Alla prova della pandemia: capire la MMT oltre gli estremismi

scritto da il 12 Gennaio 2021

Gabriele Guzzi è laureato con lode in Economia Politica alla Luiss e alla Bocconi, ha lavorato presso lavoce.info ed è stato presidente di Rethinking Economics Bocconi. Attualmente svolge un dottorato di ricerca presso l’Università Roma Tre e ricopre il ruolo di esperto economico presso il Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica della Presidenza del Consiglio* – 

Uno dei tratti più inquietanti dello stato di depauperamento culturale in cui ci troviamo a vivere come Occidente è probabilmente l’estrema polarizzazione del dibattito pubblico. La tendenza a discutere nelle modalità del tifo e dell’estremizzazione è talmente pervasiva da non essere neanche più riconosciuta. Essa non riguarda solo le fasce meno abbienti – come una certa narrazione elitista sostiene. Al contrario, essa caratterizza anche, e in misura relativamente più preoccupante, proprio i ceti intellettuali.

Uno degli esempi più evidenti di questa polarizzazione non pensante (poiché ogni vero pensiero ammette la complessità, la dialettica e la non definitezza di ogni conclusione) è il livello della discussione sulla cosiddetta Teoria della Moneta Moderna, o, nell’acronimo inglese, MMT. Sui social, si è assistito a discussioni in cui accademici, giornalisti, persino ex uomini delle istituzioni, gareggiavano nello sgradevole tentativo di risultare maggiormente offensivi, semplificatori, osceni.

In questa piccola storia, la pubblicazione del libro “Il mito del deficit” di Stephanie Kelton, da poco tradotto in italiano per Fazi Editore, rappresenta la possibilità più concreta per rapportarsi a questa teoria in modo più trasparente. Kelton svolge il ruolo di co-presidente dalla task force economica del Presidente eletto degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, ed è professoressa di economia politica presso la State University di New York. È quindi l’esponente più autorevole della MMT con cui instaurare un dialogo.

L'economista Stephanie Kelton

L’economista Stephanie Kelton

Il nocciolo della MMT
Una delle accuse più ricorrenti alla MMT sostiene che in essa “ciò che è buono non è nuovo, e ciò che è nuovo non è buono”. Tralasciando in questo contesto la seconda parte della proposizione, ritengo che sia possibile rintracciare, nella prima, una certa fondatezza: ciò che maggiormente è interessante, valido, politicamente produttivo nella MMT, in termini di elaborazione teorica, non è nuovo, ossia non proviene, originariamente, dai risultati del lavoro di uno dei suoi esponenti. Volendo essere ancora più radicali, la MMT non è neanche una vera e propria teoria (nel senso canonico del termine) ma è primariamente un’originale (questa sì) descrizione del funzionamento di un sistema monetario moderno. In particolare, la MMT offre un diagramma esplicativo delle modalità di relazione tra governo, banca centrale e sistema finanziario. La cosa interessante è che tutto questo è più volte sottolineato dalla stessa Kelton.

La MMT è in realtà una vera e propria ricapitolazione (leggermente reinterpretata) dei contributi teorici di alcuni tra i principali economisti del XX secolo: tra gli altri, Knapp, Keynes, Lerner, Godley, Minsky. Appoggiandosi ad una teoria dell’output di matrice post-keynesiana, l’impianto della MMT è caratterizzato da una ripresa della teoria della moneta di natura neo-cartalista (secondo la definizione di Lavoie). Questo non tanto perché sarebbe lo Stato a determinare, in un moderno sistema monetario, la valuta avente corso legale, ma perché lo stesso valore della valuta proverrebbe dalla scelta sovrana di accettarla come pagamento delle passività fiscali. Il potere coercitivo, prima esplicito e poi mediato dall’imposizione di una tassa, permetterebbe così allo Stato di potersi approvvigionare delle risorse reali necessarie alle sue finalità produttive e sociali. Sovranità, popolo e territorio.

Le implicazioni di politica economica
Dall’unione di questi grandi filoni teorici (la moneta come istituzione dello Stato e il livello dell’output come determinazione della domanda aggregata), la MMT giunge a rilevanti e spesso discusse implicazioni di politica economica.

In breve, la MMT afferma che un paese con alto grado di sovranità monetaria non dovrebbe preoccuparsi dell’equilibrio finanziario del proprio bilancio ma dell’equilibrio reale della propria economia. La confusione tra variabili reali e nominali, spesso addotta come critica dai detrattori della MMT e sicuramente presente in alcune semplificazioni della rete, si può districare in questo senso: uno Stato che emette la valuta con cui è denominato il proprio debito e che non fissa il valore della propria valuta ad alcun bene reale né ad alcun’altra valuta può sempre onorare il proprio debito a livello nominale. Può cioè sempre “creare dal nulla”, come il fiat del Dio della Genesi, il valore nominale dei titoli in scadenza. Non può quindi per definizione mai fallire. In parole ancora più semplici, dopo il crollo del Gold Standard e del Gold Exchange Standard, un paese con sovranità monetaria non affronta vincoli finanziari all’estensione e alla quantità della propria spesa, in quanto, essendo esso stesso l’emettitore della valuta e non un suo semplice utilizzatore (come lo sono invece una famiglia o un’impresa), può sempre produrre i mezzi di pagamento necessari.

