Covid-19 può far male all’economia per 40 anni. Basterà il Recovery Fund?

scritto da il 09 Ottobre 2020

Il 21 luglio scorso, dopo quattro giorni di dure negoziazioni, il Consiglio Europeo ha approvato la bozza di accordo sul Recovery Fund, ossia sull’iniezione di 750 miliardi di euro per risollevare le economie europee dalla crisi causata dal Covid-19. Circa la metà di questa somma sarà a fondo perduto, l’altra metà sarà sotto forma di prestiti a lungo termine e a tasso agevolato. L’intero importo sarà garantito da un’emissione comunitaria. All’Italia, che ne è la principale beneficiaria, dovrebbero andare circa 209 miliardi.

Per dare un ordine di grandezza, si tratta grossomodo di un decimo del PIL nominale italiano e corrisponde all’incirca al crollo che il prodotto interno lordo del nostro Paese sperimenterà nel 2020 rispetto al 2019. Poiché il PIL comunitario si aggirava nel 2019 sui 18.500 miliardi di euro, l’impegno del Recovery Fund pesa circa pari quattro punti di PIL. La domanda è: è tanto o è poco? Sarà sufficiente a rispondere all’impatto del Covid-19? Quante risorse sarà necessario impegnare per rispondere a una minaccia inaspettata e soprattutto completamente fuori dagli schemi?

Questa è una domanda alla quale da mesi tutti i think tank del pianeta stanno cercando di rispondere: l’impatto della pandemia sui mercati è infatti catastrofico, ed è necessario fornire celermente ai politici un indirizzo per l’azione. Abbiamo assistito alla drastica caduta di tutte le variabili macroeconomiche, che si è accompagnata alla paralisi di un numero crescente e prima inimmaginabile di attività, settori e mercati. Questo ha già colpito in modo pesante l’occupazione e la redditività, generando una drastica penuria di investimenti, destinata a durare a lungo. Sappiamo quindi con certezza che sperimenteremo una severa caduta del PIL, il fallimento di molte aziende, una sensibile contrazione dei consumi, una difficoltà sempre maggiore per le imprese di avere accesso al credito e poi di onorarlo. Ciò metterà in grave difficoltà anche il sistema bancario, oltretutto privato di redditività dal sostanziale azzeramento dei tassi di interesse, e provocherà una riduzione brusca e ingente del gettito fiscale, proprio mentre gli Stati si trovano nella necessità di spendere molto di più per supplire alla paralisi del mercato. Ve n’è abbastanza per capire che le massicce iniezioni di liquidità operate dalle Cina, dagli Stati Uniti, dal Giappone e, buona ultima, dall’Unione Europea sono semplicemente necessarie. Sull’adeguatezza di questi interventi, però, gli interrogativi sono numerosi.

L’impatto della pandemia, infatti, è ancora in corso, e non è possibile alcuna stima corretta né sui tempi di declinazione del contagio né sulla durata reale del danno inflitto al ciclo economico. La resilienza dell’infezione in Cina, in Europa, negli Stati Uniti o in numerosi Paesi dell’America Latina, dove sta terminando ora l’inverno, suggerisce d’altro canto l’eventualità, ormai sempre più concreta, che la pandemia, terminato un giro, ne possa ricominciare un altro con l’arrivo di autunno e inverno nell’emisfero boreale. E infine non abbiamo idea di quando troveremo un vaccino capace di restituire alla nostra vita economica e sociale le forme relazionali che ritenevamo naturali e intoccabili, e che invece hanno dimostrato una disarmante vulnerabilità. Non siamo perciò in grado di fare previsioni attendibili neppure sulla durata dell’attuale sospensione dei mercati, e di conseguenza sull’intensità con la quale i suoi effetti si dirameranno nel medio e nel lungo periodo. Stiamo palesemente navigando a vista.

Mentre la pandemia iniziava nei mesi scorsi ad aggredire gli Stati Uniti, tre economisti dell’Università della California, Davis – Oscar Jorda, Sanjay Singh e Alan Taylor – hanno pubblicato uno studio sorprendente e interessante, Longer-Run Economic Consequences of Pandemics, cercando di dare una risposta non convenzionale a questi interrogativi e più in generale all’impatto della pandemia sull’economia mondiale.

Lo studio, reperibile a questo link, analizza l’impatto economico di lungo periodo delle 15 epidemie capaci negli ultimi sette secoli di fare più di centomila vittime, da episodi più localizzati sino alle grandi pandemie come la Morte Nera, che sterminò la popolazione eurasiatica nei cinque anni tra il 1347 e il 1352, o l’Influenza Spagnola, che colpì il mondo tra il 1918 e il 1920, responsabili rispettivamente di 75 e 100 milioni di morti (si veda la tabella sottostante; a tal proposito, ricordiamo che a oggi le morti ufficiali per coronavirus hanno ormai superato il milione).

