Dimissioni e addio. Perché è un errore non prendersi cura degli ex

scritto da il 02 Maggio 2021

Post di Benedetto Buono, manager, business angel e autore del saggio Business Networking –

Storicamente le aziende associano valore alle risorse in ingresso, i cosiddetti nuovi assunti o new hired e non ne associano alcuno a coloro che, invece, si accingono a lasciarle per intraprendere nuove avventure professionali.

Questo atteggiamento è abbastanza comprensibile e facile da spiegare, almeno ad un primo livello di lettura: puntare tutto su chi arriva è naturale così come limitarsi, il più delle volte, a “salutare” chi va via. Sarà infatti la prima tipologia di risorse a lavorare per l’azienda e quella che, seguendo un ragionamento lineare e semplicistico, potrà contribuire al successo della stessa e alla relativa creazione di valore. Chi, invece, fa la scelta opposta, ovvero di andar via, verosimilmente ha dato quello che poteva dare all’azienda che, da quel momento in avanti, non lo vedrà più come potenziale fonte di valore. In quest’ottica le risorse vengono paragonate, di fatto, a degli asset inanimati, come possono essere delle linee produttive da dismettere o dei PC da sostituire: hanno assolto alla funzione d’uso e fatto il loro dovere per un determinato periodo (di ammortamento, si potrebbe quasi dire) e quando escono fisicamente dal perimetro aziendale non hanno evidentemente più alcun valore.

Soffermandosi un attimo a ragionare, tuttavia, ci potrebbero essere diversi importanti aspetti che nell’approccio standard di cui sopra non vengono considerati, correndo il rischio di sperperare grandi opportunità.

In effetti, è ovvio partire dalla constatazione che le persone non sono asset aziendali come gli altri ma, anche se appare scontato ricordarlo, sono la risorsa più importante per qualunque organizzazione: anche in presenza di fonti finanziarie solide, tecnologie di rilievo e buoni prodotti, infatti, senza un capitale umano adeguato non si potrà mai sperare di produrre vero valore sostenibile nel tempo.

Se quanto appena scritto è vero (ed è arduo cercare di dimostrare il contrario) allora dev’essere vero il fatto che il valore associato alle persone – ai dipendenti – non si esaurisce con la loro permanenza formalizzata negli organici aziendali ma, molto più probabilmente, assume una connotazione diversa anche nel momento in cui gli stessi decidono di lasciare l’azienda per la quale hanno lavorato fino a quel momento.

Quale può essere questa connotazione?

La risposta più veloce può arrivare certamente guardando a quanto avviene in determinati settori, come ad esempio quello della consulenza. Quest’ultimo, infatti, è un mondo tipicamente caratterizzato da una estrema attenzione nei confronti dei consulenti che, a un certo punto, decidono di lasciare l’azienda. La ragione di questa elevata attenzione è da ricercare, innanzitutto, nel fatto che gli ex consulenti, una volta entrati in un’azienda “normale”, diverranno con molta probabilità essi stessi clienti della società di consulenza per cui hanno lavorato. È così che gli ex-dipendenti si trasformano, magicamente, in clienti. E i clienti, si sa, vanno coccolati. Converrebbe, quindi, iniziare a prendersi cura di quelli che potrebbero diventare dei futuri clienti il prima possibile: per farlo, i processi di HR management dovrebbero iniziare a gestire con attenzione non più, soltanto, le fasi di onboarding e retention ma, per l’appunto, anche quelle – cruciali – relative all’offboarding dei dipendenti, disegnando dei programmi corporate Alumni che possano accogliere gli ex-dipendenti e accompagnarli nel prosieguo della carriera.

Naturalmente oltre alla consulenza ci sono anche altri settori dotati della stessa sensibilità nei confronti degli ex dipendenti (o di quelli che si accingono a diventare tali): si pensi agli studi di avvocati d’affari, alle business school e, più in generale, alle università. Se per gli avvocati d’affari il modello è, di fatto, assimilabile a quello dei consulenti, per il mondo della formazione significa costruire un patrimonio umano incredibile, su cui far leva negli anni a venire (anche a livello commerciale, tramite l’offerta educativa di tipo executive che mira a realizzare la famosa continuos learning experience) e che, usualmente, viene gestito attraverso appositi uffici Alumni.

Proprio le business school e le università hanno tanto da insegnare sul tema al mondo aziendale, essendo probabilmente le più esperte nel campo: ho la fortuna di appartenere alle community Alumni di due primarie realtà, come il MIP Politecnico di Milano (dove ho conseguito un Executive MBA) e la Luiss di Roma (dove mi sono laureato), e posso testimoniare che le occasioni di networking, apprendimento continuo e stimolo intellettuale sono continue e di altissimo valore.

In ogni caso ed allargando la visuale, comunque, i former employees mostrano tutto il loro valore, potendo diventare per ogni azienda, in qualsiasi settore, di volta in volta:

Prosecutori e conservatori di quell’employer branding sul quale, negli ultimi anni, tutte le grandi realtà stanno investendo sempre più (una volta fuori dall’organico aziendale ci si può “trasformare” in veri e propri ambassador dell’azienda per cui si è lavorato, dei testimonial in tutto e per tutto, prolungando l’effetto benefico del parlare bene di un determinato brand avendolo vissuto dall’interno);

Attori per la cooptazione di nuovi clienti e nuovi candidati di valore: se della prima fattispecie si è già scritto qualche riga sopra, nel secondo caso chi si è trovato bene (e si è lasciato bene) con una determinata azienda sarà incentivato a segnalarne opportunità lavorative anche a sue persone di fiducia e comunque a potenziali candidati di valore;

Memoria storica della specifica azienda: l’heritage delle aziende, anche delle più blasonate, non viene costruito soltanto dai fondatori o dai top manager che le hanno guidate ma anche – e soprattutto – dai singoli individui che, nel tempo, vi hanno lavorato e che, anche una volta fuori, possono fungere da importante serbatoio di esperienze e ricordi da valorizzare, a tutto beneficio del futuro delle stesse aziende.

Culturalmente, vi è da riconoscerlo, quello descritto è un approccio certamente più vicino alla corporate culture americana: in Italia, per esempio, è noto come funzionino benissimo alcune Corporate Alumni come quella di Procter & Gamble o come quella dell’Associazione Alumni Accenture, della quale – tra l’altro – chi scrive è proud alumnus, avendo cominciato proprio nel colosso americano di consulenza il proprio percorso professionale, ormai tanti anni fa.

schermata-2021-05-02-alle-09-52-26

Prendere consapevolezza del fatto che il ciclo di vita relativo al rapporto dipendente – azienda non si esaurisce con le dimissioni da quest’ultima potrebbe, per tutto quanto scritto e molto altro, contribuire a creare valore nel tempo, tanto per le aziende quanto per gli individui che vi hanno lavorato per un determinato periodo della propria carriera.

L’affermazione appena sostenuta sembra assumere ancora più validità ricordando come stiano diminuendo i casi in cui si espleta l’intera carriera all’interno della stessa azienda. Soprattutto le nuove generazioni sono, infatti, nativamente molto più predisposte mentalmente ad immaginare una carriera variegata e ricca di esperienze, associando queste idee ad una volontà di cambiare datore di lavoro più e più volte nel corso del loro futuro percorso professionale.

Non si potrà più, pertanto, prescindere dall’iniziare a prendersi cura dei departing employees in maniera strutturata e strategica, pianificando l’eventuale uscita fin dal primo giorno di assunzione dei futuri collaboratori e traendo spunto, in tal senso, dalle migliori e più illuminate esperienze internazionali.

Twitter @bennybuono