Recovery Fund preso per MES. E gli italiani per consolarsi mangiano di più

scritto da il 22 Ottobre 2020

Impietosi, intolleranti e malevoli? Forse, sì. Ma anche esausti, avviliti, delusi. MES e Recovery Fund sono oggetto di articoli, dibattiti televisivi e contese da un tempo così dilatato e ‘generoso’ che il cittadino, molto probabilmente, ha sviluppato una sorta di rigetto. Come dire: la verdura fa bene, ma l’eccesso di fibre può irritare il colon. In realtà, i commensali mostrano ancora buona capacità d’ingestione, tant’è che, consultando Google trends, scopriamo un incremento del 160% nella ricerca del significato di “recovery plan”. Vorremmo ipotizzare che il fenomeno fosse di buon auspicio, ma il momento è delicato e le query “coronavirus” e “covid” sono talmente dominanti da rendere inefficace o, per lo meno, debole ogni tentativo d’analisi critica. Tuttavia, come si suol dire secondo saggezza popolare, i guai non vengono mai da soli, anzi si fanno ben accompagnare, alimentando e ampliando il disagio e, purtroppo, stressando irrimediabilmente l’apparato digerente.

Proviamoci a riformulare la questione con un’aggiunta preoccupante: MES e Recovery Fund vengono ossessivamente descritti e discussi dappertutto per mesi, eppure il 10 ottobre, una nota d’agenzia riporta un post in cui il Ministro Di Maio dice che dobbiamo usare subito i soldi del Recovery Fund. Qui, restando sul piano della metafora ‘anatomica’, ci sentiamo torcere le budella. Perché? Beh, facciamo fatica a rispondere per il mal di pancia. Quindi procediamo lentamente. Per dirla in parole povere, l’accesso ai fondi per la ricostruzione, com’è stato detto e spiegato dai più, è soggetto alle cosiddette condizionalità, alle riforme: insomma, ci vuole una seria programmazione di politica economica. Non si può pensare di aprire il cassettino e prelevare i risparmi accumulati grazie ai regali della nonna e della zia. È difficile a dirsi quali fossero le intenzioni di Di Maio e, come abbiamo premesso, non escludiamo d’essere malevoli e – aggiungiamo adesso – precipitosi: forse, pure pedanti; ma non possiamo di certo trascurare che Luigi Di Maio è un rappresentante delle istituzioni. Impegnato, com’è, a portare l’Italia all’estero, sempre soggetto ai fusi orari, sicuramente gli capita d’essere stremato e digitare con superficialità. Se tuttavia stesse un po’ più attento, eviterebbe di confondere le idee a chi non è esperto della materia. Ed è evidente che non tutti possono esserlo.

Il Governo deve ancora presentare all’UE un piano di riforme: senza di esso, addio fondi! Quindi, grossolanamente, ci chiediamo: quando quell’uomo scrive “servono il prima possibile i 209 miliardi del Recovery Fund”, esattamente cosa intende dire?

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Nel post, tra le altre cose, si dice che, se le terapie intensive dovessero andare sotto stress, si creerebbe un grosso problema per il nostro paese; il che non fa una piega. Non che sia una grande intuizione ministeriale, ma transeat! Poco dopo, però, si afferma che per il superamento di questo pericolo sanitario ci vuole l’aiuto dell’Europa e si lascia intendere il ricorso al famigerato Recovery Fund. Se quella precedente non era una grande intuizione, questo invece è un grande, catastrofico, imperdonabile strafalcione: per avere subito dei fondi e per poterli destinare alla sanità bisogna servirsi del MES, che invece i governanti con le stelle intendono rifiutare perentoriamente. Vien fatto di chiedersi, a questo punto: hanno ben compreso la differenza tra Recovery Fund e MES? Oppure si stanno concentrando sull’uno scambiandolo per l’altro?

