La Cassa per il Mezzogiorno e il Recovery fund: lezioni da non sprecare

scritto da il 17 Dicembre 2020

Post di Tancredi Buscemi, dottorando in Economics all’università di Perugia; l’autore si  occupa di Storia Economica e principalmente di Questione Meridionale e disuguaglianze regionali – 

Con l’interesse crescente sulla gestione del Recovery fund, tema che ormai è al centro del dibattito pubblico, mi è capitato più volte di sentire durante le varie trasmissioni televisive una frase ripetuta come un mantra: “Attenzione a non fare come la Cassa per il Mezzogiorno” senza una specificazione ulteriore, perché nell’immaginario collettivo del Bel Paese alla frase “Cassa per il Mezzogiorno” il naturale meccanismo di associazione è lo spreco di risorse pubbliche e la narrazione di un totale fallimento dell’Intervento statale nell’economia. La questione, come amava dire qualcuno, è un po’ più complessa e fare luce su quello che ha significato la Cassa per il Mezzogiorno per il Sud del paese non solo gli rende la giustizia che la Storia gli ha dato ma rappresenta anche una chiave di lettura fondamentale per il dibattito odierno sull’impiego del Recovery Fund.

Istituita con legge 646 del 10 agosto 1950 la Cassa per il Mezzogiorno si ispirava nei principi alla Tennessee Valley Authority, un’agenzia americana di sviluppo istituita con le politiche del New Deal.

Pasquale Saraceno, fondatore della Cassa, riuscì ad ottenere l’autonomia dell’Agenzia, alla quale era permesso, tramite dei budget prestabiliti, di assumere le decisioni di investimento in pieno arbitrio. La Cassa fu così libera di lavorare e implementare progetti in determinate aree del Mezzogiorno nella sola logica dello Sviluppo e dell’eliminazione delle aree depresse, e i successi furono molteplici: infrastrutture, sviluppo di nuclei industriali, sviluppo dell’agricoltura ma anche promozione di siti di interesse storico-culturale come i parchi archeologici della Valle dei Templi di Agrigento e di Tharros nel Sinis, centri di assoluto valore archeologico a livello mondiale che senza l’Intervento straordinario non avrebbero visto la luce. Ancora oggi non è difficile trovare sulla ghisa dei tombini in molte delle regioni interessate dall’intervento straordinario il nome della Cassa, segno del profondo impatto che questa ebbe nella modernizzazione del meridione.

Il modello prevedeva la progettazione o l’approvazione, da parte di esperti nei vari settori, dei progetti presentati per gli investimenti, il tutto sotto la supervisione degli economisti del board della Cassa che avevano come unico target l’effetto moltiplicatore indotto dall’investimento, in un modello che Pasquale Saraceno stesso definì “Keynesismo dell’offerta”, ovvero sostenere e promuovere la nascita e crescita delle attività produttive che avrebbero indotto, tramite la creazione di reddito, a una domanda interna forte nel meridione.

Nel 1965, alla fine del primo quindicennio di finanziamento programmato, la musica cambia; con la legge numero 717 del 26 giugno viene istituito il ministero dell’intervento straordinario e due anni dopo il CIPE (comitato interministeriale per la programmazione economica) esistente ancora oggi e che coinvolgeva svariati ministeri nell’intervento straordinario. La politica inizia a muovere i primi passi dentro i meccanismi decisionali della Cassa con il potere di modificare o cambiare totalmente i piani prospettati dalla componente tecnica, che quindi perde la sua autonomia. Nel 1971 con la Legge numero 853 del 6 ottobre anche le regioni si siedono a quello che ormai è diventato il banchetto dell’intervento straordinario, i livelli di spesa crescono a dismisura, i progetti diminuiscono e diventano sempre più confusi e disorganizzati. In contemporanea il Mezzogiorno inizia a perdere nuovamente terreno nei confronti del resto del paese fino a tornare, ai giorni nostri, agli stessi livelli di divario precedenti alla nascita della Cassa.

Quello che ne segue fino al 1984 sono 14 anni che Pasquale Cafiero non esitò a definire “La lunga agonia dell’Intervento Straordinario”, spese altissime e pochissima efficienza.

