Cosa manca all’Area Euro per rendere felici i suoi cittadini?

scritto da il 22 Ottobre 2020

Post di Lorenzo Padella, laureato con lode in Economia e Finanza all’Università di Pisa, master in Inghilterra in Behavioural Economics ed in Germania (in corso) per specializzarsi in International Financial Economics –

Il processo di integrazione europea nasce come risposta alla Seconda Guerra Mondiale allo scopo di evitare che ideologie nazionali autoritarie possano dar luce a nuovi conflitti. In effetti, il periodo che va dalla fine delle ostilità nel 1948 ad oggi è il più largo orizzonte temporale senza guerre in Europa, paragonabile solamente ai 41 anni trascorsi tra la fine della guerra Franco-Prussiana del 1881, e l’inizio delle Guerre Balcaniche del 1912. Mettendo in disparte il ruolo di garante della pace che il progetto europeo ha simboleggiato, i principali effetti e cambiamenti riguardano la sfera economica dei paesi.

Un cambiamento di paradigma
L’Unione Europea rappresenta una transizione radicale nei sistemi economici di molte nazioni che, per partecipare al sogno europeo, hanno abbandonato modelli di crescita Neo-Keynesiani ed hanno accolto il Neo-Liberismo.

Precedentemente l’ingresso nell’UE, molti stati europei erano caratterizzati da economie a forte penetrazione statale e basavano la loro crescita sullo sviluppo ed il sostenimento della Domanda Interna. Successivamente, il paradigma economico è completamente mutato, abbracciando la globalizzazione sfrenata ed implementando meccanismi di stampo mercantilistico, più aperti quindi alla Domanda Esterna. Basta dare uno sguardo alla serie storica import-export dell’Italia dal 1980 per capire la portata del fenomeno.

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Fonte: WTO (valori in Milioni di Euro)

Il primo grafico considera le esportazioni, mentre il secondo fa riferimento al totale dei beni importati. Si nota come, dal 1980 al 2014, il nostro paese abbia aumentato massicciamente sia lo stock di vendite all’estero sia gli acquisti oltre i confini.
All’interno di questo profondo slittamento economico, la creazione dell’Area Euro ha segnato un passaggio fondamentale.

Un passaggio cruciale: l’Euro
Prima dell’adesione alla Moneta Unica i mercati valutari europei erano caratterizzati da più o meno lunghe storie di attacchi speculativi. Le monete dei singoli paesi venivano prese di mira da speculatori che, effettuando vendite massicce ed anticipando le fluttuazioni dei cambi, intensificavano le svalutazioni provocando crisi economiche, come accadde alla Lira nel 1992.

L’entrata in vigore dell’Euro si proponeva perciò di garantire la stabilità dei prezzi ed allontanare il pericolo di crisi del cambio, promettendo prosperità e convergenza sui tassi di crescita tra le varie economie.

Pur essendo forti le promesse fatte dalla moneta di Francoforte, a distanza di anni vi è un acceso dibattito che coinvolge illustri economisti sui reali benefici apportati. Appare lecito domandarsi: l’Area Euro rappresenta realmente un sistema virtuoso?

La promessa della stabilità dei prezzi
Una delle più grandi promesse dell’Euro riguardava la stabilità dei prezzi ed il contenimento dell’inflazione al fine di fornire maggiore solidità al sistema economico. In effetti, quando i prezzi evidenziano un’alta volatilità, l’economia diventa meno affidabile nel dare i giusti segnali agli operatori che quindi compiono più facilmente scelte non ottimali.
Il grafico sottostante rappresenta l’andamento dell’inflazione europea su base annua dal ’91 ad oggi.

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Fonte: inflation.eu

Si evince facilmente che, dall’entrata in vigore dell’Euro, l’inflazione ha ridotto il suo valore medio al costo di vedere aumentata la sua volatilità. Inoltre, i dati mostrano almeno 2 occasioni in cui il movimento dei prezzi è sfociato in spirali deflazionistiche, perciò è rilevante notarne le implicazioni.

Il famoso filosofo-economista Irving Fisher, nel 1933, teorizzò la cosiddetta Deflazione da Debito, affermando che la deflazione rappresenta una minaccia maggiore rispetto alla crescita dei prezzi in quanto colpisce gli agenti economici che già si trovano in difficoltà, ovvero i debitori. In parole povere, in deflazione, un debitore vedrà aumentato il valore reale del proprio debito, incontrando maggiori difficoltà nell’adempimento. Considerato il fatto che il debito recita un ruolo da protagonista all’interno di un sistema mercantilistico, la deflazione incarna un pericolo consistente. Se quindi l’Euro ha rispettato l’impegno sulla diminuzione del livello dei prezzi, non sembra aver ottemperato alla questione della stabilità.
Un meccanismo riequilibratorio: la leva del cambio
Aderire ad un’Unione Monetaria comporta una manovra non trascurabile: rinunciare alla leva del cambio. La leva del cambio rappresenta uno strumento di politica economica in grado di riequilibrare il sistema quando si verificano shock asimmetrici, che quindi colpiscono alcuni paesi ma non altri. Essa consiste nello svalutare la propria moneta per riacquistare competitività rispetto ai paesi esteri e rilanciare la produzione interna.

