Passare da sostegni a investimenti: solo il lavoro è la via d’uscita per l’Italia

scritto da il 19 Marzo 2021

L’autore di questo post è Antonino Iero, già responsabile del Centro Studi e Ricerche Economiche e Finanziarie di UnipolSai –

Dall’inizio della pandemia, con riferimento alla gestione delle risorse europee comuni, è maturata una contrapposizione tra i Paesi indebitati e i cosiddetti Paesi frugali (1). Si tratta dell’ennesima riproposizione del contrasto tra le presunte cicale meridionali (spendaccione) e le sedicenti formiche nordiche (risparmiatrici). Uno dei modi per misurare la “frugalità” di una nazione consiste nel verificare quanto spendono in consumi i suoi cittadini. Una misura abbastanza completa di tale voce è l’Actual individual consumption (consumo effettivo individuale). L’AIC tiene conto non solo delle spese dirette per consumi effettuate dalle famiglie, ma include anche i servizi forniti dal governo e da istituzioni non profit (2). Ovviamente, per effettuare un confronto tra diversi Paesi è opportuno relativizzare tale aggregato rapportandolo al PIL. Qui sotto è rappresentata la situazione al 2019 (3).

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In prima lettura, emerge che UK e Grecia sarebbero le nazioni più “cicale”, mentre la medaglia della frugalità andrebbe attribuita a Irlanda e Lussemburgo. Il Belgio si trova esattamente alla metà di questa classifica. Gli italiani sarebbero da annoverare tra gli spendaccioni (moderati). Un’analisi così, tuttavia, risulta troppo semplicistica per portare a conclusioni efficaci: per esempio, nel grafico precedente, la posizione di Lussemburgo e Irlanda è legata alla sopravvalutazione del loro PIL dovuta al fatto che sono dei quasi-paradisi fiscali. È opportuno, quindi, approfondire l’esame dei dati. Un primo passaggio consiste nell’affiancare al livello della spesa per consumi un altro dato, ossia il tasso di occupazione (4), poiché il consumo ha, come presupposto, un reddito da spendere.

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Nel 2019, il peso degli occupati dai 15 ai 64 anni sulla popolazione italiana di pari età era appena il 58,75%. Solo la Grecia mostra un dato peggiore. Affinché l’Italia avesse un incidenza degli occupati sulla popolazione pari alla media dei 31 Paesi considerati (circa il 70%) occorrerebbero oltre 4,3 milioni di nuovi posti di lavoro (5)! Come è variato questo dato nel tempo? Ho preso come riferimento il 2007, ultimo anno prima delle diverse crisi che hanno colpito il nostro Paese. Ho poi raffrontato la dinamica delle quattro principali economie dell’area euro.

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Si noti il sorprendente andamento della Germania, che testimonia il successo economico di quella nazione. Anche la Francia mostra un apprezzabile incremento della quota di occupati sulla popolazione. La Spagna, invece, evidenzia una rilevante discesa del tasso di occupazione che riflette, con tutta probabilità, gli effetti della grave crisi bancaria che ha funestato il suo sistema economico. Il nostro Paese presenta una sorta di encefalogramma piatto: in questa classifica, ultimi eravamo nel 2007 e ultimi rimaniamo a distanza di dodici anni. Naturalmente, si potrebbe sostenere che, oltre all’ammontare degli occupati, conta anche la capacità pro capite di produrre reddito. Un indicatore utile a questo scopo è il PIL per occupato. Qui sotto riporto questo parametro calcolato sui soliti Paesi.

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L’Italia si trova, grosso modo, a metà classifica, peraltro vicina alla Germania. Occorre, però, considerare questi risultati cum grano salis: Lussemburgo e Irlanda beneficiano di una legislazione fiscale molto favorevole alle imprese, etc. Ma, in realtà, ciò che conta è l’evoluzione nel tempo di questo grossolano indice di produttività. Il grafico seguente riporta, per le quattro maggiori economie continentali, la dinamica del PIL per occupato.

