In attesa del Family Act quanto siamo lontani dal resto d’Europa?

scritto da il 26 Febbraio 2021

L’autrice è Vilma Djala, giovane professionista nel campo dello sviluppo internazionale, nello specifico nel settore energetico ed ambientale nei mercati dell’Africa, Asia e Sud America. Possiede una laurea triennale in Economia e Gestione Aziendale, conseguita presso l’Università Cattolica di Milano, ed un Master in Studi Europei e Relazioni internazionali conseguita presso l’Università di Maastricht. Scrive abitualmente per Neos Magazine e Quadrante Futuro (Centro Einaudi) di commercio, sviluppo internazionale ed energia –

A metà degli anni 1990, l’Italia fu uno dei primi paesi al mondo a raggiungere i livelli di “più bassa fertilità” al mondo, con un tasso di fertilità totale che si attestava attorno a 1,19 nascite per donna. Una tendenza che si è leggermente invertita fino al 2015 con un tasso dell’1,4 e che si è però oggi assestata all’1,3. Ed è un declino che non tenderà a fermarsi, visto il sempre minor numero di donne in età riproduttiva presente in Italia e l’aumento delle nascite in età avanzata.

Cosa spiega il disinteresse degli italiani nell’avere figli? E fino a che punto si tratta di una scelta? Prevedibilmente, una commistione di fattori economici, sociali e politici spiegano il fenomeno. Innanzitutto, l’impoverimento del Paese negli ultimi anni, testimoniato dall’arretramento del Pil. Oggi, ha scritto il Sole 24 Ore, il Pil italiano vale il 14,5% di quello dell’area euro, contro il 17,7% del 2001. Il reddito pro-capite è crollato all’82,8% della media a 19 e al 67,6% di quello tedesco.

A questo si aggiunge anche un altro fattore determinante: l’incertezza e la segmentazione del mercato del lavoro. La segmentazione in particolare può creare conflitto tra diverse categorie. Quest’ultima può toccare il gap occupazionale femminile-maschile, la distanza tra contratto a tempo determinato ed indeterminato oppure, ancora, il divario presente tra giovani lavoratori e lavoratori adulti. In particolare la differenziazione tra i vari tipi di contratto è importante perché i contratti di lavoro a tempo determinato sono caratterizzati da minor protezione in caso di perdita di lavoro, minori indennità per malattia e congedo di maternità e in generale nessuna protezione in caso di perdita del lavoro rispetto ai contratti di lavoro a tempo indeterminato. A questo hanno tentato di porre rimedio la riforma Fornero (2011-2012) ed il Jobs Act, introdotto nel 2015. Ma con scarso successo poiché la segmentazione persiste e di conseguenza la condizione di precarietà dei giovani, ostacolo concreto alla creazione di una famiglia.

La strutturazione del mondo del lavoro non è l’unico fattore a dissuadere dal creare una famiglia. Un altro problema, fino ad ora, è stata la mancanza di una vera e propria riforma unitaria in merito, che raggruppi tutte le misure e politiche connesse alla famiglia, come congedo di maternità e paternità e la disponibilità di centri di istruzione per la prima infanzia. La tendenza è stata quella di dare preferenza a misure una tantum, come il sussidio di 80 euro al mese per tutti i bambini appena nati (o adottati) fino ai tre anni introdotto con la legge di stabilità del 2014, invece di formulare una riforma vera e propria. Inoltre c’è stata una netta tendenza a concentrarsi sui trasferimenti al reddito, come le pensioni, rispetto ai trasferimenti sociali in natura come i servizi di assistenza alla famiglia. Una ricalibrazione delle politiche sociali più a favore dei giovani e delle famiglie sarebbe necessaria ma questo processo creerebbe un contrasto con il ruolo sociale che i nonni (pensionati) ricoprono direttamente per le neo-famiglie: essi stessi, infatti, sopperiscono alle mancanze del welfare in materia, prendendosi cura dei loro nipoti.