Pandemie Inizio Fine Morti
Epidemia di peste (“Morte Nera”) 1347 1352 75.000.000
Peste italiana 1623 1632 280.000
Grande peste di Siviglia 1647 1652 2.000.000
Grande peste di Londra 1665 1666 100.000
Grande peste di Marsiglia 1720 1722 100.000
Prima pandemia di colera eurasiatica 1816 1826 100.000
Seconda pandemia di colera eurasiatica 1829 1851 100.000
Pandemia russa di colera 1852 1860 1.000.000
Pandemia globale di influenza 1889 1890 1.000.000
Sesta pandemia di colera 1899 1923 800.000
Pandemia di encefalite letargica 1915 1926 1.500.000
Pandemia di Spagnola 1918 1920 100.000.000
Pandemia di Asiatica 1957 1958 2.000.000
Influenza di Hong Kong 1968 1969 1.000.000
Pandemia H1N1 2009 2009 203.000
Fonte: Jorda et al., 2020

Gli autori hanno utilizzato le fonti storiche per individuare un modello matematico di correlazione fra l’impatto delle epidemie e l’andamento dei tassi di interesse, la proxy più immediata dell’andamento del ciclo economico (nelle deflazioni, caratterizzate da disinvestimenti e disoccupazione, i rendimenti sono molto bassi, mentre tendono a essere elevati nelle fasi di espansione). Ebbene, lo studio dimostra la ricorrenza dell’effetto depressivo delle pandemie, che tende a diramarsi per diversi decenni. Dovendo dare un’indicazione di sintesi ed avvertendo della notevole eterogeneità delle epidemie che compongono la serie statistica analizzata, i ricercatori indicano in circa 40 anni l’influenza negativa sul ciclo economico, evidenziando la profonda differenza rispetto all’impatto di eventi solo apparentemente simili, come le guerre, pure valutate in dettaglio: “Significant macroeconomic after-effects of the pandemics persist for about 40 years, with real rates of return substantially depressed. In contrast, we find that wars have no such effect, indeed the opposite. This is consistent with the destruction of capital that happens in wars, but not in pandemics”. Le guerre distruggono capitale fisico, che deve essere diffusamente ricostituito, e questo rende naturali (e redditivi) gli investimenti e la ripresa dei mercati del lavoro. Le pandemie invece lasciano intatto il capitale fisico e distruggono il capitale umano, non solo non fornendo alcun incentivo agli investimenti, ma sollecitando il risparmio precauzionale e la tesaurizzazione al fine di ricostituire la ricchezza impoverita.

Sono gli stessi autori ad avvertire della peculiarità di ciascuno degli eventi analizzati, compresa dunque l’attuale pandemia, e a mettere in guardia dall’applicazione automatica dei risultati. Ma la convergenza e la regolarità degli andamenti dell’indicatore analizzato rappresentano un segnale molto preciso: i virus debilitano i mercati almeno quanto gli organismi biologici, e quando questo accade vi è un bisogno grande e molto urgente di politiche fiscali e monetarie da parte degli Stati o delle istituzioni sovranazionali come l’Unione Europea.

Se non ci consentono previsioni certe, i dati del recente passato ci danno infatti indicazioni precise. In occasione dell’ultima depressione, quella innescata dal fallimento di Lehman Brothers del settembre 2008, il governo degli Stati Uniti varò nei primi giorni di ottobre il Piano Paulson stanziando 700 miliardi di dollari (una somma sostanzialmente pari a quella oggi stanziata dall’Unione Europea con il Recovery Fund) e contestualmente la Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti, immetteva liquidità nel sistema per 800 miliardi di dollari. Ma l’entità della crisi era tale che l’amministrazione Obama, insediatasi nel gennaio 2009, dovette stanziare a febbraio altri 800 miliardi di dollari (Piano Geithner-Summers), mentre il mese successivo dovette acquistare 1.200 miliardi di dollari (più di tre volte il PIL della Lombardia) di crediti deteriorati per salvare il proprio sistema bancario. In aprile il presidente degli Stati Uniti spese tutto il suo peso politico per convincere il G20 a mettere a disposizione del Fondo Monetario Internazionale una cifra analoga per sostenere i mercati mondiali.

È difficile, dunque, sottrarsi all’impressione che il Recovery Fund sia stato solo il primo degli interventi necessari, mentre la peculiarità della crisi messa in luce dallo studio di Jorda, Singh e Taylor fa sospettare che le risorse necessarie siano ancora più ingenti di quelle che il sistema-Mondo ha messo in campo lo scorso decennio. L’Europa – che diversamente da Cina, Stati Uniti e Giappone non ha un governo unitario – si trova davanti a una grande sfida, quella di realizzare le necessarie politiche, che sarebbe bene fosse vinta non solo per l’economia e il livello di vita delle nostre collettività, ma in primo luogo per lo stesso ideale europeo.

 

Diletta Dini

Studentessa di Scienze Politiche, indirizzo Studi Internazionali, all’Università di Firenze. In Yezers è membro del Team di Ricerca sull’economia circolare e scrive per la Redazione.