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I dati disegnano uno scenario inequivocabile: l’Italia non solo non è stata in grado di aumentare il proprio tasso di occupazione ma, addirittura, unica tra queste quattro economie, ha registrato un calo della produttività per occupato. Nel periodo esaminato, la Spagna ha messo a segno un incremento medio annuo (CAGR 6) dello 0,98% annuo, la Francia dello 0,68%, la Germania dello 0,40%, mentre il nostro Paese ha visto il PIL per occupato scendere al ritmo dello 0,39% annuo! Tasso di occupazione stagnante e occupati meno produttivi. Una combinazione dirompente per il nostro sistema economico e sociale. Le ragioni dietro questa sconfortante prestazione sono numerose: modesta presenza di imprese operanti nei settori più dinamici (alta tecnologia, elettronica, intelligenza artificiale, etc.), mancato sviluppo economico di ampie aree del meridione, eccessivo sbilanciamento verso attività a basso valore aggiunto (agricoltura, turismo ed attività annesse), insufficiente livello di istruzione della popolazione … l’elenco sarebbe lungo ma mi fermo qui, poiché non è lo scopo di questo breve scritto analizzare le ragioni sottostanti la flessione della produttività in Italia. Alla luce di queste evidenze, adesso possiamo andare ad esaminare i consumi per abitante, alla ricerca della “frugalità”.

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I consumi per abitante, nell’accezione AIC introdotta in precedenza, vedono l’Italia posizionarsi nella parte centrale della classifica. Anche in questo caso, tuttavia, è necessario esaminare l’evoluzione nel tempo di questo indicatore.

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Da questo grafico sembra che la frugalità sia una virtù mediterranea. Nei dodici anni esaminati, la Germania ha incrementato i consumi per abitante dell’1,34% all’anno e la Francia dello 0,64%. Al contrario, la Spagna ha visto diminuire i consumi individuali dello 0,18% annuo e l’Italia, addirittura, dello 0,38%. Per capire dove si trova il problema, esaminiamo la relazione tra le dinamiche (in termini di crescita media annua, ossia CAGR) del PIL per occupato e dei consumi (AIC) per abitante. Il periodo è sempre quello che va dal 2007 al 2019.

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Le posizioni dei quattro Paesi esaminati sono significative: Germania e Francia mostrano tassi di crescita positivi sia del PIL per occupato che dei consumi per abitante. Si tratta di economie sostanzialmente “sane”, la cui crescita permette un aumento del benessere della popolazione (assumendo che l’entità dei consumi sia un indicatore di benessere). La Spagna evidenzia un notevole incremento del PIL per occupato e una modesta flessione dei consumi per abitante: il buon andamento della produttività si associa ad una certa “frugalità”, fattori di riequilibrio della crisi finanziaria subita da tale nazione. La posizione dell’Italia appare del tutto eccentrica: diminuiscono sia la produttività, sia il livello dei consumi (peraltro, con un ritmo quasi identico). Però, nel caso del nostro Paese, la contrazione dei consumi appare più come una conseguenza della riduzione del reddito (tale è, di fatto, il PIL) che non come una “scelta” di frugalità: mentre i parametri dell’economia spagnola suggeriscono che sia in atto un processo di ricostruzione delle proprie basi produttive, nel caso italiano emerge un preoccupante circolo vizioso (al ribasso) tra minor reddito e minori consumi.

Una chiave interpretativa della difficile situazione in cui si trova il nostro Paese si trova nelle scelte effettuate da molti governi precedenti. Tali esecutivi hanno privilegiato una politica di sostegno dei redditi, attuata attraverso diversi provvedimenti: bonus ottanta euro, soppressione della tassazione della prima casa, reddito di inclusione, reddito di cittadinanza, bonus diciottenni, etc.(7). Ma le poche centinaia di euro distribuite alle famiglie in questo modo, pur dando sollievo ad un ristretto numero di persone più emarginate, non hanno inciso significativamente sugli introiti nella maggioranza degli altri casi e, in particolare, hanno lasciato inalterato il clima di sfiducia sulle prospettive economiche. Quest’ultimo fattore si è rivelato determinante ai fini della decisione dell’allocazione del reddito (comunque in flessione) tra spesa e risparmio: quando si hanno attese negative sul futuro si limitano le spese e si rinviano gli investimenti. La drammatica situazione in cui versa oggi l’Italia rappresenta la certificazione del fallimento delle politiche di mero supporto al reddito in una fase recessiva dell’economia.

