Pecunia, moneta, soldi, prezzo e altri modi per parlare del denaro

scritto da il 05 Marzo 2021

Un tempo, ormai molto lontano, la vera ricchezza consisteva nel bestiame. In particolare, chi possedeva un elevato numero di pecore era considerato agiato. Nei più noti tra i libri della cristianità occidentale, la Bibbia (ta biblìa, i libri, per l’appunto), il “gregge” è addirittura una sorta di occorrenza cruciale, un elemento essenziale a molti degli aneddoti narrati. Lo stesso Mosè, l’iniziatore per eccellenza dell’esodo, riceve la ‘chiamata’ dall’Altissimo proprio mentre pascola le greggi del suocero Ietro. Abramo, il patriarca della grande alleanza che accomuna le religioni monoteiste, è erede d’una solida tradizione semitica in cui prevale la pastorizia. Quando Dio gli parla, nella quiete della notte, egli sta vegliando le greggi. Come se non bastasse, i profeti non sono certo parchi nell’uso di questo termine: in Ezechiele 34, 1-31, ricorre dieci volte, anche se non mancano riferimenti in Salmi, Re et aliis. In realtà, “gregge”, nel linguaggio biblico, dall’antico al nuovo testamento, costituisce il nucleo d’una potente metafora: Israele è il gregge di Dio e Dio n’è il pastore. Successivamente, con la narrazione degli evangelisti, Gesù diventa il buon pastore: “Io sono il buon pastore” (Gv 10, 11).

Oggi, è indubbiamente difficile pensare che ovini e bovini possano essere fonte di agiatezza, fuorché si parli di allevamenti industriali; anzi, com’è noto, incontrare per strada un pastore che conduce al pascolo le pecore produce, il più delle volte, un’immagine d’indigenza. Eppure, nella nostra lingua, si conserva ancora un sostantivo che, pur appartenendo al registro letterario, esprime un legame stretto e patente tra il bestiame e il denaro: si tratta di pecunia. Questo termine deriva, infatti, dal latino pĕcus, che significa bestiame, e richiama alla nostra memoria esattamente quei tempi in cui gl’investimenti si facevano, per così dire, quasi esclusivamente in beni ‘mobili’, ‘più che mobili’: è il caso di precisarlo.

A tal proposito, possiamo dire che gode di una certa fortuna la frase proverbiale latina “pecunia non olet”, cioè “il denaro non ha odore”, recitata dai più con disinvoltura, ma che risale, a quanto pare, a uno scambio tra l’imperatore Tito Flavio Vespasiano e il figlio Tito. Questi rimproverava al padre d’avere messo pure un’imposta sulla raccolta dell’urina. All’epoca, infatti, dall’urina si ricavava l’ammoniaca necessaria alla concia delle pelli e l’imperatore non aveva esitato a trarne profitto per l’erario. Rimproverato, Vespasiano mise sotto il naso del figlio il denaro ricavato dal primo versamento e gli chiese se ne fosse disturbato. Quando Tito ebbe risposto di no, egli ribatté: “Eppure, viene dall’urina”. Ce ne dà testimonianza Svetonio:

Reprehendenti filio Tito, quod etiam urinae uectigal commentus esset, pecuniam ex prima pensione admouit ad nares, sciscitans num odore offenderetur; et illo negante: atqui, inquit, e lotio est [Al figlio Tito, che lo criticava perché aveva escogitato perfino un’imposta sull’orina, mise sotto il naso il denaro ricavato dal primo versamento, chiedendogli se era disturbato dall’odore; e poiché egli rispose di no: “Eppure”, disse, “viene dall’orina” (SVETONIO, De vita Caesarum, VIII, 23, a cura di F. Casorati, 2008, Newton Compton, Milano, pp. 474-475)]

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Nelle varie parlate, usiamo indistintamente i numerosi lemmi a indicare il denaro; ed è naturale che ciascuno di noi non badi alle diverse sfumature semantiche, che tuttavia sono spesso decisive. Nello stesso tempo, sappiamo pure che uno dei sostantivi dominanti è sicuramente moneta, la cui letteratura e la cui aneddotica risultano piuttosto affascinanti, oltre che curiose. Il suo dominio è giustificato, nell’età contemporanea, dalle scuole di pensiero che si sono avvicendate nel proporre le teorie di pertinenza. In generale, la moneta rappresenta per tutti noi un mezzo di scambio, un’unità di conto e una riserva di valore, ma, nella storia, è, anzitutto, un attributo di Giunone. Alla dea fu dedicato un tempio, in Campidoglio, presso il quale, successivamente, sorse la zecca. Da qui, il passaggio da Moneta-ammonitrice a moneta-denaro. È possibile ricostruire due leggende con cui giustificare l’attributo appena introdotto. La prima ci giunge da Vita di Furio Camillo (XVII) di Plutarco, secondo il quale, durante l’assedio gallico di Roma, delle oche, consacrate a Giunone, avvertirono i Romani di un tentativo dei nemici di scalare le mura dell’Arx; in questo modo, il console Manlio Capitolino, svegliato dalle oche, riuscì a respingerli e a salvare la cittadella. Secondo la versione proposta dal generosissimo Cicerone nel De divinatione, durante un terremoto, dal tempio della Dea si udì una voce che chiedeva di espiare le colpe sacrificando una scrofa gravida.

