Vetri infranti e auto danneggiate, la contraddizione della protesta

scritto da il 30 Ottobre 2020

Ogni caduto è per gli altri un incitamento a proseguire. Il destino che ha raggiunto il caduto li ha evitati. Il colpito è una vittima sacrificata al pericolo.

 

E. Canetti, Massa e potere

I dimostranti che distruggono le vetrine, incendiano le auto e, in generale, istigano alla violenza determinano un controvalore esiziale: fingono di lottare per la povera gente, ma la indeboliscono oltremodo, provocando più danni economici di quanti ne facciano il sistema, le pandemie o il malgoverno. Gli schieramenti e i colori politici di provenienza, in certe circostanze, non contano. Abbiamo avuto prove rovinose di ‘terrore rosso’ e ‘terrore nero’: nell’uno e nell’altro caso, s’è trattato del trionfo della demenza collettiva o, diversamente e più correttamente, di quei pochi che traggono diletto dalle derive della democrazia e nel fragore della distruzione cercano riscatto, un che di transitorio e irrilevante, ma che, in poche ore, può vanificare gli sforzi di coloro che, con pazienza e dizione, hanno lavorato umilmente per anni.

È sempre difficile a dirsi se siano azioni guidate da una regia occulta; in molti casi, indubbiamente, come si suol dire, sono ‘infiltrate’, ma, in tanti altri, domina il più grosso fraintendimento del concetto di libertà, quello secondo cui la rivendicazione di un diritto passerebbe dalla violazione di una regola, dall’invasione degli spazi altrui: ogni oggetto che abbia un valore, anche minimo, diventa improvvisamente preda comune; disfarsene o ridurlo in frantumi vuol dire convincersi farsescamente di avere liberato la società dagli obblighi e dalle presunte vessazioni, senza rendersi conto di generare una quantità di vincoli superiore a quella di ciò contro cui si protesta. E inoltre: chi volesse dignitosamente protestare rischierebbe, in seguito a talune esecrande manifestazioni, di non poter più portare in piazza le proprie motivazioni; nel migliore dei casi, la contestazione sana, soffocata da quella rumorosa e violenta, perderebbe d’efficacia.

Il negozio danneggiato, le vetture date alle fiamme, le mura deturpate sono un attacco alla produzione, un oltraggio materiale e morale che colpisce anzitutto l’operaio quale protagonista della catena di valore e primo operatore della ricchezza nazionale. Il padre di famiglia che, a causa di certi omuncoli, perde la propria utilitaria o trova la propria attività in pezzi subisce una duplice privazione: oltre allo stimabile danno materiale per recuperare il quale dovrà lavorare faticosamente, ne ha uno morale ed esistenziale sia perché gli oggetti, spesso, sono simboli del sudore versato negli anni sia perché la storia d’un lavoratore è segnata dalle forme che egli stesso è stato in grado di generare.

Non è un caso che, in macroeconomia, la produzione aggregata si definisca sulla base della remunerazione del capitale e, soprattutto, del lavoro.

Se si occupa un’università, per esempio, e lo si fa per spirito socialdemocratico, si deve anche pensare che molti studenti delle famiglie meno agiate, non potendo sostenere gli esami di corso, possono perdere una borsa di studio di vitale importanza per il prosieguo degli studi.

Uno degli episodi che scatenò la protesta degli studenti, nel Sessantotto fu il divieto di raccolta delle firme contro l’intervento americano in Vietnam imposto dai Rettori. Nello stesso tempo, si registrò un considerevole aumento delle tasse. Di primo acchito, entrambe le cause del dissenso e del disagio sembrano giuste, tali da suscitare il risentimento popolare. Anche in questo caso, tuttavia, si lasciano passare, consacrandoli alla storia, personaggi e concetti vuoti e fantasmagorici: in primo luogo, in alcuni contesti accademici elitari (da lì è partita la protesta studentesca), l’aumento delle tasse non avrebbe dovuto generare ira rivoluzionaria; in secondo luogo, sono i figli di ‘buona famiglia’ e che vivono in condizioni di agio coloro che si possono permettere di pensare all’intervento militare americano nel Vietnam, non dovendo impegnarsi a raggiungere la sopravvivenza. I ragazzi che spendono il proprio tempo, dall’infanzia alla prima età adulta, a desiderare un certo paio di jeans, uno zainetto oppure a combattere contro l’emarginazione e, spesso, anche contro la fame, non potranno mai occuparsi d’un Vietnam qualsiasi, pur desiderandolo. Al contrario, molto di frequente, hanno proprio il bisogno di studiare e sapere ciò che accade in un altrove.

