Cibo, quanto spreco. I consumatori non hanno idea di quel che mangiano

scritto da il 29 Settembre 2020

L’autore di questo post è Andrea Ciucci, PhD in filosofia contemporanea, prete cattolico, ufficiale della Pontificia Accademia per la Vita. Lavora sui nessi tra antropologia, etica ed esperienza religiosa, con particolare riferimento alle nuove tecnologie, alla comunicazione, alla condizione giovanile e familiare, al cibo. I suoi libri migliori sono per bambini. Twitta come @donciucci – 

Oggi 29 settembre si celebra in tutto il mondo la prima Giornata mondiale per la Consapevolezza sullo spreco e le perdite alimentari, proclamata dalle Nazioni Unite. Essa si associa alla Giornata contro lo spreco alimentare fissata nel calendario il 5 febbraio. Il raddoppio celebrativo sul medesimo tema evidenzia la questione centrale: le persone non hanno la ben che minima idea di quanto cibo si perda e si sprechi. L’utilizzo di due verbi non è un artifizio retorico: la FAO evidenzia un duplice modo in cui le risorse alimentari prodotte ogni anno non arrivano a nutrire gli abitanti del pianeta: la perdita di cibo (che si registra tra la raccolta e la distribuzione all’ingrosso) e lo spreco del cibo (tutto concentrato sulla distribuzione al dettaglio e le tavole dei consumatori); food loss e food waste hanno due specifici indici di misurazione che sostengono politiche e pratiche necessariamente diverse seppur convergenti nel medesimo scopo.

Il combinato disposto di perdita e spreco fa sì che, secondo il report FAO 2019, il 30% del cibo prodotto ogni anno sul pianeta non sia consumato: 1,3 miliardi di tonnellate di alimenti per un valore economico stimato di 900 miliardi di dollari, più che sufficiente per dare abbondantemente da mangiare tutti i giorni al quasi miliardo di persone che, nel XXI secolo, soffrono ancora la fame. Fondazione Barilla tenta una previsione futura e lo scenario appare ancora più pessimista: 2,1 miliardi di tonnellate di cibo sprecate nel 2030.

Il tasso attuale di perdita di cibo tra produzione e distribuzione all’ingrosso (il food loss su cui la FAO pone particolare attenzione) è del 14%, così suddiviso per aree geografiche e tipologia di alimenti:

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Malgrado l’alto tasso tecnologico che caratterizza il sistema agro alimentare occidentale, Europa e Nord America si collocano al secondo posto della classifica con più del 15% di cibo disperso. Il report FAO spacchetta gli indicatori e i numeri diventano ancora più eloquenti:

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Nell’Africa sub sahariana, segnata regolarmente da tragiche carestie, quasi il 18% delle calorie prodotte non arriva a essere consumato: una persona su cinque è condannata alla fame per spreco di risorse già esistenti. In occidente, invece, si perde cibo di qualità, dall’alto valore economico.

Secondo una recente ricerca RTS, gli Stati Uniti sono il leader mondiale dello spreco alimentare: ogni anno quasi 40 milioni di tonnellate di cibo, più di 161 miliardi di dollari (una media di 1600$ a famiglia), il 30-40% della fornitura di cibo del paese, il 22% dei rifiuti solidi urbani. La sola industria della ristorazione spende ogni anno circa 162 miliardi di dollari per gestire lo spreco di cibo.

In Italia non siamo da meno. Nel settembre 2019 il Ministero dell’Ambiente in collaborazione con Università di Bologna presentano i risultati del progetto Reduce: il food waste italiano vale quasi 12 miliardi di euro, il food loss è invece stimato in oltre 3 miliardi di euro, ovvero il 21,1% del totale. In totale oltre 15 miliardi, lo 0,88% del Pil. In termini ambientali, la cifra corrisponde (stima Coldiretti) a 24,5 milioni di tonnellate di CO2 emesse nell’atmosfera inutilmente. (Ulteriori dati nel Rapporto 2017 sullo spreco alimentare curato da ISPRA).

Lo spreco alimentare cresce di pari passo con il benessere delle popolazioni. Un recente articolo pubblicato su PLoS ONE mostra come il dato relativo allo spreco di cibo comincia ad emergere quando i consumatori raggiungono una soglia di spesa pro capite di circa 6,70 dollari al giorno. La tendenza è confermata, per l’area italiana, dalle analisi compiute dall’Osservatorio sugli sprechi alimentari promosso dal CREA, il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria. Nella relazione finale si afferma che “Il 77% delle famiglie intervistate ha dichiarato di aver gettato via del cibo nella settimana precedente all’intervista. Quasi un quarto delle famiglie, quindi, sembra aver un comportamento di elevata attenzione al tema. L’incidenza di famiglie virtuose, che non gettano via il cibo, aumenta con l’aumentare dell’età della responsabile acquisti, con il diminuire del reddito e in famiglie che vivono al sud e isole.”

