Lavorare tutti da casa? Ecco come sarà il mondo dopo il Covid-19

scritto da il 10 Giugno 2020

Post di Emanuele Cacciatore, senior director di Oracle, e Nicola Comelli, co-founder Eggup –

“To do so forever”. Grazie a queste parole la circolare che Jack Dorsey, il fondatore e ceo di Twitter, ha scritto ai suoi dipendenti il 12 maggio scorso è entrata nella storia dell’organizzazione aziendale. Una comunicazione “asciutta” e diretta. E però, anche, dirompente. Perché Dorsey ha ufficializzato la possibilità, per i dipendenti che lo vorranno – e sono circa 5000 –, di poter continuare a lavorare da casa “per sempre”, per l’appunto, anche quando l’emergenza sarà finita. “I mesi passati – ha scritto – hanno dimostrato che è possibile un approccio lavorativo che pone l’enfasi sul decentramento e sul lavoro decentralizzato. Quindi, se i nostri dipendenti hanno una mansione che consente di lavorare stabilmente da remoto e vorranno continuare a farlo per sempre, faremo sì che ciò sia possibile”. In questi mesi tutte le Big Tech hanno sperimentato con successo l’agilità, facendo lavorare il loro personale da casa. Twitter, però, va oltre, aiutandoci a capire come realmente potrà cambiare il mondo post Covid-19.

La tendenza ad adottare modalità di lavoro flessibile era, tuttavia, un fenomeno in ascesa già prima della pandemia. Secondo Linkedin, le richieste di lavoro flessibile registravano infatti un trend in aumento già dal 2013; tra 2016 e 2018, le offerte di lavoro pubblicate con menzione di opzioni di lavoro flessibile sono cresciute del 78%.

Questo incremento è dovuto alla combinazione di tre fattori principali:

1. gli stili di vita e lavoro dei millennials – entro il 2025 rappresenteranno il 75% della forza-lavoro globale – improntati a flessibilità, autonomia ed equilibrio tra vita privata e lavoro;

2. il costo della vita nei grandi centri urbani, in particolare il costo delle abitazioni, non accompagnato da una crescita proporzionale dei salari reali, che spinge molti lavoratori verso le periferie;

3. la digitalizzazione, accompagnata dalla pervasività di strumenti e piattaforme di collaborazione e lavoro da remoto, che ha consentito a un numero crescente di aziende di accogliere le richieste di maggiore flessibilità da parte dei dipendenti.

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La crisi ha solo accelerato e consolidato un trend già in atto. Qualche esempio aiuta a capire ancora meglio la portata del fenomeno:

– Zoom – la società di video-conferencing californiana – ha registrato una crescita del numero di daily meeting participants da 10 milioni (dicembre 2019) a 300 milioni (fine aprile 2020);

– altre applicazioni di video-conferencing, tra cui 8×8, Cisco Webex e Microsoft Teams, insieme a piattaforme di instant messaging e collaborazione come Slack, hanno registrato analoghi picchi di crescita del numero di utenti;

– la capitalizzazione di mercato di Zoom a metà maggio 2020 ha raggiunto i 49 miliardi di dollari, un valore più alto della capitalizzazione di mercato delle prime sette compagnie aeree statunitensi ed europee (un’azione Zoom a inizio 2020 valeva circa 68 dollari; alla data in cui scriviamo ne vale circa 175).[1]

Sono solo alcuni dei segnali che confermano le previsioni su quella che sarà una caratteristica dominante negli scenari sul futuro del lavoro: una nuova organizzazione del lavoro basata su una “forza lavoro distribuita”, abilitata dal cloud.

Per “forza lavoro distribuita” (distributed workforce) si intende un modello di organizzazione per cui gran parte – se non tutta – la forza lavoro, non svolge le sue attività da una sede aziendale, ma da sedi remote (abitazioni o spazi di coworking) connesse tramite un network aziendale che utilizza strumenti e piattaforme di collaborazione e comunicazione.

Per tante aziende la gestione di questa nuova organizzazione rappresenterà una sfida molto complessa. Per molte altre significherà gestire l’accelerazione, causata dalla pandemia, di un processo di trasformazione avviato da tempo.

Per uno sparuto gruppo di aziende invece non cambierà nulla. Sono quelle che con largo anticipo rispetto al contesto attuale, hanno costruito il proprio modello di business fondandolo proprio sull’applicazione del concetto di distributed workforce: sono le distributed companies, aziende ‘distribuite’.

Stiamo parlando di realtà nativamente basate su un’organizzazione interamente distribuita. Una delle più note è Invision, fondata nel 2011 da Clark Valberg.

Invision è una piattaforma che permette di ideare e realizzare user experience, grazie a una simulazione dinamica delle interfacce digitali. Quando Valberg lanciò la sua azienda si trovò ad affrontare il problema tipico di tutti gli startupper: contenere al massimo le spese. Decise quindi di dare vita a un’organizzazione priva di un baricentro fisico. E anche al crescere dell’organico (oggi Invision conta circa 800 dipendenti) il modello non è mutato. Invision non ha un quartier generale e il personale lavora da dove vuole. L’azienda organizza una serie di incontri annuali che servono per la condivisone di strategie, obiettivi e anche per la creazione di quello spirito di squadra che non può non passare per il contatto tra le persone.

Un altro interessante esempio è Automattic, azienda che sviluppa applicazioni web e software open source per blog. Nata nel 2005, oggi ha circa 1.200 dipendenti, distribuiti in 75 paesi. Nel 2017 l’azienda ha definitivamente chiuso la sua sede di San Francisco, che era un semplice spazio di co-working, e le altre due sedi a Portland e a Città del Capo. Matt Mullenweg, il ceo, ha motivato la decisione di optare per una forza lavoro interamente distribuita spiegando che “il talento e l’intelligenza sono distribuiti equamente in tutto il mondo”. Il valore stimato di Automattic, a settembre 2019, era di circa tre miliardi di dollari.

Kuty Shalev, fondatore e ceo di Clevertech, azienda di sviluppo software fondata a New York nel 2000, ha incontrato il suo chief technology officer in persona per la prima volta tre anni dopo avere iniziato a lavorarci insieme. Questo perché Clevertech è una società completamente remotizzata dal 2006. I suoi 200 dipendenti lavorano in 28 paesi, senza una sede fisica.

Certo, la gestione di una forza lavoro distribuita presenta alcune criticità: sviluppare un senso di “togetherness”, di coesione, per esempio, non è semplice. Allo stesso modo, anche l’intero processo di costruzione di una cultura aziendale presenta delle complessità significative. Eppure, gli esempi virtuosi abbondano. Ma questa è una storia che racconteremo un’altra volta.

[1] Fonte: Yahoo Finance, 16 Maggio 2020  K. Shalev, “How I Hired an Entirely Remote Workforce”, Harvard Business Review, Aprile 2016