Per un lavoro dignitoso serve il salario minimo universale

scritto da il 03 Maggio 2021

Post di Alessandro Guerriero, laureando in Economia Politica a Roma Tre e collaboratore di Kritica Economica – 

La proposta di aumentare il salario minimo orario federale fino a 15 dollari l’ora del Presidente degli Stati Uniti Biden ha acceso il dibattito economico sulla possibilità di estendere questa misura anche in Italia. Difatti, nel nostro Paese ancora non esiste un salario minimo orario universale. Il governo giallo-rosso, almeno nel programma, era intenzionato ad inserirlo, ma con il nuovo esecutivo guidato da Draghi il dibattito si è spento e sono aumentate le difficoltà della sua approvazione. Questo articolo ha l’obiettivo di spiegare tramite la letteratura sull’argomento, ed i dati europei e italiani, l’importanza di avere un salario minimo in Italia, dimostrando che esso non avrebbe effetti sull’occupazione, ma sarebbe un passo in avanti per avere un Paese più civile. Inoltre, verrà spiegato che la sua approvazione potrebbe comportare una redistribuzione del reddito, con effetti positivi per l’intera economia. Il primo paragrafo illustrerà il dibattito accademico sul salario minimo, il secondo analizzerà gli effetti sull’occupazione ed il terzo il contesto europeo e italiano, con un’analisi degli effetti dell’introduzione del salario minimo nell’economia.

Il dibattito economico sul salario minimo legale

Ancora oggi vari economisti mainstream, basandosi sulla loro teoria ormai dominante nel dibattito pubblico e accademico, sono contrari all’adozione di un salario minimo poiché ritengono possa avere un impatto negativo sull’economia e soprattutto sull’occupazione. Seguendo la teoria economica mainstream (più precisamente marginalista o neoclassica), il livello di occupazione viene determinato tramite l’uguaglianza tra domanda ed offerta di lavoro all’interno dell’equilibrio economico generale. Il mercato tenderebbe alla piena occupazione e così risulterebbe un salario di equilibrio. Infatti, a loro parere se esiste disoccupazione vuol dire che il salario reale è troppo alto: tramite dei meccanismi automatici il salario dovrebbe diminuire e l’occupazione aumentare, fino a raggiungere il pieno impiego dei lavoratori ad un salario più basso rispetto a quello iniziale.

Anche una persona non esperta di economia potrebbe storcere il naso se gli venisse detto che il mercato tende naturalmente all’assenza di disoccupazione, vedendo il tasso di disoccupazione italiano ormai persistente nell’economia, ad oggi pari al 9,5% secondo l’Istat.

Esistono varie critiche alla tendenza al pieno impiego, tra le più note quella dell’economista inglese Keynes. Infatti, secondo la sua analisi la diminuzione dei salari reali comporterebbe una riduzione della propensione al consumo, che tenderebbe a ridurre la domanda aggregata di beni e servizi, e quindi a diminuire il livello di produzione (che si adegua alla domanda) e di conseguenza a ridurre anche l’occupazione.

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Gli economisti mainstream hanno risposto che la disoccupazione dipende dall’esistenza di alcune rigidità nel mercato del lavoro, che non permettono di far diminuire il salario per portarlo al valore di equilibrio, a cui tutti i lavoratori sono impiegati. Infatti, per la loro teoria economica esiste una relazione inversa tra salario e occupati. Se esiste disoccupazione, allora vuol dire che il salario è troppo alto.

Le rigidità nel mercato possono essere rappresentate dai sindacati che non permettono agli imprenditori di abbassare il costo del lavoro, oppure da alcune leggi che non permettono l’abbassamento gli stipendi sotto un certo livello: il salario minimo rientrerebbe proprio in questa categoria, ed è per questo che molti sono contrari all’adozione di questo strumento. Un aumento dei salari porterebbe, secondo loro, ad un aumento della disoccupazione.

L’economia è una scienza sociale e non certa, proprio per questo esistono diverse teorie in conflitto tra loro. Secondo la teoria classica di Smith e Ricardo, sviluppata successivamente da Marx e Sraffa, l’occupazione ed il salario non sono determinati congiuntamente all’interno del mercato del lavoro.