Il migliore potenziale in termini di patrimonio intellettuale del Meridione fu in grado di costruire una strategia di sviluppo concreta ed efficace fin quando la politica non entrò prepotentemente nell’intervento straordinario, orientando le scelte di spesa per rimpolpare le clientele dei gruppi di potere nei contesti locali.

Nei vari passaggi della storia della Cassa, affrontati brevemente per ragioni di spazio e per non annoiare troppo chi legge, abbiamo visto moltissimi temi profondamente attuali e che possono aiutare non solo a leggere con un diverso occhio l’attualità di cui si dibatte ma anche ad evitare degli errori già compiuti in passato.

L’organizzazione che Matteo Renzi in questi giorni va chiedendo nelle aule di parlamento o sui giornali per il Recovery Fund non è per niente dissimile da quello che fu l’intervento straordinario dal 1965 in poi, con risultati che la storia ci ha inesorabilmente consegnato. In tutto questo Giuseppe Conte tentenna senza avere prospettato una soluzione effettiva, probabilmente nei suoi pensieri c’è una via di mezzo tra quella che era l’origine della Cassa e quella che fu dopo il 1965. Il premier dovrebbe però avere il coraggio di andare verso una gestione dei fondi che imiti la prima Cassa, favorendo uno sviluppo dei progetti in totale autonomia senza fattori esogeni che influenzino la bontà degli interventi. Molte personalità, da cui il presidente del consiglio si è fatto solo consigliare in questi mesi (in realtà non si è nemmeno capito bene quanto), sarebbero in grado di implementare progetti snelli e con un forte impatto sui redditi e sullo sviluppo del paese, scevri da ogni logica di distribuzione di poteri o clientele di sorta.

Il più grande ammontare di investimenti pubblici dalla fine della Cassa per il Mezzogiorno è un piatto ghiotto a molti e costruire un compartimento stagno dove un gruppo di lavoro, completamente autonomo e con il solo obiettivo dello sviluppo, riesca a proteggere l’utilizzo dei fondi dal classico assalto alla diligenza a cui questo paese sembra essersi abituato è di primaria importanza.

La storia della Cassa è uno scenario emblematico e da non ripetere, la narrazione che nella vulgata continua ancora oggi fece e fa comodo a chi ha fatto, a livello politico e anche di teoria economica, della Cassa per il Mezzogiorno un totem ideologico, attribuendogli lo stigma del “carrozzone di stato”. Smarcare l’intervento straordinario da queste logiche, rileggerlo in tutto il suo potenziale e in tutti i suoi difetti, ridandogli la dignità che merita, aiuterebbe ad affrontare in modo migliore questa fase che l’Italia si avvia ad affrontare.

L’esperienza della Cassa fu favorita da una visione di sviluppo del paese che, seppur con anime profondamente differenti, concordava sugli obiettivi, il processo di disgregazione dell’intervento straordinario fu la conseguenza dell’abbandono di questa visione e l’ingresso in campo della logica di lottizzazione del potere con l’uso della politica economica come strumento per preservarlo. Da quel momento non c’è più stato un vero e proprio piano organico di sviluppo e le scelte istituzionali sono state sempre dettate da una logica gestionale e spartitoria e questo, leggendo i virgolettati degli ultimi giorni sui quotidiani, potrebbe dare più di un suggerimento.

La demonizzazione dell’intervento straordinario compiuta in tutti questi anni rende difficile l’apertura di un serio dibattito sul tema della gestione del Recovery fund, il passato potrebbe farci aprire gli occhi su quale direzione prendere, ma come scriveva Antonio Gramsci ormai un secolo fa: “La storia insegna ma non ha scolari”. Per la ricostruzione dell’attività della Cassa per il Mezzogiorno si veda: Lepore, A. La Cassa per il Mezzogiorno e la Banca Mondiale: un modello per lo sviluppo economico italiano, Rubbettino,2013., Felice E., Lepore A., Palermo S. (a cura di), La convergenza possibile. Strategie e strumenti della Cassa del Mezzogiorno nel secondo Novecento, il Mulino, Bologna, 2016