Immaginiamo ad esempio che i consumatori italiani cambino improvvisamente le loro preferenze e indirizzino maggiormente i loro acquisti su beni di origine tedesca, dei quali vi è un eccesso di offerta. Questo porterebbe ad una contrazione di Domanda Aggregata per l’Italia ed una parallela espansione per la Germania. Per porne rimedio, in presenza di cambi flessibili, il governo italiano potrebbe decidere di utilizzare la leva del cambio svalutando la propria valuta e rendendo i propri beni più convenienti per i consumatori, riequilibrando così la domanda.

Essendo però all’interno di un sistema di cambi fissi, l’unica strategia percorribile per l’Italia sarebbe quella di rendere flessibili i salari ed abbassarli, riducendo i costi di produzione per le imprese nazionali e recuperando in termini di concorrenza. Tuttavia, in tal modo si rischia che il meccanismo di riequilibrio gravi sui lavoratori che potrebbero razionalmente decidere di emigrare nella Germania del nostro esempio e, più in generale, verso salari più alti.

Le fughe di capitale
Nonostante l’Euro abbia preso l’impegno di diffondere stabilità, la crisi iniziata nel 2010 ne ha evidenziato una criticità non trascurabile: le fughe di capitale.

Durante tutta la crisi, il denaro defluiva dai paesi con sistemi bancari deboli per dirigersi verso banche estere più sicure, danneggiando enormemente il tessuto di piccole-medie imprese degli Stati in difficoltà. Ciò accade ogni qualvolta gli operatori non ripongono sufficiente fiducia nella capacità (e volontà) del governo di salvare le banche in dissesto, e quindi decidono di mettere al riparo i propri risparmi. Comunque, oggi il salvataggio delle banche non è più di competenza degli stati nazionali, ma dipende dalle scelte di politica economica della Banca Centrale Europea.

Quando il timore di una crisi bancaria è diffuso, gli istituti di credito si avvitano in un circolo vizioso. Le banche degli stati più deboli sono costrette a pagare tassi di interesse più alti per invogliare gli agenti a non fuggire con i capitali, ma in questo modo incrementeranno ulteriormente i loro costi. Finiscono così per spaventare sempre di più i risparmiatori ed amplificare i flussi in uscita.

Anche nei periodi assenti da crisi, i capitali tendono ad allontanarsi dai paesi economicamente fragili. Questo avviene dal momento che, sebbene la BCE fissi un unico tasso di interesse per tutti gli stati aderenti alla moneta unica, non esiste un vero e proprio titolo free-risk europeo (Eurobond). Infatti, ogni paese emette obbligazioni a tassi di interesse differenti dato il livello personale di indebitamento pubblico ed il rischio percepito dai mercati. Come conseguenza, i bond tedeschi si sono affermati come asset free-risk dell’intera Eurozona, attirando ingenti masse di capitali dall’estero.

Una struttura da migliorare
Abbiamo analizzato che, mancando la leva del cambio, gli stati sono limitati all’uso di una temibile svalutazione interna in risposta al verificarsi di shock esogeni che danneggino i rapporti commerciali. In realtà, un’alternativa a questo meccanismo perverso di aggiustamento ci sarebbe, ma dipende unicamente dalle decisioni di policy dei paesi più solidi.

In pratica, se gli stati più resilienti (o non colpiti dallo shock) implementassero politiche espansive e di rilancio della domanda interna, verrebbe meno sia il vantaggio competitivo acquisito, sia l’afflusso di capitali dall’estero.

Tornando all’esempio illustrato in precedenza, se la Germania decidesse di aumentare i salari dei propri lavoratori ed effettuare investimenti pubblici, l’eccesso di offerta di beni tedeschi verrebbe colmato dall’interno, riportando il sistema in equilibrio.

Abbiamo anche esaminato come i capitali tendano a defluire al di fuori dei confini nazionali. Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, enfatizza da tempo l’importanza di un’assicurazione comune sui depositi bancari come soluzione al problema delle fughe di capitale. Logicamente, l’idea è quella di formare una vera e propria Unione Bancaria che consideri adeguatamente il rischio di mercato oltre a quello di credito; con un tessuto regolatore comune ed una procedura di risoluzione delle banche in fallimento condivisa.
In definitiva, sembra approvata dalla maggioranza degli economisti (europeisti e non) l’idea che l’Eurozona necessiti di cambiamenti strutturali per divenire il sistema convergente e di prosperità che si prefigge essere.