrispondere ad esigenze oggettive di disciplina differenziata, ad esempio, radicate in una più intensa tutela del diritto fondamentale alla salute dei cittadini. 

 

NOTA

[1] A titolo meramente esemplificativo, la Toscana – alla data del 16 maggio – ha adottato 53 ordinanze mentre ammontano a 20 quelle siciliane [fonte: Conferenza delle Regioni e Province autonome e siti regionali].