Perché i giovani benestanti del centro nord sono i peggiori sperperatori di cibo in Italia? Sono meno coscienti del fenomeno? Non si curano delle conseguenze sociali (percepite solo dal 59% degli intervistati), economiche (70%) e ambientali (55%) dello spreco alimentare? Perché 4 italiani su 5 pensano che a sprecare cibo siano gli altri, nel commercio, nelle scuole e negli ospedali?

La costruzione della coscienza sociale in ordine a un determinato tema è sempre operazione complessa, a maggior ragione quando investe un aspetto strutturale dell’esistenza di ciascuno quale quello dell’alimentazione. Tra i molti fattori che meriterebbero particolare attenzione in ordine a una maggior coscienza della gravità dello spreco alimentare, esige qualche attenzione in più uno degli effetti in realtà poco considerati della così detta filiera alimentare lunga. La distanza (fisica e temporale) tra produzione agroalimentare e consumatore finale non è solo foriera di problematicità legate all’aumento dei costi connessi ai molti soggetti coinvolti, agli sprechi dovuti ai molti passaggi necessari, alla qualità degli alimenti, ai costi ambientali generati da trasporti e catene del freddo ad alto inquinamento. C’è anche un aspetto culturale decisivo che influisce non poco sulla coscienza del consumatore finale e delle sue scelte.

Michel Welter, allevatore francese proprietario della così detta “ferme des mille vaches”, la fattoria delle mille vacche assurta all’onore della cronaca nel dibattito sulla eticità degli allevamenti industriali, è perentorio: i consumatori non hanno idea di quel che mangiano. Secondo Welter c’è un abisso scavato tra città e campagna: «La gente pensa che i pesci escano fuori dall’acqua già rettangolari come i bastoncini Findus. Un bambino in visita alla fattoria una volta ha detto al compagno “che scemi questi contadini che stanno a mungere le vacche, io il latte lo compro al supermercato”». Su questo punto il suo pensiero converge perfettamente con una delle antagoniste al suo lavoro, l’anti-specista Brigitte Gothière, la quale denuncia l’inconsapevolezza su cui si fonda l’industria alimentare: «Se i francesi avessero ben presente che cosa è stato il pezzo di vitello che hanno nel piatto, se sapessero come ha vissuto e soprattutto come è morto, ci penserebbero due volte prima di mangiarlo».

I consumatori occidentali non hanno idea di quello che mangiano, non hanno percezione di cosa hanno nel piatto. Anzitutto, la filiera alimentare lunga ha completamente cancellato la violenza necessariamente insita nel mettere a tavola un animale. Nessuno pensa che la succulenta bistecca sfrigolante sulla brace era parte del muscolo di un manzo vivo fino a pochi giorni prima, nessuno pensa che la fetta del prosciutto che farcisce il panino è stata tagliata da una coscia di un maiale, nessuno degustando il filetto di orata al forno con le patate ha in mente un bel pesce guizzante nel mare. Se si spreca con troppa facilità cibo di origine animale è perché non pensiamo che quel cibo è costata la vita di un essere vivente. L’argomento della violenza insita nella pratica carnivora non può essere lasciato solo alla riflessione vegetariana né conduce necessariamente a scelte di quel tipo. Una filiera culturalmente corta non solo riduce l’inquinamento e aumenta la qualità dei prodotti (così l’indagine Ispra-Coldiretti 2017) ma, favorendo la conoscenza di quello che c’è dietro ogni alimento, può aumentare significativamente la responsabilità con cui si gestiscono gli alimenti di origine vegetale e animale.

La filiera alimentare lunga, che sgancia totalmente prodotto finale da luoghi e tecniche di produzione non è inoltre capace di evidenziare i tempi lunghi connessi ai cicli della vita e le fatiche del lavoro agro alimentare: per avere sul piatto un filetto di bovino adulto si è dovuto allevare un animale per anni e le mele disponibili 365 giorni all’anno sui banchi del supermercato sono in realtà il frutto di un lavoro annuale. Il consumatore contemporaneo (spesso urbano) assai raramente ha coscienza dei tempi e delle fatiche che erano ben conosciute invece dalle popolazioni cresciute in regime di sussistenza, dove fondamentalmente la gente mangiava quasi esclusivamente ciò che produceva direttamente.

Migliorare la coscienza dello spreco alimentare e motivare scelte consapevoli nel consumatore finale è compito che chiede un impegno convinto e coeso dei molti soggetti politici, economici, culturali e sociali coinvolti, come lo stesso processo deliberativo della Giornata ONU dimostra. Accanto alla diffusione dei dati e al suggerimento di buone pratiche, è certamente necessario offrire una narrazione nuova e diversa dei prodotti agroalimentari capace di tornare a esibire la stretta connessione degli alimenti con il ciclo vitale del pianeta. Anche e soprattutto così il consumatore finale avrà maggior coscienza del valore grande di quello che ha nel piatto e ne avrà cura e rispetto. Solo così al gesto sprezzante del gettare via si sostituirà la pratica profondamente umana della gratitudine.