La lotta all’evasione fiscale passa davvero da lotterie e cashback?

scritto da il 15 Settembre 2020

Post di Fabio Ghiselli, dottore commercialista, già tax director d’impresa, attualmente tax and lab advisor, autore di numerose pubblicazioni in materia tributaria e di welfare, opinionista de Il Sole 24 Ore, cultore di economia –

Misure di incentivazione all’uso della moneta elettronica, come la lotteria degli scontrini e gli sconti sui pagamenti, o cashback, sembrano ritornati all’attenzione del Governo e degli operatori del settore.

La lotteria degli scontrini è stata introdotta già dalla legge di bilancio 2017, ma la sua applicazione è stata dapprima posticipata al 1° luglio 2020 dal decreto fiscale di fine 2019 (DL 124/2019) e poi al 1° gennaio 2021 dal decreto “Rilancio” (DL 34/2020), per le oggettive difficoltà degli esercenti legate all’emergenza da coronavirus.

Il suo funzionamento è piuttosto semplice: ogni euro speso da diritto a un biglietto virtuale fino a un massimo di mille biglietti anche se la spesa dovesse essere superiore a mille euro. Prima dell’emissione dello scontrino l’acquirente dovrà comunicare il proprio “codice lotteria”, che viene rilasciato, previa registrazione sull’apposito portale, dall’Agenzia delle dogane abbinato al codice fiscale. Per il monte premi sono stati stanziati 48 milioni di euro, di cui 45 riservati a chi effettua pagamenti con carte elettroniche.

L’incentivo ai pagamenti elettronici, il cosidddetto cashback, è ancora più semplice: chi effettua un pagamento con carte elettroniche o con app su smartphone, riceverà un rimborso in denaro con modalità e misura che dovrebbero essere definite da uno o più provvedimenti attuativi. Ad oggi, come riportato sulle pagine de Il Sole 24 Ore, l’idea sarebbe quella di attribuire un premio del 10% generalizzato, fino a un monte spese di 3.000 euro annue. Ma è solo una delle ipotesi attualmente in discussione. La legge di bilancio 2020 aveva stanziato per il cashback 3 miliardi di euro, che però sono stati utilizzati per l’emergenza pandemica, ma la misura è stata aggiornata con il “decreto agosto” (art. 73), ed è intenzione del Governo rifinanziarla nell’ambito del “Piano cashless per l’Italia”, con effetto dal prossimo 1° dicembre.

Ma queste misure avranno l’effetto di ridurre l’evasione fiscale come tutti sperano?

Potremmo osservare che il primo a non crederci sembra essere proprio il Governo che, almeno in sede di approvazione dei suddetti provvedimenti, non ha previsto maggiori entrate ma solo spese. Se da un lato si può elogiarne la prudenza, dall’altro ci si chiede come mai, se questa fosse la reale finalità, non sia stato seguito il medesimo criterio che ha caratterizzato l’introduzione di altre misure antievasione.

La lotteria degli scontrini, per esempio, è stata introdotta in Brasile, Cina, Portogallo, Uruguay e Colombia, con risultati di un certo rilievo nei primi tre, anche se non costanti. Ma al di là del numero molto limitato di Paesi che l’hanno adottata, e dei dubbi sul loro rilievo come punti di riferimento per le nostre scelte di politica fiscale, la considerazione che si propone è un’altra. Se vogliamo di tipo etico-morale.

È corretto e opportuno che lo Stato sfrutti il vizio del gioco degli italiani – che vale oltre 100 miliardi di euro l’anno in termini di risorse giocate – per combattere un altro vizio, se così si può dire, che è quello dell’evasione fiscale? È corretto e opportuno che si sfrutti la falsa convinzione di coloro che giocano o scommettono, che la probabilità che si verifichi l’evento positivo sia più elevata di quella che la realtà statistica prevede? Visto il pericolo che il gioco d’azzardo possa trasformarsi in ludopatia, con ripercussioni sui costi sanitari, e considerato l’obiettivo di contrastare o contenere l’espansione del fenomeno, può dirsi coerente l’introduzione di una nuova lotteria?

Se poi si escludono da qualsiasi tassazione sul reddito i premi ricevuti – seppur ragionevole visto il loro modesto valore – si creerebbe l’ennesimo regime di favore per una “rendita” da evento fortuito, rispetto a quello più gravoso sui redditi da lavoro e da pensione.

Quanto alla lotta al denaro contante, che l’evasione non ruoti attorno ad esso è un fatto assodato. Altri sono i fattori che la determinano e che possiamo ricomprendere nel concetto più ampio di “cultura fiscale”, come l’etica, il senso civico e la solidarietà. Altrimenti non si spiegherebbe come mai Paesi che fanno un grande uso del contante, come l’Austria e la Germania, abbiano un tasso di evasione molto inferiore al nostro.

Così come appare assodato lo scarso collegamento con le operazioni più rilevanti di riciclaggio. Oggi le operazioni transazionali più significative avvengono “in chiaro”, con l’emissione di “regolari” fatture, con l’utilizzo di società collocate in paradisi fiscali o con lo scambio di cripto valute come i Bitcoin.