Questa caratterizzazione della finanza pubblica è oggi condivisa da gran parte del panorama economico. Pochi infatti negano che uno Stato, inteso qui come il consolidamento tra banca centrale e Tesoro, possa creare base monetaria ed acquistare, ad esempio, tutti i titoli di debito pubblico che desidera. Diversa è invece la rilevanza data a questa affermazione, e diverse sono quindi anche le implicazioni di politica economica. Secondo Stephanie Kelton, ciò non determinerebbe un “liberi tutti”, nel senso di un potere illimitato dato allo Stato di “regalare soldi”, bensì la possibilità concreta di rimuovere dal campo del “politico” quei vincoli autoimposti legati al dogma della scarsità del denaro. Il problema, infatti, non sarebbero “i soldi”, ma le capacità produttive che un determinato sistema può offrire.

In questo senso, secondo la MMT, lo spazio fiscale non sarebbe tanto di natura finanziaria, secondo la definizione tradizionale, quanto piuttosto di natura reale. Le tasse non servirebbero cioè a sostenere finanziariamente la spesa pubblica ma a sostanziare realmente i mezzi di pagamento che sovranamente lo Stato può creare da sé. Le tasse creano cioè quello spazio fiscale, nel senso di trasferire risorse reali dal privato al pubblico, affinché il Governo possa poi acquistare i beni e i servizi che ritiene necessari (ad esempio assumere medici o costruire una scuola) con mezzi di pagamento autoprodotti.

È qui, poi, che si inserisce il contributo di matrice post-keynesiana: la spesa dello Stato non è solo un trasferimento dal privato al pubblico, per cui i due settori competerebbero per accaparrarsi una determinata quantità di prodotto reale. Si ritiene, invece, che l’economia si trovi tendenzialmente ad un livello di equilibrio di sotto-occupazione, dove non si dà in natura un’esatta corrispondenza tra la massima utilizzazione possibile dei fattori produttivi e le condizioni effettive dell’economia. C’è uno spazio reale che può essere aggredito, utilizzato dallo Stato per creare servizi, dare lavoro, aumentare il reddito e migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Qualora invece la domanda aggregata nominale superasse la capacità reale del sistema economica di assorbirla, lo Stato sarebbe chiamato a rispondere alla spinta inflazionistica riducendo il livello della sua spesa.
È interessante ricordare che persino Alan Greenspan, presidente dal 1987 al 2006 della banca centrale statunitense, la FED, in un’audizione della Camera del 2005, abbia esplicitato proprio questo punto. In risposta a Paul Ryan, che chiedeva se il governo si trovasse in una posizione di equilibrio finanziario rispetto alle obbligazioni del sistema pensionistico, Greenspan affermò che “non c’è nulla che impedisca al governo federale di creare tutti i soldi che vuole e darli a qualcuno. La questione è come impostare un sistema che assicuri la produzione di ricchezza reale che con le pensioni possa essere acquistata.” I limiti finanziari, vale a dire l’equilibrio intertemporale tra entrate ed uscite, per uno Stato con alto grado di sovranità monetaria, non sono ostativi. Lo sono invece quelli legati alla presenza di risorse reali.

La MMT alla prova della pandemia
È importante notare anche come molti analisti abbiano affermato che la MMT sia stata ampiamente “utilizzata” dai governi dei paesi di tutto il mondo, avanzati ed emergenti, durante questi mesi di pandemia.

In un editoriale del 23 dicembre apparso su Repubblica, ad esempio, Domenico Siniscalco, ex direttore generale del Tesoro ed ex ministro dell’Economia, ha scritto che, nonostante il calo del PIL e l’aumento del deficit, “il nuovo debito viene comprato dalle banche centrali del mondo, che assicurano in questo modo stabilità finanziaria e tassi di interesse molto bassi […]. Per ciò che riguarda i debiti sovrani è probabilmente in opera, di fatto, un grande esperimento globale di MMT.”

In effetti, se si guarda al caso dell’Eurozona, la Banca Centrale ha intrapreso un nuovo piano di acquisti di titoli pubblici e privati, il cosiddetto PEPP, che la porterà ad acquistare 1.850 miliardi di euro di titoli almeno fino a marzo 2022. Come è possibile osservare sul sito della BCE, questo ha corrisposto fino ad oggi per l’Italia ad un acquisto cumulato netto pari a 118 miliardi di euro di titoli pubblici, che si vanno a sommare ai 411 miliardi di euro dell’altro programma attivo dal 2015, il cosiddetto PSPP all’interno dell’APP.

L’effetto combinato di questi programmi ha portato nel 2020, e in futuro nel 2021, la BCE a “dominare” il mercato del debito dei paesi membri, assicurando liquidità e portando i tassi d’interesse ai minimi storici. È lo stesso Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB), in un rapporto uscito a dicembre 2020 dal titolo “Rapporto sulla politica di bilancio 2021”, a riconoscere il ruolo svolto in questi mesi dalla Banca Centrale come garanzia implicita e sostegno esplicito ai governi per l’aumento del deficit pubblico dovuto all’inasprirsi della situazione pandemica.