Un primo passo verso una nuova direzione è stato mosso lo scorso giugno quando è stata varata dal Consiglio dei Ministri, una legge delega, un Ddl intitolato “Misure per il sostegno e la valorizzazione della famiglia”, o più semplicemente “Family act” che mira a porre rimedio a questa frammentazione in tema di famiglia. Serviranno decreti legislativi per dettagliare e rendere operative queste nuove misure ma questo rappresenta un progresso verso una uniformità delle misure che riguardano gli aiuti alla famiglia. L’obiettivo è quello di stanziare, a partire da luglio 2021, 3 miliardi dedicati all’assegno unico e universale per le famiglie, con figli minori di 21 anni. Questo farà si che questo welfare diretto riguardi una base più ampia, circa 12,5 milioni di bambini e ragazzi rispetto ai solo 4,2 milioni provenienti da famiglie raggiunte dagli assegni (Anf), il principale contributo per chi ha figli fino ai 18 anni, ma che esclude le famiglie con reddito da lavoro autonomo.

Gli importi erogati andranno dai 50 ai 250 euro per ciascun figlio a carico con meno di 21 anni. Qual è la differenza rispetto al passato? Diversi contributi come le detrazioni per figli a carico, la detrazione aggiuntiva di 1200 euro per le famiglie con più di quattro figli, l’assegno al nucleo familiare con almeno 3 figli minorenni; gli assegni al nucleo familiare; il premio alla nascita; il contributo per gli assegni familiari versato dai datori di lavoro ed il fondo di sostegno alla natalità verranno eliminati. Tuttavia, vengono mantenute tutte le detrazioni o deduzioni sulle spese sostenute per i figli a carico, come quelle mediche, scolastiche o sportive. Con l’introduzione dell’assegno unico, viene corrisposta una quota fissa di al massimo 100 euro per ogni figlio ed una parte variabile che invece viene calcolata in base all’ISEE. Dovrebbe però azzerarsi intorno ai 60 mila euro di reddito permettendo in questo modo la copertura del 95% delle famiglie.

È bene però esaminare anche il progresso fatto in termine di altri aiuti alla natalità quali: congedo parentale, congedo di maternità, congedo di paternità e la disponibilità di asili nido. Aiuti che sono determinanti nei primi mesi e anni di vita del bambino.

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Un veloce confronto di questi dati, non denota una sostanziale discrepanza tra i due paesi. Ciononostante, a fare la differenza, è una analisi della disponibilità di asili ed il loro costo. In Europa, ci sono due modi per garantire l’accesso alle strutture per l’infanzia: alcuni paesi forniscono un diritto legale ad un posto, mentre altri rendono la frequenza della struttura obbligatoria. Il diritto legale al posto in asilo nido si riferisce ad un obbligo legale per i fornitori della struttura di garantire un’offerta sovvenzionata pubblicamente per tutti i bambini di una certa età che vivono in un bacino di utenza, i cui genitori, indipendentemente dal loro impiego, dalla loro situazione socio-economica o familiare, richiedono un posto per il loro bambino. Mentre la frequenza obbligatoria si riferisce all’obbligo per tutti i bambini di frequentare le strutture quando raggiungono una certa età. In entrambi i casi, ai genitori è garantito un posto per il loro bambino.

Mentre in Germania è garantito un posto dal primo anno di vita, in Italia non è garantito e si arriva di solito ad un ottenere un posto per la maggioranza dei bambini solo verso i 3 anni. Dunque un fattore determinante sembra essere il tempo che non è coperto dal congedo per la cura del bambino o da un posto garantito in una struttura per l’infanzia. Questo è il periodo in cui le famiglie con bambini piccoli devono prendere decisioni difficili: se rimanere a casa, se cercare di ottenere un posto in una struttura pubblica molto richiesta, o se optare per un centro privato. Questo periodo di mancanza subalterna di assistenza all’infanzia può comportare la decisione di uno dei due genitori (solitamente la madre) di uscire dal mercato del lavoro per compensare, comportando anche la perdita di una fonte di reddito familiare. L’Italia è tra i nove paesi europei con un divario di 5-6 anni nell’assistenza all’infanzia, vale a dire Irlanda, Lituania, Romania, Albania, Islanda, Montenegro, Macedonia del Nord e Turchia.

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