Ciò nonostante, non si può escludere che la limitazione all’uso del contante (2.000 euro dal 1° luglio 2020, e 1.000 euro dal 1° gennaio 2022), e l’utilizzo di carte di pagamento possano contribuire in qualche misura a contrastare l’evasione fiscale, come dimostrano alcuni studi condotti dal MEF, dalla BCE, dalla Banca d’Italia e da K. Rogoff, economista di Harvard e della Commissione Europea.

Anche secondo l’ultimo rapporto della Community Cashless Society – Ambrosetti House (2019), per l’Italia – che è tra le peggiori 35 economie al mondo per rapporto contante in circolazione sul Pil – una crescita dei pagamenti diversi dal contante potrebbe generare, rispettivamente, un recupero dell’economia sommersa e dell’Iva, rispettivamente variabile tra gli 11,3 e i 63,5 miliardi di euro e tra i 6 e i 28 miliardi di euro (su un valore dell’economia sommersa stimata in oltre 210 miliardi di euro nel 2018).

Un fatto, però, sembra essere ancora più certo: in assenza di controlli da parte dell’Amministrazione finanziaria, e della percezione da parte dei contribuenti della loro effettività ed estensione, nessun incentivo fiscale potrà mai essere più conveniente di evadere. E questo vale anche per il famoso “contrasto d’interessi”.

Un’altra domanda rilevante è se l’incentivo generalizzato sarà in grado di ridurre l’uso del contante. Secondo la Banca d’Italia potrebbe indurre un incremento delle transazioni elettroniche del 10%. Ma ci sono un paio di aspetti da considerare.

Chi ha redditi più elevati, da qualunque fonte provengano, già utilizza regolarmente carte di pagamento per ogni tipo di acquisti, per cui mi sembrerebbe inutile, e non necessario, attribuire uno sconto fiscale.

Viceversa, l’incremento maggiore di questo tipo di transazioni potrebbe venire da chi oggi non possiede una carta elettronica e da chi ce l’ha ma la utilizza poco. Dati facilmente verificabili attraverso l’anagrafe dei conti correnti. Tutti soggetti che, guarda caso, appartengono a quelle categorie che dichiarano redditi più bassi o meno elevati. Il famoso “ceto medio”.

Quindi, se proprio si volesse incentivare l’utilizzo della moneta elettronica, i parametri cui ancorare l’incentivo dovrebbero essere il mancato possesso di una carta e il basso numero di transazioni elettroniche effettuate a una certa data, anteriore all’avvio del bonus.
Inoltre, non sarebbe inopportuno evitare di addebitare tutto il costo dell’incentivo – compreso il credito d’imposta del 30% sulle commissioni per gli esercenti – alla fiscalità generale e di garantire un doppio vantaggio al sistema bancario, sotto forma di riduzione dei costi di gestione del denaro contante e di incremento del volume delle commissioni. La ricerca di un giusto equilibrio tra benefici e costi mi parrebbe la soluzione più equa.

Tuttavia, mi sentirei di suggerire una breve riflessione sull’opportunità di perseguire, in alternativa, tre percorsi paralleli: uscire dalla logica dell’”aiutino” per qualunque tipo di iniziativa che, necessariamente, si ripercuote sulla fiscalità generale, alla quale deve essere associata una rigorosa gestione delle finanze pubbliche; costruire con pazienza e determinazione, a partire dalla scuola dell’obbligo, una nuova “cultura fiscale”, alla quale non potrebbe sottrarsi l’amministrazione finanziaria, e un diffuso senso civico che potrebbe generare effetti positivi per tutti, e non solo in termini di entrate tributarie; realizzare una capillare campagna informativa sull’utilità e sicurezza dei pagamenti elettronici rispetto al denaro contante.

Nel caso di specie, l’utilità e la protezione del consumatore dovrebbe essere la stella polare per qualunque iniziativa politica. Non consideriamo le misure in commento come strumentali per perseguire l’obiettivo di diventare una società completamente cash free (come sembra volere la Cina, sulle cui intenzioni si veda il commento di Pierangelo Soldavini, Prove di yuan digitale. Pechino all’assalto del potere di re dollaro, su Il Sole 24 Ore del 13.9.2020).

Ricordiamoci che la gestione del contante non è competenza dei governi nazionali ma della BCE, ai sensi degli artt. 127 e 282, del TFUE. Lo ha ricordato espressamente la banca centrale nella lettera al ministro Gualtieri e ai presidenti del Senato Casellati e della Camera Fico, del 13 dicembre 2019, relativa alle nuove limitazioni sull’uso del contante disposte dall’art. 18, del D.L. n. 124/2019, conv. in L. n. 157/2019 (2.000 euro a decorrere dal 1° luglio 2020, e 1.000 euro dal 1° gennaio 2022). E non sottovalutiamo l’utilità del denaro contante e delle sue funzioni, non comprimiamo la libertà individuale di scegliere come detenere la propria ricchezza, e non dimentichiamo che il controllo diretto della moneta da parte di una autorità monetaria rende più efficiente il processo di trasmissione della politica monetaria.

Twitter @GhiselliFabio1