Come mostra la figura, nel 2020 e nel 2021, le emissioni nette di titoli di Stato – quelle cioè che non considerano i titoli in scadenza, gli acquisti dell’Eurosistema e i prestiti dei programmi SURE e RRF – sarebbero di entità risibile nel 2020 (solo 3 miliardi di euro) e addirittura negativa nel 2021 (-3 miliardi). Nonostante la crescita rapidissima e inaspettata del debito pubblico, quindi, un intervento adeguato della Banca Centrale ha fatto sì che non ci fossero particolari turbolenze sui mercati finanziari. Al contrario, sia nel 2020 che nel 2021, proprio grazie all’intervento della Banca Centrale, per l’UPB “la quota di titoli di Stato detenuta dal settore privato si ridurrebbe”.

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Questo aspetto è stato confermato anche dalle “Linee guida della gestione del debito pubblico 2021”, recentemente pubblicate dal Dipartimento del Tesoro del MEF, in cui si afferma che, proprio grazie agli interventi straordinari della Banca Centrale, “pur in presenza di un notevole aumento delle emissioni, la gestione del debito ha consentito di ridurre il costo medio all’emissione, che nel 2020 è stato pari allo 0,59%, come anche il costo medio del debito, calcolato come rapporto tra gli interessi e lo stock di debito delle Pubbliche Amministrazioni, che ha proseguito la sua discesa fino ad un livello nell’intorno del 2,4%.” In altre parole, con una decisione della nostra autorità monetaria si è potuto non solo sostenere i governi nel tentativo di contrastare la diffusione pandemica e ristorare i lavoratori colpiti dalle restrizioni, ma anche ridurre il costo medio dell’indebitamento. Anche qui, la MMT sottolinea la natura prettamente istituzionale del tasso d’interesse, riprendendo la teoria monetaria di matrice post-keynesiana.

Il ruolo fondamentale della Banca Centrale Europea nell’assicurare, praticamente a qualunque livello di debito, condizioni di liquidità favorevoli, è stato riconosciuto anche da Carlo Cottarelli in un articolo apparso su Repubblica il 17 novembre, dove ha affermato che “quasi tutto l’aumento del debito dello stato italiano nel 2020 e, probabilmente, nel 2021 è nei confronti della BCE” e che, sebbene il debito possa essere un problema per il pagamento degli interessi e per la necessità di rinnovare i titoli in scadenza, “nel caso dei finanziamenti dalla BCE questi problemi non sono rilevanti, tranne che in un caso. Il debito verso la BCE non costa nulla allo Stato italiano, visto che gli interessi pagati dallo Stato sui BTP comprati dalla BCE (il 90 per cento dei quali avviene tramite la Banca d’Italia) vengono restituiti allo Stato attraverso la distribuzione dei profitti della Banca d’Italia (il 95 per cento circa dei quali va allo Stato). Inoltre, la BCE continuerebbe a rinnovare i titoli in scadenza (non essendo motivata da scopi di profitto) tranne che in un caso: se una tale azione fosse necessaria per frenare un aumento eccessivo dell’inflazione, visto che la BCE è vincolata da questo compito istituzionale.

Ci sarebbe, invero, materiale per un ulteriore approfondimento, ma per problemi di spazio si rimanderà ad una riflessione successiva, sui potenziali rischi di svalutazione, inflazione e di equilibrio della bilancia dei pagamenti. Si può, tuttavia, concludere con una breve citazione di Keynes che, in un saggio del 1929, proprio dinanzi a chi gridava al pericolo dell’inflazione come pretesto per ostacolare un programma di espansione (che era anche il titolo del saggio), rispondeva che “agitare lo spauracchio dell’inflazione in questo momento, per contrastare una spesa per investimenti, è come mettere in guarda contro i pericoli dell’obesità un malato che sta morendo d’inedia”.

Ci sono cioè due grandi pericoli oggi: da una parte, sostenere che si può spendere sempre e comunque, purché “la stampante dei soldi” continui a girare; dall’altra, affermare che qualunque spostamento millimetrico dalla rigida osservanza di dogmi a cui ormai non crede più nessuno ci porti dritti al terzo mondo. Si tratta, mi sembra, in questo secondo caso, di una specie di reductio ad Venezuelam: qualunque politica fiscale espansiva, supportata dall’autorità monetaria, ci condurrebbe ad un governo semi-socialista, di stampo autoritario, che obbliga le persone a comprare il pane al suono di maracas con carriole di banconote senza valore.

Tra il bianco e il nero c’è un’infinità di sfumature di grigio. Queste sfumature si chiamano politica, e ci invitano tutte all’ineludibile sfida del pensiero.

Twitter @GabrieleGuzzi

*Le opinioni espresse dall’autore sono da considerarsi prettamente personali e non coinvolgono le istituzioni di appartenenza.