Il grosso problema dello Stato minimo con l’economia di mercato

scritto da il 08 Luglio 2020

Articolo di Ivan Giovi (laureando in economia all’Università Cattolica del Sacro Cuore), Andrea Muratore (Business Analyst in Accenture) e Lucio Mamone (dottorando in filosofia alla Goethe Universität di Frankfurt am Main), collaboratori di Kritica Economica e analisti presso l’Osservatorio Globalizzazione –

Interveniamo nell’interessante dibattito che si è sviluppato su queste colonne a proposito del concetto di Stato imprenditore, prima nell’articolo di Guerani e Barbera e poi nella risposta di Ferrari e Bullian. Il nostro contributo non è unicamente a favore di quell’idea innovativa di Stato-imprenditore di cui fa manifesto la studiosa Mariana Mazzucato e di cui si sono fatti portatori Guerani e Barbera, ma è anche un contributo tecnico di teoria economica, volenteroso di mettere in evidenza come l’economia di mercato capitalistica sia compatibile con l’idea di Stato imprenditore e le critiche di “statalismo” e “sovietizzazione” siano infondate.

Per quanto la risposta di Ferrari e Bullian appaia impeccabile dal punto di vista logico, l’impostazione teorica che i due giovani studiosi abbracciano – e danno per scontata – è tuttavia scricchiolante e, se invalidata, porta al rifiuto delle sue conclusioni, tanto sul piano della teoria economica quanto su quello della teoria politica.

Partendo dal primo livello di analisi, la presunta superiorità del mercato nell’allocare le risorse definite da una gerarchia di valori che parte dalle scelte di consumo e quindi dai valori soggettivi individuali ha come fondamento la perfetta razionalità degli agenti economici, che analizzata in luce critica non trova riscontro con la realtà. Gli agenti economici non sono in grado di distinguere tra rischio e incertezza, tra eventi che possono essere espressi in termini probabilistici, eventi su cui è giusto avere aspettative ma su cui è impossibile calcolare una probabilità ed eventi totalmente inaspettati, come gli ormai celebri “cigni neri”. Se questo è vero, allora, gli individui non sanno essere razionali nelle loro scelte e il mercato non è in grado di allocare in maniera ottimale le risorse. E non si sono qui nemmeno presi in considerazione tutti i problemi logici in riferimento al problema del capitale, che portano alla confutazione del meccanismo di domanda e offerta dei fattori.

Da un secondo punto di vista poi la diretta correlazione tra valori soggettivi e prezzi formati sul mercato, che contengono tutte le informazioni necessarie per una scelta razionale, risulta fallace se si introduce la concezione smithiana di valore d’uso e valore di scambio, che invalida il meccanismo di formazione dei prezzi attraverso il mercato e ribalta la prospettiva: dai prezzi normali (di produzione) ai valori, dove il prezzo di mercato è una possibile momentanea “gravitazione” del prezzo di produzione, che può essere data da temporanee eccedenze, deficienze o capacità attraverso la comunicazione di rendere artificiosamente alto il prezzo normale dei beni (come per i beni di lusso).

Nella divergenza di vedute con Ferrari e Bullian, sottolineiamo poi una diversa interpretazione del concetto di Stato-imprenditore e del rapporto tra Stato e mercato, esemplificato dall’approccio delle nostre controparti sull’esempio di Tesla. Ferrari e Bullian, infatti, vedono nel fatto che l’azienda automobilistica fondata e gestita da Elon Musk associa ad un’elevata capitalizzazione risultati reali di modesto spessore una dimostrazione dell’efficacia del “capitale paziente del mercato” che sovvenziona le perdite attuali di Tesla in vista di risultati futuri e sceglie “vincitori e vinti sulla base del successo commerciale”. A questo si associa la supposta incapacità di uno Stato-imprenditore di selezionare vincitori di eguale calibro in maniera trasparente.

Critichiamo questa visione perché, in primo luogo, alla nozione di Stato-imprenditore preferiamo la ben più articolata concezione dello Stato-stratega, uno Stato che non abbia nella mera ricerca di assetti proprietari sul mercato la sua stella polare ma, al contrario, miri a rafforzare il perimetro di settori strategici e ritenuti cruciali oltre le barriere del principio di efficienza economica. Settori come l’energia, le telecomunicazioni, la difesa, l’aerospazio e, la pandemia ce lo ha insegnato, il farmaceutico e il biomedicale presuppongono necessità di più ampio respiro che giustificano, per ragioni di sicurezza nazionale, il presidio delle catene del valore e la tutela di filiere fondamentali, in funzione di un intervento dello Stato volto a garantire le linee d’indirizzo nel medio-lungo periodo. Tesla, in questo contesto, si inserisce nel più ampio complesso dei legami del suo fondatore con l’architettura capitalistica statunitense.

Un’architettura che è a trazione politica e visione strategica per sua stessa natura, come ha studiato Alessandro Aresu nel suo saggio Le potenze del capitalismo politico, in cui si sottolinea il fatto che il fondatore di Tesla sia ben lungi dall’adeguarsi al pilota automatico del mercato. Musk – sottolinea Aresu – ha più volte “giocato” con la fiducia degli investitori minacciando di ritirare Tesla dal mercato dei capitali e si è ben guardato dal portare a Wall Street la sua creatura più importante, SpaceX, non a caso divenuta recentemente di cruciale importanza per la corsa allo spazio di Washington, partita di cruciale interesse geopolitico. Il capitalismo politico non si fa governare, ma governa a sua volta i mercati: e Musk questo lo sa bene, perché le sue aziende si inseriscono nel filone ampio del comparto tecnologico americano, in cui l’innovazione di base è stata a lungo favorita dal venture capitalism pubblico e il cui potere negoziale è dovuto all’arruolamento dei suoi campioni nelle grandi strategie di Washington. Il mercato si adegua, mai potrebbe portare veramente allo schianto un’impresa innestata in un’architettura fondamentale per l’interesse nazionale di Washington.

