Impiegate pubbliche tra PA di oggi e di domani (e il soffitto di cristallo)

scritto da il 29 Gennaio 2021

I dipendenti pubblici in Italia costituiscono meno del 15% del degli occupati, contro una media Ocse del 18%, e dal 2007 il settore pubblico ha visto costantemente diminuire il numero di impiegati. Conseguentemente l’età media è cresciuta oltre i 50 anni e, ormai, quasi la metà dei dipendenti pubblici ne ha più di 55. Nei prossimi anni la PA italiana dovrà fronteggiare la sfida di sostituirne centinaia di migliaia. Chi li sostituirà condizionerà non solo il futuro della PA, ma quello dell’Italia intera. In questo contributo parliamo di pubblico impiego e genere. Quindi, ha senso parlare di questioni di genere nella PA di oggi? E in quella di domani?

Negli stati Ocse, il settore pubblico impiega in media il 18% degli occupati, di cui il 60% sono donne. Il divario occupazionale di genere è quindi minore laddove il settore pubblico occupi una quota maggiore dei lavoratori. In particolare, gli Stati che occupano nella pubblica amministrazione più di un lavoratore su quattro presentano un divario di genere in media inferiore al 5% (ad esempio i paesi nordici). Viceversa, i Paesi caratterizzati da una percentuale di occupati nel settore pubblico sul totale inferiore presentano un divario superiore al 10% (è il caso dell’Italia e della Spagna).

Per quanto riguarda l’Italia, nel 2017 il 57% dei dipendenti pubblici era di genere femminile, mentre le donne rappresentano il 42% degli occupati totali, con entrambe le percentuali solo leggermente al di sotto della media Ocse. Tuttavia, i dati positivi per il settore pubblico mascherano la sottodimensione strutturale della partecipazione femminile al mercato del lavoro italiano, che conta meno di una donna su due occupata. Guardando più nel dettaglio, anche nel pubblico i risultati non sono tutti positivi. Si osservano infatti fenomeni comuni al settore privato come la segregazione orizzontale (o settoriale), ovvero una distribuzione disomogenea della presenza femminile nei diversi comparti del pubblico impiego, e quella verticale (il glass ceiling, o soffitto di cristallo), ossia la sottorappresentazione delle donne nelle posizioni di vertice. Come sottolinea il Bilancio di Genere pubblicato dal Mef, comparti come la Scuola e il Servizio Sanitario Nazionale sono caratterizzati da una sovrarappresentazione del genere femminile, rispettivamente con il 76% e il 65%. Viceversa, in settori come la Difesa e la Previdenza Sociale, la quota femminile è inferiore al 50%.

Le ragioni della sovrarappresentazione
La sovrarappresentazione delle donne nel pubblico impiego viene presentata da Gomes e Kuehn, come un “problema di offerta”: non è il settore pubblico che agisce preordinatamente per assumere più donne, quanto piuttosto sono le donne a scegliere maggiormente il pubblico. In parte questo accadrebbe per motivi di “preferenza” e competenze. Tra gli altri fattori vi è il premio salariale del settore pubblico rispetto al privato, ovvero la differenza fra lo stipendio medio nel settore pubblico e quello nel settore privato a parità di anzianità e mansione. Se in alcuni degli stati europei analizzati da Christofides e Michael il premio salariale medio per gli uomini risulta negativo, per le donne è quasi sempre positivo. Un premio salariale ridotto o negativo per gli uomini sarebbe la dimostrazione che la discriminazione statistica – dovuta non a differenze osservabili fra le prestazioni lavorative, bensì all’appartenenza ad un dato gruppo (es. in base al genere) – nel settore privato rappresenti tuttora un problema irrisolto. Ai fattori sopracitati si aggiungono gli strumenti di flessibilità lavorativa che, controbilanciando i vincoli sociali e culturali, garantiscono una maggiore conciliazione tra lavoro e vita privata e quindi una maggiore presenza femminile nel settore pubblico.