Atque etiam scriptum a multis est, cum terrae motus factus esset, ut sue plena procuratio fieret, vocem ab aede Iunonis ex arce extitisse; quocirca Iunonem illam appellatam Monetam. Haec igitur et a dis significata et a nostris maioribus iudicata contemnimus? [E anche ciò è stato scritto da molti, che dopo che si era verificato un terremoto, una voce proveniente dal tempio di Giunone sul Campidoglio ammonì che si sacrificasse in espiazione una scrofa gravida: perciò la Giunone a cui era dedicato quel tempio fu chiamata Moneta. Questi fatti, dunque, annunciati dagli dèi e sanzionati dai nostri antenati, li disprezziamo? (CICERONE, De Divinatione, I, 101, trad. nostra)]

Bisogna ricordare, per completezza dell’informazione linguistica, che, in latino, il verbo monēre vuol dire proprio ammonire, avvisare; di conseguenza, è semplice ricostruire il legame linguistico fin qui illustrato. In quanto alla dottrina e agli autori che ne hanno marcato la valenza, è opportuno riportare la definizione che dà il Battaglia di moneta nel GDLI:

“Mezzo di pagamento che ha un valore riconosciuto e che serve come unità  di misura del prezzo di qualsiasi  bene economico (merce o servizio): può essere costituita da un’altra merce di valore stabile, da oggetti  naturali non deperibili, da manufatti (presso le civiltà primitive che praticano il baratto) o, più  frequentemente, da pezzi di metallo coniato (moneta  metallica) o da biglietti  cartacei  garantiti  dall’autorità che li emette; rappresenta un mezzo per trasferire agevolmente la ricchezza e per conservare  nel tempo e accumulare il valore economico”

Denaro, invece, era in origine il denārium, cioè una moneta d’argento di dieci assi, in uso nella Roma repubblicana. Questa voce è limpidamente costruita sull’aggettivo denus, dena, denum, dieci per volta, a dieci a dieci et similia; il che ci dà, in effetti, non solo un semplice nome, ma anche una vera e propria unità di misura, sebbene il significato originario sia ormai bell’e perduto. Si ipotizza che il denārium avesse un peso di quasi 5 grammi e una purezza molto elevata, del 98% circa, tanto da poter essere scambiato con dieci libbre di bronzo. Nel tardo impero, subentrò il solĭdus (nummus), una moneta d’oro massiccio che sembra garantisse particolare stabilità al sistema monetario imperiale e dalla quale abbiamo tratto il nome soldi.

Il solito prezioso Cicerone, con riferimento a denārium, ci permette di riesaminare la lingua dell’epoca e comprenderne il valore sociale:

Si quis aurum vendens orichalcum se putet vendere, indicetne ei vir bonus aurum illud esse an emat denario, quod sit mille denarium? [Se uno, vendendo oro, credesse di vendere ottone, il galantuomo dovrebbe avvertirlo che quello è oro o dovrebbe acquistare per un denaro ciò che ne vale mille? (CICERONE, De Officiis, III, 92, trad. nostra)]

Nel Progetto Digesto, a cura del Dipartimento di Storia e Teoria del Diritto dell’Università di Roma Tor Vergata, dell’Istituto di Linguistica Computazionale e del CNR di Pisa, troviamo una chiara occorrenza di solĭdus:

Praetor ait: “Ne quis in suggrunda protectove supra eum locum, quo vulgo iter fiet inve quo consistetur, id positum habeat, cuius casus nocere cui possit. qui adversus ea fecerit, in eum solidorum decem in factum iudicium dabo. Si servus insciente domino fecisse dicetur, aut idem dari aut noxae dedi iubebo.” [Il pretore afferma: “Che nessuno, nella tettoia o nel cornicione, sopra quel luogo per dove la gente passi o si trattenga, tenga posto ciò la cui caduta possa arrecare nossa (NdR: nocumento) a qualcuno. Contro colui che abbia contravvenuto a ciò, per dieci solidi, darò una azione modellata sul fatto. Se si dica che lo ha fatto un servo non sapendolo il padrone, ordinerò questo: o che sia data la stessa somma o che sia dato a nocumento” (Iustiniani Augusti Digesta Seu Pandectae, l.9, III, 5.6, trad. a cura di S. Schipani e l. Lantella)]

