Covid-19 e mercato del lavoro: l’impatto su stranieri, donne e inattivi

scritto da il 17 Novembre 2020

La prima ondata di Covid-19 ha rappresentato un fortissimo shock per il mercato del lavoro. Come Tortuga abbiamo deciso di analizzarne l’impatto così da poter reagire meglio alla seconda. Nel precedente articolo di questa serie abbiamo mostrato come la crisi legata al Covid-19 abbia colpito soprattutto i lavoratori senza una laurea, i giovani e il settore dei servizi. Come cambia il quadro dell’impatto sul mercato del lavoro quando si considerano altri aspetti sociodemografici? In questo pezzo ci concentreremo sull’impatto sugli stranieri, sulle donne e sugli inattivi.

Partiamo dai dati relativi al titolo di studio, che come sottolineato nel nostro primo contributo risulta essere una delle maggiori discriminanti: se sull’intera popolazione la laurea ha attenuato l’impatto della crisi (il numero di occupati è diminuito dell’1,43% tra i laureati e del 4,23% tra i non laureati), la situazione risulta molto diversa studiando la nazionalità di chi ha perso il lavoro. Nel periodo di espansione del mercato del lavoro tra il 2014 e il 2019 possedere una laurea ha pagato in termini occupazionali sia per i cittadini italiani che per gli stranieri, sebbene per questi ultimi l’aumento sia più omogeneo e meno polarizzato. Come mostrato nel grafico sottostante, se per gli italiani l’aumento degli occupati tra chi vantava una laurea era stato del 22,72% a fronte di un aumento quasi nullo per chi non aveva questo titolo di studio, per gli stranieri i rispettivi incrementi erano stati del 14,47% e 8,09%. In tempi più recenti, tra il secondo trimestre del 2019 e il secondo del 2020, il vantaggio di possedere un titolo di laurea scompare per gli stranieri. Possiamo osservare come la diminuzione totale degli occupati per questi ultimi risulta essere molto più marcata (- 10,23% contro il -2,7% degli italiani), oltre ad un sorprendente abbassamento degli occupati più marcato per i laureati stranieri (-20,1%, contro il -8,8% per i non laureati stranieri). Questi dati mostrano sia come gli immigrati si trovino a ricoprire posizioni lavorative più marginali con contratti meno tutelati rispetto agli italiani, sia come la crisi legata al Covid possa esasperare ulteriormente la spaccatura tra inclusi ed esclusi.

La pandemia ha colpito economicamente più le donne che gli uomini

Un altro gruppo che ha subito maggiormente le conseguenze della pandemia è quello delle donne. Secondo le ultime rilevazioni trimestrali ISTAT, la diminuzione di occupati in Italia rispetto al primo trimestre del 2019 è stata molto più marcata per le donne che per gli uomini. Nel primo trimestre del 2020 le donne hanno dovuto affrontato una lieve flessione nel numero occupati (-0,11%, da confrontare con un lieve aumento dello 0,47% per gli uomini); nel secondo trimestre del 2020, invece, questo dato si aggrava particolarmente per le donne, con una perdita relativa nel numero di occupati quattro volte più larga rispetto agli uomini (-2,34 % per le donne; -0,58 % per gli uomini). In assoluto le donne sono state colpite più duramente dalla crisi: rispetto al primo trimestre del 2019, le donne che hanno perso l’occupazione sono quasi 230mila, contro i “soli” 76mila uomini.

Le ragioni per cui le donne sono state più colpite dalla crisi sono molteplici: le donne potrebbero essere più propense a lasciare il proprio lavoro per prendersi cura dei propri figli (un fenomeno in lieve aumento nel 2020), o potrebbero essere sovra-rappresentate in occupazioni part time o a tempo determinato più facili da interromper. In questo senso, un’analisi settoriale può aiutarci a comprendere una delle cause di questo fenomeno. Come già analizzato in un precedente articolo, il settore dei servizi è stato più penalizzato dalla crisi in quanto non protetto dal blocco dei licenziamenti. In questo settore le donne sono sovra-rappresentate: in media negli ultimi sei trimestri, le donne e gli uomini sono bilanciati nel settore dei servizi (51% donne, 49% uomini), mentre nel settore dell’industria le imprese impiegano principalmente uomini (22% donne, 78% uomini). Dunque, le lavoratrici sono state più penalizzate per via di due fattori: sono più presenti nei servizi che altrove e il settore in cui più concentrate è stato anche il meno protetto dai provvedimenti governativi.