L’evidenza semantica e statistica, che guadagniamo tramite il summenzionato strumento di Google, non lascia scampo: negli ultimi novanta giorni, gli italiani hanno tentato di documentarsi con costanza sui fondi del Recovery; la qual cosa ci fa intuire la gravità della distorsione informativa. Dato che la maggior parte delle informazioni viene acquisita sul web, l’imprecisione, la parzialità e la superficialità dei dati e delle definizioni, oltre a far aumentare l’incultura nel paese, genera anche tensione e paure immotivate. Qui, dovrebbe subentrare il senso di responsabilità, ma…

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Come abbiamo detto, i guai non vengono mai da soli. La saggezza popolare, talora, pur non possedendo il rigore della filosofia morale, può rivelarsi profetica. Il 14 ottobre scorso, su Il Foglio, compare un articolo in cui la Farnesina non fa proprio una bella figura. Quando però l’accertamento è fondato su prove inconfutabili, il colpevole non ha scampo. Essendo l’Italia tra gli otto paesi firmatari degli Accordi Artemis, al Ministero degli Esteri s’è pensato di esprimere soddisfazione mediante un comunicato. Naturalmente, il testo doveva essere in lingua inglese. Non c’erano dubbi. In simili circostanze, tutti noi immaginiamo che, in quei palazzi, non si abbiano difficoltà a trovare qualcuno che conosca l’inglese. Ebbene? Immaginiamo male. Nella traduzione, poi rimossa, si leggeva, infatti, “great satisfaction of the Undersecretary Of Stefano”. In pratica, il nome del sottosegretario Manlio Di Stefano è diventato “of Stefano”. La Farnesina s’è affrettata a far notare che l’errore non è imputabile al Ministro Di Maio, scrivendo che “si è trattato di un mero errore materiale interno occorso nella fase tecnica di caricamento del contenuto”, ma è inquietante scoprire che ‘qualcuno’ ha avuto bisogno di ricorrere a un traduttore automatico.

La reazione degli italiani a proposito di economia o dell’informazione che la riguarda, in genere, segue una strana curva, quasi dipendesse da un effetto moda: sulle prime, si ha crescita esponenziale dell’interesse, una vera e propria impennata, ma, nel giro di un mese, si registra una caduta a strapiombo. Nel caso in specie, invece, come abbiamo notato, l’attenzione è rimasta alta. Una convergenza che potrebbe apparire unica per via dell’ingombrante presenza del coronavirus è quella che ci vede costretti a mettere a sistema la già discussa tendenza semantico-statistica, il calo spaventoso in alcuni settori, alcuni dei quali rischiano addirittura lo stallo, e l’incremento spropositato della spesa alimentare su base annua, 9,2% negli ultimi sei mesi, ma anche la variazione più alta degli ultimi dieci anni. Gli italiani mangiano e bevono di più, a dispetto della preoccupazione per la condizione generale e dell’aumento della disoccupazione. Lo studio che ci permette di ricavare questi dati è autorevole; si tratta di una ricerca di Ismea-Nielsen. Naturalmente, stiamo parlando della vendita al dettaglio, non della ristorazione, la quale ha subito un colpo a causa del quale non si riprenderà presto.

L’accostamento tra le questioni di politica fiscale e l’aumento della spesa alimentare potrebbe sembrare gratuito o fantasioso, ma, a ben vedere, si tratta, verosimilmente, di una risposta ‘psicoeconomica’ – ci si conceda il termine! – piuttosto nota agli studiosi di economia comportamentale. Accade, per esempio, che alcuni soggetti che versano in condizioni di difficoltà, disponendo di qualche risorsa in più, corrano a fare acquisti di beni non necessari. Allo stesso modo, in una situazione di grande incertezza, che i politici, molto di frequente, contribuiscono ad appesantire con dichiarazioni incongrue, le persone si rifugiano nel cibo, non altrimenti che se, in questo modo, potessero difendersi dalla catastrofe. Insomma, tale indicatore dovrebbe mettere in allarme chi governa un paese. Dovrebbe: per l’appunto! È opportuno rilevare, in conclusione, che l’incremento di spesa non è strettamente legato al periodo del lockdown, come invece si potrebbe pensare; se ne ha la conferma osservando il grafico di Ismea-Nielsen di seguito riportato.

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