Il soffitto di cristallo
Tuttavia, all’interno di tutti gli ambiti, persino quelli con una notevole presenza femminile, persiste il fenomeno del soffitto di cristallo. La gestione dei carichi familiari, che spesso ancora oggi viene affidata esclusivamente alle donne, contribuisce a ridurre le aspirazioni lavorative. A questo si aggiunge, secondo la letteratura, la discriminazione statistica introdotta sopra. Nella progressione di carriera, infatti, i datori di lavoro evitano non solo di assumere ma anche di promuovere le donne perché in media più assenti dal luogo di lavoro. Assenze però riconducibili alla mancata condivisione tra i generi delle responsabilità legate alla nascita e alla crescita dei figli. Le aspettative di carriera potrebbero essere quindi ridimensionate in un circolo vizioso.

Nonostante la discriminazione statistica possa sembrare lontana dalle dinamiche di assunzione del settore pubblico, se si prendesse ad esempio il settore universitario e si osservassero i diversi passaggi di carriera, “l’imbuto” occupazionale avrebbe questa forma:

Come è chiaro dal grafico, ad ogni passaggio di carriera, la proporzione femminile si riduce. Una parte del divario è spiegata dall’intervallo temporale tra l’aumento della presenza femminile ai livelli inferiori e il successivo riequilibrio ai livelli superiori. Il sistema universitario italiano ha raggiunto la parità tra studenti e studentesse intorno alla prima metà degli anni ’90. A distanza di 25 anni , questo equilibrio è ancora lontano dal tradursi in parità lungo tutta la carriera universitaria, il che fa ipotizzare che una parte consistente dell’effetto imbuto possa invece essere attribuita al soffitto di cristallo.

Numeri simili si riscontrano nel settore sanitario. Analizzando la categoria dei dottori e delle dottoresse in medicina, si nota come le percentuali di studentesse e di dottoresse (dirigenti medici con altri incarichi nel grafico sotto) siano simili, mentre la presenza femminile cala drasticamente al livello di dirigente sanitario di struttura complessa, ossia i primari. Qui, oltre l’80% del personale è costituito da uomini.

Quale futuro per le donne nella pubblica amministrazione?
La segregazione, sia orizzontale che verticale, non è specifica del settore pubblico, bensì un problema endemico nel mercato del lavoro. Per affrontare entrambe sono necessari interventi del legislatore per incentivare la condivisione dei carichi di cura (ad esempio un aumento dei congedi di paternità e un miglioramento dell’impianto dei congedi parentali), oltre a investimenti in strutture a supporto delle responsabilità di cura alla persona (servizi all’infanzia, servizi per anziani, welfare aziendale). Per il settore pubblico, nello specifico, si potrebbero introdurre “quote rosa” come già fatto per la politica ed i Cda nel privato, da accompagnare con investimenti comunicativi per garantire una platea maggiormente bilanciata a livello di genere nei concorsi pubblici a tutti i livelli di carriera, e programmi di mentoring che permettano a giovani lavoratrici di interfacciarsi con donne che hanno raggiunto posizioni apicali (role model).

Anche nel “virtuoso” pubblico impiego, la strada verso la parità è ancora lunga e in salita. Tuttavia, alcune caratteristiche lo rendono in alcuni casi preferibile al settore privato, sia per le donne stesse, che per il policy maker. L’economista spagnola Adserà ha infatti evidenziato una correlazione positiva tra fertilità e tasso di occupazione femminile nel settore pubblico in 23 paesi Ocse. Le ragioni alla base di questo risultato vengono ritrovate nella maggiore generosità dei congedi parentali nel settore pubblico in alcuni dei paesi analizzati e, più in generale, nella maggiore stabilità delle prospettive lavorative anche dopo la nascita di un figlio, opposta alla child penalty presente nel settore privato e soprattutto per le lavoratrici autonome. Il settore privato italiano dovrà necessariamente recuperare il divario di genere rispetto alla media europea. Potrebbe però andare oltre, provando ad essere competitivo con il settore pubblico nelle tematiche di genere.

Nel frattempo il settore pubblico è atteso da cambiamenti sostanziali e non è possibile adagiarsi sui traguardi già raggiunti. La PA del futuro ha bisogno non tanto di una maggiore quota femminile, quanto di una migliore rappresentanza ad ogni passaggio di carriera ed in ogni settore. Crediamo che così il settore pubblico diverrà più eterogeneo, e, quindi, anche migliore.

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