Cemento? No, grazie. Le vere infrastrutture sono digitali

scritto da il 26 Maggio 2020

Questo articolo è stato scritto a quattro mani con il professor Marco Ponti, già professore ordinario di economia applicata al Politecnico di Milano; in precedenza, tra le altre cose, ben 13 anni spesi come consulente alla Banca Mondiale sull’analisi di investimenti pubblici –

In un Paese che non crede nei mercati finanziari e che vede purtroppo una corrispondenza quasi totale tra sistema creditizio e sistema finanziario, è difficile sostenere la migliore efficienza allocativa dei mercati rispetto al mondo bancario. Ma una recente intervista a Regina De Albertis, presidente dell’Ance (Associazione Nazionale Costruttori Edili) giovani, impone una netta presa di posizione. In piena Fase 2, la giovane manager dice: “Per sostenere imprese e famiglie, tutto parte dal mattone. Serve un piano di grandi opere pubbliche e private”.

A parte osservare una lieve coincidenza tra ruolo istituzionale e scelte di politica economica, come possiamo pensare nel 2020 che il prossimo sviluppo economico post-coronavirus poggi le proprie basi su cemento & mattone? Come ha ricordato di recente il docente della Sda Bocconi Carlo Alberto Carnevale Maffè, “la pandemia non ha fermato – anzi ha accelerato – il mercato globale degli “intangibles”, fatto di contenuti, dati, software, diritti di proprietà intellettuale. A maggio 2020 Zoom, l’azienda che fornisce servizi di videoconferenza, ha una capitalizzazione superiore a quella delle prime 7 linee aeree mondiali combinate. Ormai da alcuni anni, infatti il contributo alla crescita del Pil mondiale che deriva dagli investimenti in intangibles ha superato quello dei beni tangibili”.

Nel prossimo futuro non potremo che assistere ad una ulteriore accelerazione sul digitale, fattore di globalizzazione per eccellenza. Mentre il mondo corre alla velocità della luce sul digitale, noi italiani siamo ancora fermi all’analogico e al cemento quale fattore competitivo. Poveri noi! Non meravigliamoci se l’Italia detiene da tempo immemorabile il più basso tasso di crescita economica europeo.

Se torniamo alla corretta allocazione delle risorse, fondamentale per creare quella “buona economia”, di cui parlava Giovanni Falcone, ci permettiamo di suggerire una comparazione tra hardware e software, tra la pesantezza dell’industria edile e la leggerezza del software, il mercato del futuro, dove noi italiani dovremmo investire in modo pesante.

Se paragoniamo l’andamento delle due società di costruzioni quotate, Astaldi e Salini-Impregilo, e Reply – società che offre consulenza, system integration e servizi digitali – lo iato è imbarazzante. Parliamo di voragini. Astaldi è a un passo dal fallimento, con la speranza di trovare un accordo di concordato con i creditori. Salini-Impregilo vale meno di 10 anni fa. Reply nel 2011 valeva circa 5 euro contro i 72 di oggi. I mercati parlano con i prezzi. Ha poco senso investire a lungo termine nel settore delle costruzioni. Significa perdere i propri soldi. E non si capisce perché dovrebbe farlo lo Stato, che spende i soldi di noi contribuenti, e quindi dovrebbe investire con parsimonia e sobrietà, svolgendo analisi puntuali di costi-benefici. Ma quando mai. Assistiamo indefessi al mantra delle “grandi opere” a gogò. Basta un nuovo tratto autostradale miliardario e la crescita s’impenna! In particolare, come non osservare che la popolazione italiana è in calo, e questo calo è previsto accelerare? E che per le grandi infrastrutture di trasporto il traffico è fortemente legato al PIL, e ci vorranno molti anni per raggiungere il PIL pre-crisi? E che per le ferrovie, la rete è già oggi sottoutilizzata rispetto alla capacità?

De Albertis controbatte che “Investire sull’edilizia ha un effetto moltiplicatore sul Pil di uno Stato”. Il che è vero, ma è vero per qualsiasi investimento. Sfidiamo i migliori econometristi a dimostrare la bontà del moltiplicatore basato sulla spesa in opere pubbliche rispetto ad altri investimenti, anche ricordando il basso impatto occupazionale per Euro speso e i tempi differiti della loro entrata in funzione. Parzialmente diverse possono essere le considerazioni per il settore edilizio, ma qui rientra in gioco il calo di domanda legato alla demografia. Sono in molti a spacciarsi per seguaci di John Maynard Keynes, ma sono in pochi ad averlo letto (e ancora meno coloro che lo hanno capito).

Cari lettori, non basta scavare le buche e ricoprirle per creare crescita economica (che comunque si riferiva ad un sostegno ai consumi delle famiglie, non alle imprese). L’Italia negli ultimi 40 anni ha costruito in ogni dove, il verde, pubblico e privato, è scomparso, il partito del cemento ha rovinato interi litorali, anfratti bellissimi, spiagge un tempo incontaminate. L’abusivismo è considerato sport nazionale, con i condoni annessi, ancora oggi auspicati da Matteo Salvini. Le autorità e la pubblica amministrazione hanno sempre tollerato il malaffare edile. Ci sono voluti lustri per abbattere l’ecomostro di Punta Perotti a Bari.

Se l’Europa sarà così magnanima da finanziarci a tassi favorevoli, come spenderemo i denari? Sarà meglio investire in Alta Velocità al sud, destinata a rimanere deserta, o in viadotti pluricorsia che nessun pedaggio ripagherà, o, invece, nelle autostrade digitali e nei servizi innovativi? La giustizia ferma senza processi la vogliamo far ripartire o dobbiamo festeggiare con orgoglio un’amnistia di fatto generalizzata? La pubblica amministrazione dovrà assumere geometri e carpentieri o, piuttosto, ingegneri del software?

Ricordiamoci, in chiusura, di uno dei tanti insegnamenti di Alberto Alesina – straordinario economista e mentore – che illustrava, in ogni suo paper, l’evidenza empirica combinata con una rara intelligenza: “La parola infrastrutture è il salvagente di un’industria che non innova e non cresce. L’Irlanda sta crescendo del 6% all’anno con infrastrutture fatiscenti (Più produttività, questa è la vera sfida, La Stampa, 11 aprile 2003)”.

Twitter @beniapiccone