Il primo passaggio sarebbe rendersi conto del madornale errore commesso. Ma ciò non sarà sufficiente, poiché uno dei problemi che l’Italia si troverà ad affrontare sarà l’estrema difficoltà di uscire dalla “trappola” in cui è stata messa dalle miopi (e talvolta insensate) scelte dei governi passati. È evidente che, invece di continuare ad erogare insufficienti surrogati di salario, sarebbe preferibile aumentare l’occupazione (con le connesse dignitose retribuzioni). Solo in questo modo si avrà un solido aumento dei redditi delle famiglie e un cambiamento nella loro percezione del futuro, con tutti i riflessi collegati, anche in termini di comportamenti demografici. Occorrerebbe, quindi, spostare le risorse oggi attribuite all’assistenza (e al fallito sostegno dei consumi) verso il supporto agli investimenti. Ma qui il punto è tutto politico: chi avrà il coraggio di revocare le elargizioni (dallo spiccato sapore elettorale) concesse in passato?

e-mail: toni_iero@virgilio.it

NOTE

1 – Con questo termine (tradotto malamente dall’inglese “frugal” dove ha anche l’accezione di parsimonioso) si indicano alcuni Stati europei che hanno una posizione contraria ad un eccessivo allargamento del bilancio comune europeo. Si tratta di Paesi Bassi, Danimarca, Svezia e Austria. A questi si è successivamente unita anche la Finlandia.

2 – Il consumo individuale effettivo, abbreviato in AIC, si riferisce a tutti i beni e servizi effettivamente consumati dalle famiglie. Comprende beni di consumo e servizi acquistati direttamente dalle famiglie, nonché servizi forniti da istituzioni senza scopo di lucro e dal governo per il consumo individuale (ad esempio, servizi sanitari e educativi). Nei confronti internazionali, il termine è generalmente preferito al concetto più ristretto di consumo delle famiglie, perché quest’ultimo è influenzato dalla misura in cui le istituzioni senza scopo di lucro e le amministrazioni pubbliche agiscono come fornitori di servizi. Sebbene il PIL pro capite sia un indicatore importante e ampiamente utilizzato per misurare il livello di benessere economico, il consumo pro capite può essere più utile per confrontare il benessere relativo dei consumatori nei vari paesi.

3 – Mie elaborazioni su dati Eurostat: GDP and main components (output, expenditure and income) [NAMA_10_GDP]

4 – Si tratta del rapporto tra occupati e popolazione. Mie elaborazioni su dati Eurostat: Employment and activity by sex and age – annual data [LFSI_EMP_A]; Population on 1 January by age group and sex [DEMO_PJANGROUP].

5 – Vi è chi ritiene che il dato italiano sia sottostimato a causa dell’ampia diffusione del lavoro nero. Si tratta certamente di un fattore da considerare. Tuttavia, le modalità dell’indagine relativa alla rilevazione delle forze di lavoro, la presenza di occupazione “informale” anche negli altri Paesi e l’enorme divario tra i dati italiani e quelli europei tendono a ridimensionare significativamente la portata dell’effetto del lavoro nero nel confronto tra Italia e altri Paesi europei.

6 – Il CAGR (Compound Annual Growth Rate), o tasso annuo di crescita composto, è un indice che rappresenta il tasso di crescita medio annuo di un certo valore in un dato arco di tempo.

7 – Addirittura, nel corso della pandemia, si è cercato di stimolare i consumi con provvedimenti stravaganti, come il bonus per l’acquisto di monopattini et similia, il bonus rubinetti, il bonus vacanze, etc.