Andando oltre la classica analisi settoriale, i dati Eurostat ci permettono di analizzare anche l’eterogeneità di genere per tipologia di contratto. Le donne sono state colpite più duramente dalla crisi anche per via della loro tipologia di contratti: negli ultimi 10 trimestri in media le donne rappresentano il 75% del totale degli occupati in lavori part-time, mentre per i contratti a tempo determinato la differenza tra uomini e donne non è marcata (le donne sono circa il 47% del totale). Inoltre, come evidenziato nella Figura 2, le donne soffrono di più degli uomini anche in termini di uscita dalla forza lavoro: le transizioni dalla figura di occupato o disoccupato ad inattivo sono maggiori per le donne rispetto agli uomini. In termini relativi le transizioni da disoccupati ad inattivi sono aumentate di più per gli uomini, mentre il numero di donne passate da occupate ad inattive è superiore rispetto a quello degli uomini. Purtroppo, queste persone potrebbero diventare più difficili da reintegrare nel mercato del lavoro una volta finita la crisi: infatti, in genere solo una piccola parte degli inattivi è disponibile a lavorare, mentre la maggior parte decide di non lavorare per altre motivazioni (per le donne la cura della famiglia è una delle principali ragioni). Infine, rispetto al primo trimestre del 2019 le donne sono state più colpite degli uomini anche al margine estensivo: molte meno donne hanno recentemente cominciato un lavoro (-34,3% contro il -25,2% degli uomini).

Per concludere, per via della composizione settoriale e contrattuale della forza lavoro, le donne si sono ritrovate all’alba della crisi in una posizione più vulnerabile rispetto agli uomini. Non sorprende, dunque, che gli effetti negativi della pandemia a livello economico si siano riversati su questa fascia di popolazione.

Il pericolo maggiore per i giovani si chiama inattività

Durante il primo lockdown, abbiamo assistito ad un fenomeno anomalo per un periodo di crisi economica: il calo del tasso di disoccupazione dal 9,8% del mese di gennaio al 7,5% di aprile. Questo calo del tasso di disoccupazione non è dovuto ad un aumento dell’occupazione, bensì ad un aumento dell’inattività, ossia la condizione in cui un individuo in età lavorativa non lavora né cerca un lavoro. Intuitivamente, se una persona disoccupata smette di cercare lavoro, il numero di disoccupati diminuisce. Al calo del tasso di disoccupazione si è infatti accompagnato un aumento del tasso di inattività, dal 34,7% del mese di gennaio al 37,5% del mese di aprile. Se il tasso di disoccupazione si è riassestato sui livelli di gennaio nei mesi successivi (9,8% a settembre), il tasso di inattività è invece rimasto stabilmente più alto rispetto ad inizio anno (35,5% a settembre), facendo registrare un aumento di 0,8 punti percentuali, circa 240.000 lavoratori inattivi in più fra i 15 e i 64 anni. Questi dati sono coerenti con la presenza di flussi di lavoratori (occupati o disoccupati) prima del lockdown verso l’inattività, già documentata nel paragrafo precedente. È interessante studiare la composizione anagrafica del gruppo di lavoratori inattivi, in modo da comprendere gli effetti distributivi della crisi e studiare eventuali misure da adottare.

La figura mostra la variazione percentuale nel numero di lavoratori inattivi per fascia d’età da gennaio 2020 a settembre 2020. Il numero complessivo di lavoratori inattivi fra i 15 e i 64 anni è aumentato nell’ultimo anno dell’1,8%. La crescita del numero di inattivi appare concentrata nella fascia di lavoratori tra i 25 e i 34 anni, la stessa fascia d’età che ha sperimentato il calo più accentuato del numero di occupati. Anche fra i lavoratori più giovani, fra i 15 e i 24 anni, si misura una crescita del numero di inattivi (+1,21%), ma in linea con quella registrato per le fasce di lavoratori più anziane (+1,6% per la fascia 35-49 anni, +0,64% per la fascia 50-64 anni). La concentrazione del calo di occupati e dell’aumento di inattivi nella fascia 25-34 anni suggerisce che ci siano stati consistenti flussi di giovani lavoratori dall’occupazione all’inattività. Come per le donne, anche per i giovani è presente il rischio concreto di una reintegrazione difficoltosa nel mercato del lavoro, una volta terminata la crisi. Alla luce delle conseguenze redistributive della crisi che abbiamo documentato, sarebbe opportuno ragionare su misure specifiche di policy da mettere in campo per evitare l’emarginazione di fette consistenti della già ristretta popolazione di lavoratori italiani.

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