Per quanto riguarda lira, sostantivo che è ancora al centro d’un asperrimo dibattito a causa dell’opposizione tra i sostenitori della vecchia valuta e quelli dell’euro, gli studiosi sono concordi nel ritenere che provenga da lībra e libbra, un’unità monetaria che nel Medioevo corrispondeva, per l’appunto, a una libbra d’argento. Come fa notare il Battaglia (GDLI), solo successivamente si ebbero le lire d’oro e di rame: l’unità era suddivisa in venti soldi di dodici denari ciascuno. Se, a questo punto, passiamo da un’unità di misura al valore di un bene, allora dobbiamo parlare del prĕtium, ovverosia del prezzo, valore o costo, come abbiamo già detto. Il percorso etimologico è evidente, pertanto non è necessario dare ulteriori indicazioni in merito. Riportiamo, però, ancora una volta, un’immancabile testimonianza di Cicerone:

Annona porro pretium nisi in calamitate fructuum non habet [Il mercato, poi, non offre un prezzo sostenuto se non in caso di scarsità del raccolto (CICERONE, In Verrem, II, I.III, a cura di G. Bellardi, 1978, UTET, Torino, pp. 990-991)]

Il più comprensibile e decifrabile dei termini, anch’esso oggetto di contese, in particolare di natura ‘fiscale’, è contante, il famoso attributo di denaro affidato al participio presente del verbo contare. A coronamento di questo ‘rendiconto’ lessicale poniamo economia, che differisce dagli altri termini trattati finora per la pretta derivazione greca. A tal proposito, occorre fare una precisazione per chi ha poca dimestichezza con la filologia: la nostra lingua appartiene alla grande famiglia indoeuropea; di conseguenza, risalendo alle radici dei lemmi introdotti, si potrebbero ricostruire dei morfemi comuni anche al greco, tuttavia, qui, ci siamo limitati a esporre le ‘corrispondenze’, per così dire. Economia, infatti, transita nel latino oeconomĭa attraverso il greco οἰκονομία (oikonomìa), composto da οἶκος (òikos, casa) e νόμος (nòmos, legge). Il suo significato essenziale, quindi, è quello di “legge (o amministrazione) della casa”. La trasposizione metonimica di òikos, con cui si è passati da “casa” ad altre strutture o altri organismi sociali, ha generato l’ampiezza semantica di questo ‘fortunatissimo’ sostantivo.

Un brillante ed esemplare riscontro di “amministrazione della casa” si legge nelle suadenti parole dell’Apologia di Socrate:

Τιμᾶται δ’ οὖν μοι ὁ ἀνὴρ θανάτου. εἶεν· ἐγὼ δὲ δὴ τίνος ὑμῖν ἀντιτιμήσομαι, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι; ἢ δῆλον ὅτι τῆς ἀξίας; τί οὖν; τί ἄξιός εἰμι παθεῖν ἢ ἀποτεῖσαι, ὅτι μαθὼν ἐν τῷ βίῳ οὐχ ἡσυχίαν ἦγον, ἀλλ’ ἀμελήσας ὧνπερ οἱ πολλοί, χρηματισμοῦ τε καὶ οἰκονομίας καὶ στρατηγιῶν καὶ δημηγοριῶν καὶ τῶν ἄλλων ἀρχῶν καὶ συνωμοσιῶν: Timàti d’oun moi ho anèr thanàtou. Èien! Egò de de tìnos umìn antitimèsomai, o àndres Athenàioi; e dèlon hòti tes axìas; ti oun; ti axiòs eimi pathèin e apotèisai, hòti mathòn en to bìo ouch esuchìan ègon, all’amelèsas hoi pollòi, chrematismoù te kai oikonomìas kai strateghiòn kai ton àllon archòn kai synomosiòn [Colui vuole dunque la mia morte? Sia! Ma che pena mi assegnerò da me, o Ateniesi? È chiaro, quella che merito. E quale pena debbo patire o pagare io, perciò che in mia vita non mi quietai mai dalla voglia di apprendere: perciò che non curando di quel che i più curano, denaro, governo della casa, esser capo di milizia o capopopolo e gli altri maestrati (PLATONE, Apologia di Socrate, a cura di F. Acri, 2007, Einaudi, Torino)].

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