Da una prospettiva di teoria politica generale poi, le obiezioni allo Stato-imprenditore originano dalla seguente questione: “Ha senso – e in che modo? – concepire una scala di valori morali (assiologia) riferita a un’entità priva di soggettività psicologica?” In effetti gli autori stessi rispondono affermativamente a questa domanda rievocando lo spauracchio dello Stato etico, spesso identificato con la sua parodizzazione fascista in completa dimenticanza di come il suo principale teorico, Hegel, lo concepiva come forma compiuta di realizzazione dell’ideale liberale. Ma comunque lo si voglia caratterizzare, resta un fatto. La realtà politica ha fornito con lo Stato etico un esempio di organizzazione statale che effettivamente presuppone una certa gerarchia di valori. Quindi la domanda iniziale, per essere esaurientemente trattata, richiede ora un ribaltamento: può uno Stato costituirsi e persistere senza attuare scelte di valore, etiche o morali che siano?

Oggi fra gli economisti si tende forse a rispondere di sì, ma a questo punto l’onere della prova ricade sui moderni sostenitori dello Stato-neutrale, perché in effetti non si dà caso concreto che si basi su presupposti di questo tipo. Il fondamento di ogni stato moderno è infatti unanimemente riconosciuto nell’elemento costituzionale, quasi sempre in forma scritta, salvo quelle rarissime eccezioni in cui si afferma che il consenso civile sui principi fondamentali sia così ampio e solido da non rendere necessario una costituzione formale. E le costituzioni a loro volta altro non fanno che esprimere scelte non solo valoriali, ma progettuali, che presuppongono quindi una volontà politica che si incarichi di attualizzarle nel tempo. È questo il bene comune che lo stato ha il diritto ed il dovere di perseguire, bene che non si basa su presunzioni ontologiche circa l’Intelligenza suprema dei burocrati o la conoscenza intuitiva del diritto naturale, ma su quel patto sociale che tiene unita la nazione, mentre tutti coloro che diffidano lo Stato dal prendere posizione rispetto allo sviluppo sociale e quindi anche dall’intervenire in economia, si fanno portavoce, consapevolmente o no, di uno svuotamento materiale della costituzione della Repubblica.

Se si ha davvero a cuore tanto lo spirito liberale dello Stato italiano quanto la libertà economica, bisognerebbe poi prestare molta attenzione nell’identificare immediatamente le preferenze espresse dai singoli in quanto consumatori da quelle espresse in quanto cittadini. Poiché resta pur sempre vero che la società liberale, proprio come forma di tutela della libertà, vorrebbe mantenere separate il momento individuale della scelta economica dal momento civile della scelta politica. Tale forma plurale di tutela della libertà individuale può essere, peraltro, fatta risalire proprio ad Hegel, il quale riteneva necessari, l’una per l’altro, la Società civile e lo Stato, la prima perché forniva al cittadino un ambito in cui vivere la propria autonomia ed il secondo perché ricomponeva i conflitti potenzialmente laceranti generati nella Società civile, senza dover però sopprimere la libertà individuale.

Se perciò viene meno la costruzione teorica di riferimento, allora anche le domande che pongono i due autori perdono di efficacia. Infatti, se il mercato non alloca meglio le risorse e non dimostra di essere lungimirante e paziente, corollario del fatto che gli agenti economici non sono razionali, allora la funzione dello Stato non è quella di regolare il funzionamento del mercato ma quella di coordinare e dirimere i contrasti che si formano nella società e farsi garante del patto sociale di cui si è fatta menzione. Dove gli interessi contrastanti che la attraversano non corrispondono agli interessi degli individui atomizzati (o almeno non solo), ma agli interessi delle varie categorie o classi sociali. E anche quelli, come scrivono Guerani e Barbera, di una “azione pubblica (…) fondata su un stato networked, inteso come nodo di una rete a potere distribuito, che si pone come facilitatore e coordinatore tra attori, settori e risorse”.

Tale concezione non è antitetica alle idee di mercato e di concorrenza, se ben fondate. Che significa? L’idea base non deve essere che la concorrenza e il mercato sono mezzi necessari e sufficienti per ottenere l’ottimo paretiano nella distribuzione delle risorse e nella lungimiranza dell’allocazione degli investimenti, ma bensì quella che la concorrenza e il mercato sono strumenti imperfetti e sensibili alla società in cui esse si trovano. È perciò compito dello Stato prendersi la responsabilità di ottemperare all’imperfezione di questi strumenti attraverso la sua azione sì come regolatore, ma anche come imprenditore lungimirante. Ciò non ha nulla a che vedere con la formazione dei prezzi (che come abbiamo visto sono prezzi di produzione) e con l’assetto proprietario del capitale o dei mezzi di produzione. La concezione di un’idea di economia mista non nega a prescindere l’economia di mercato.

Cadono perciò anche nel vuoto le critiche di “sovietizzazione” e “statalismo”, dal momento che tale concezione non è estranea all’idea di capitalismo, se consideriamo il concetto nella sua accezione weberiana. D’altronde anche Keynes considerava sé stesso come un moderato conservatore e riteneva la “socializzazione degli investimenti” necessaria per salvare il capitalismo.