Gli stessi partiti di sinistra, in Italia, alle elezioni del 1968, perdettero parecchi voti, quando avrebbero dovuto trarre vantaggio dalle nuove dinamiche di contestazione che si basavano interamente sui capisaldi della socialdemocrazia: un autentico paradosso, che invece trova ampia giustificazione nell’irrazionalità e nella vacuità dei propositi. Quell’empito rivoluzionario che nasce dagli studenti che pretendono l’autoinsegnamento e l’autogiudizio, oltre a demolire i sani principi dell’apprendimento, considerando che uno studente ventenne non può avere sviluppato competenze e conoscenze tali da possedere una misura della disciplina in questione, è vuoto e si nutre solo di idee altrui, imita modelli sociali lontani, quali possono essere stati, all’epoca, quello della Cina di Mao o quello della rivoluzione d’ottobre di Lenin, non tenendo conto però che i “rivoluzionari d’ottobre” erano animati e infiammati da sacri bisogni: liberarsi dalla schiavitù e acquisire una condizione di vita più decorosa. Lo stesso Lenin, poi, a ben riflettere, propose qualcosa che non ha mai avuto seguito reale nella storia: “Una cuoca al governo del paese.”.

Caustica a tal proposito la sferzante battuta di Margaret Thatcher: “No one would remember the Good Samaritan if he’d only had good intentions. He had money as well.”

Pare altrettanto suggestivo lo scambio epocale tra Gianni De Michelis e Massimo Cacciari.

DE MICHELIS: “Hai mai pensato di iscriverti al Partito Socialista?”

CACCIARI: “No, grazie, sono ricco di famiglia”

Altra vicenda, naturalmente, è quella della nuda e cruda lotta operaia. È vero, come si sostiene dai più, talora i cortei pacifici non sortiscono gli effetti desiderati. Della violenza si ha paura, cosicché, in un modo o nell’altro, i cosiddetti governanti potrebbero prenderne atto, ma si dovrebbe per lo meno auspicare che essa generasse un superiore livello di benessere. Qualcuno, a questo punto, in considerazione dei riferimenti al partito socialista e al Sessantotto, giocherà al fraintendimento, attribuendo allo scrivente chissà quale schieramento. In realtà, qui, ci limitiamo a descrivere, con sguardo ‘econometrico’, per così dire, ciò che accade o è accaduto. Tra le altre cose, ci è stato di grande aiuto, in tal senso, un testo molto ben fatto dello storico Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica.

Le rivoluzioni si fanno per abbattere i regimi ed esautorare i dittatori, non per angosciare il popolo e rendere irrespirabile l’aria della povera gente. Il rivoluzionario vero non nasconde vigliaccamente il proprio volto, espone il proprio corpo in prima linea al costo della morte e antepone la libertà altrui alla propria.

Or ti piaccia gradir la sua venuta: / libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei la vita rifiuta

 

Purgatorio, I, vv 70-72

Durante la prima guerra d’indipendenza, un gruppo di studenti delle università di Siena e Pisa, armati di sole pietre, all’altezza di Curtatone Montanara, si fece massacrare dall’esercito di Radetzky, pur di consentire a Carlo Alberto di effettuare un’inversione tattica col proprio esercito. Ne erano consapevoli e scelsero di sacrificare la propria vita.

Nessuno vuole certe chiusure ed è difficile accettare le misure coattive. Di fatto, è difficile anche giudicarle. Da consociati, non possiamo fare a meno di rilevare una cattiva gestione della cosa pubblica: non perché si voglia indossare l’abito del detrattore di turno, ma perché le incongruenze sono troppe.

Le autorità pubbliche spesso sono solite contrarre prestiti scoperti sotto forma di azioni rituali, ad esempio nelle cerimonie d’insediamento o nello stile oratorio. Annunciano in forma più o meno nascosta un sapere salvifico. Nelle loro glorificazioni e nelle loro condanne, si atteggiano a mediatori di forze e decisioni soprannaturali. Se riesce a imporsi questa pretesa pseudosacrale, ciò è comprensibile perché molti riferiscano a sé stessi la glorificazione o la condanna annunciate.

 

H. Popitz, Fenomenologia del potere

 

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