Finanza locale, il prezzo salato dell’autonomia malata

scritto da il 04 Dicembre 2020

Post di Dario Immordino, avvocato, dottore di ricerca in diritto interno e comunitario –

Il numero di enti locali che hanno mancato il pareggio di bilancio è raddoppiato rispetto agli esercizi precedenti, e la Corte dei conti segnala che i ritardi nel percorso di superamento del criterio della spesa storica e nel processo di definizione dei fabbisogni legati alle funzioni fondamentali, la strutturazione di un sistema di finanziamento che interrompe il virtuoso circuito tra tassazione e rappresentanza, l’incertezza dei meccanismi perequativi, le criticità che caratterizzano la gestione amministrativa e finanziaria e le diverse forme di elusione delle regole di equilibrio di bilancio e sana gestione finanziaria hanno accentuato le patologie della finanza locale, che rischiano di compromettere il regolare esercizio delle funzioni, privando i cittadini di servizi e prestazioni essenziali.

Il percorso di risanamento degli enti in default prevede, fra l’altro, l’incremento nella misura massima dei tributi locali e delle tariffe, il blocco di tutte le spese non obbligatorie, l’inefficacia dei pignoramenti eseguiti e l’impossibilità di intraprendere o proseguire azioni esecutive nei confronti dell’ente.

In sostanza a pagare il conto della cattiva gestione sono le imprese creditrici di questi enti e soprattutto i cittadini, chiamati a rispondere degli sprechi e delle inefficienze per la c.d. culpa in eligendo, cioè per un cattivo esercizio del potere di voto che ha portato alla selezione di una classe politica inefficiente

Questo sistema mira ad evitare che i deficit causati dalla cattiva gestione di alcuni enti siano ripianati a carico del bilancio statale (e quindi dell’intera comunità nazionale) e ad attivare «alla radice» un circuito di responsabilizzazione degli amministratori locali che, dovendo rendere conto alle proprie collettività degli incrementi di pressione fiscale e dell’aumento del costo delle prestazioni pubbliche, dovrebbero essere indotti ad esercitare le proprie funzioni in maniera efficiente.

La sanzione sembra ingiusta e “crudele”, ma forse è l’unico modo per far capire a tutti, amministratori pubblici e cittadini, che l’autonomia ha un prezzo.

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Nell’attuale congiuntura, infatti, il dissesto di regioni o enti locali può pregiudicare la stabilità dell’intero sistema di finanza pubblica nazionale ed intaccare il giudizio di affidabilità dell’Italia presso gli investitori internazionali, che condiziona la possibilità di reperire risorse presso i mercati finanziari a condizioni vantaggiose. Di conseguenza lo Stato e le autonomie territoriali dovrebbero garantire di comune accordo la sostenibilità finanziaria delle politiche pubbliche ed il rispetto dei parametri di equilibrio finanziario, ciascuno secondo le proprie effettive possibilità.
In Italia, invece, Stato e Regioni hanno abolito tributi locali, ridotto i trasferimenti erogandoli con notevole ritardo, cambiato continuamente le regole finanziarie e contabili impedendo una corretta programmazione, ed in generale hanno scaricato sugli enti più vicini ai cittadini sacrifici sempre crescenti, eccedendo abbondantemente il principio di capacità contributiva affermato dalla Corte costituzionale.

D’altra parte, però, il potere di decidere da sé ciò che è meglio per i propri cittadini è stato spesso utilizzato dagli enti locali per aggirare le regole di sana gestione, ed ogni misura di razionalizzazione della spesa e dell’organizzazione amministrativa si è infranta contro lo scudo dell’autonomia: dal taglio a consulenze, feste cittadine, spese di rappresentanza ai vincoli alla spesa di personale, dalle disposizioni sulla razionalizzazione delle società partecipate alle regole meritocratiche sulla valutazione delle performance.

Proliferazione delle partecipate e moltiplicazione della spesa per i servizi esterni (spesso inefficienti), scarsa capacità di riscossione delle entrate, assunzioni al di fuori delle regole normative e finanziarie e senza tener conto del fabbisogno effettivo, distribuzione a pioggia di premi ed incentivi al personale, ingenti debiti contratti negli anni passati zavorrano i conti dei comuni.

La refrattarietà alle regole di buon governo ha trasformato l’autonomia da strumento di tutela delle collettività locali a fonte di sprechi, inefficienza e privilegi di pochi pagati con sacrifici insopportabili della maggioranza dei cittadini.

Si è così innescato un circolo vizioso: cittadini e imprese non pagano tasse, tariffe e multe; le società partecipate, adoperate per assumere personale al di fuori dei divieti normativi e delle regole finanziarie, aprono autentiche voragini nei bilanci locali; Stato e Regioni, nell’impossibilità di controllare “amichevolmente” la spesa degli enti locali tagliano i trasferimenti; i comuni, a corto di entrate, non pagano i creditori, riducono i servizi, aumentano le tasse e a pagare il conto sono tutti i cittadini e le imprese, compresi quelli virtuosi.

Fino a qualche anno fa gli enti locali occultavano gli ammanchi attraverso veri e propri artifizi contabili, rinviavano le spese agli esercizi futuri ed i buchi di bilancio venivano ripianati dallo Stato, cioè dall’intera collettività nazionale, ma la recente riforma della contabilità ha imposto di pulire i conti dalle entrate non riscuotibili, registrare correttamente le spese e consolidare i bilanci delle società partecipate, facendo esplodere la crisi.

Per far fronte a questa situazione gli interventi di questi anni hanno allungato i tempi dei piani di riequilibrio finanziario, salvando i sindaci in carica ma non i bilanci locali.

Questa soluzione, infatti, spalma i problemi negli anni futuri invece di risolverli, perché non interviene sugli elementi strutturali che devono consentire il riequilibrio dei conti: equa ripartizione delle risorse e dei sacrifici finanziari tra tutti i livelli di governo in ragione della effettiva capacità contributiva, aggiornamento delle banche dati degli enti locali e revisione dei contratti con cui sono state devolute a soggetti privati attività connesse al prelievo tributario, adozione di strumenti e procedure di riscossione che consentono di recuperare quote considerevoli dei crediti tributari in tempi ridotti rispetto all’iter delle cartelle esattoriali; concreta attuazione del criterio dei costi efficienti e delle regole di spending review e sulla performance dei dipendenti (che riconoscono benefici solo a chi consegue davvero gli obiettivi), premi alle amministrazioni virtuose e sanzioni a carico di quelle che spendono troppo e male e non incassano il dovuto, standardizzazione ed istituzionalizzazione delle buone pratiche e delle forme di collaborazione con l’Agenzia delle entrate e la Guardia di finanza, formazione del personale, interscambio informativo dei dati tributari, interventi concreti e controlli sulla razionalizzazione delle società partecipate.

Le esperienze delle amministrazioni virtuose che in questi anni hanno mantenuto i bilanci in ordine e di quelli che hanno completato l’iter di risanamento finanziario insegnano che gli effetti della crisi finanziaria possono essere contrastati solo attraverso un’azione concorde e responsabile di tutti gli enti che gestiscono risorse pubbliche, che può richiedere una parziale rinuncia agli aspetti meno essenziali dell’autonomia. Altrimenti i cittadini continueranno ancora a lungo a pagare il prezzo salato di quest’autonomia malata.