Secondo Smith, il salario fluttua sul livello di sussistenza (ovvero il minimo necessario per soddisfare dei bisogni base, tra cui quelli biologici e quelli ritenuti indispensabili nel contesto sociale di riferimento) e dipende dalla forza contrattuale dei lavoratori, che in generale sarà più alta quando la disoccupazione è bassa e viceversa; ma anche dal livello di sussistenza di un determinato periodo storico e dalla forza dei sindacati e delle leggi che proteggono i lavoratori, che all’epoca di Smith erano inesistenti. Inoltre, secondo l’economista scozzese “Per quanto grande sia la ricchezza di un paese, se è stata a lungo stazionaria non dobbiamo aspettarci di trovarvi salari del lavoro molto alti […]. Se in un paese simile i salari del lavoro fossero più che sufficienti a mantenere il lavoratore e a metterlo in condizioni di allevare una famiglia, la concorrenza tra i lavoratori e l’interesse dei padroni li ridurrebbero in breve al più basso livello compatibile con la comune umanità.”[1]

È facile vedere quanto sia ancora attuale quello che scriveva Smith più di duecento anni fa. Infatti, l’Italia è un Paese in stagnazione, il tasso di disoccupazione è eccessivo e i salari ormai non crescono più. In questo contesto teorico, la disoccupazione è possibile anche in una situazione di equilibrio economico e l’occupazione non viene determinata nel mercato del lavoro: non esiste un salario che permetterebbe a tutti i lavoratori di essere impiegati.

Il dominio della teoria mainstream ha fatto sì che i vari governi italiani abbiano cercato di rendere più flessibile il mercato del lavoro, come con il Jobs Act dell’esecutivo guidato da Matteo Renzi.

La Commissione Europea inoltre ha spesso chiesto ai Paesi membri negli ultimi anni di adottare politiche di moderazione salariale. Nel prossimo paragrafo si potrà osservare che la flessibilizzazione del mercato del lavoro e il salario minimo non hanno effetti sull’occupazione, ma solo sulle condizioni dei lavoratori.

Il salario minimo non crea disoccupazione, la flessibilità non crea occupazione

Partendo dalla flessibilità del mercato del lavoro, varie analisi hanno accentuato il fatto che essa non provochi alcun aumento dell’occupazione. Per esempio, il Fondo Monetario Internazionale scrive che “le riforme che facilitano la regolamentazione del licenziamento rispetto ai lavoratori regolari non hanno, in media, effetti statisticamente significativi sull’occupazione e su altre variabili macroeconomiche”. [2]

Oppure la Banca Mondiale dichiara che “l’impatto complessivo delle riforme EPL [legislazione sulla tutela del lavoro] e del salario minimo è inferiore a quanto suggerirebbe l’intensità del dibattito. La maggior parte delle stime degli impatti sui livelli di occupazione tendono a essere insignificanti o modeste”. [3]

Le politiche di flessibilizzazione del lavoro hanno comportato solamente una perdita dei diritti dei lavoratori, un aumento delle disuguaglianze e una riduzione della quota salariale negli anni. [4]

Per quanto riguarda il salario minimo, dalla letteratura si evince che non provoca effetti negativi sull’occupazione.

Secondo uno studio, se il salario minimo fosse pari ad un intervallo tra il 40-60% del salario mediano, l’occupazione non diminuirebbe (e molto probabilmente anche sopra al 60%). Inoltre, sempre secondo questa analisi, l’introduzione del salario minimo provocherebbe un miglioramento delle posizioni lavorative, poiché aumenterebbe i lavori più qualificati, con un salario maggiore rispetto al minimo. [5]

Poiché in alcuni Paesi è stato adottato un salario minimo, è facile vederne gli effetti. In Germania nel 2015 è stato introdotto un salario minimo orario pari a 7,5 euro, poi aumentato fino ai 9,35 euro (cioè all’incirca il 50% del salario mediano). Prima dell’introduzione, circa il 15% dei lavoratori aveva un salario minore a quello minimo. Il risultato è stato quello atteso: un effetto limitato se non nullo sull’occupazione, il miglioramento di alcune posizioni lavorative e quindi la redistribuzione della ricchezza, visto che i salari più bassi sono aumentati di più rispetto a quelli più alti.

Alcuni economisti osservano che l’introduzione di un salario minimo potrebbe comportare un aumento dei prezzi, ma questo aspetto non è necessariamente negativo: l’adozione di questo strumento ha un impatto positivo sui lavoratori a basso reddito, mentre il costo economico legato all’inflazione sarebbe sostenuto da tutti i consumatori. In sostanza, l’effetto sarebbe redistributivo.

Infine, alcuni studi dimostrano che un aumento del salario produrrebbe una crescita della produttività del lavoro.

Il salario minimo quindi non ha effetti negativi sull’occupazione, bensì è una misura di civilità. Dovrebbe essere contro ogni sentimento umano pagare un salario che non permette al lavoratore di condurre una vita dignitosa. Anche la flessibilizzazione del lavoro non produce riscontri sul lato della creazione di nuovi posti di lavoro, ma al contrario del salario minimo è sfavorevole ai lavoratori.

Un salario minimo di 9 euro per l’Italia è possibile, anzi auspicabile

Il Presidente dell’Inps Pasquale Tridico, durante un’audizione al Senato sul salario minimo, ha presentato i dati sull’adozione di questo strumento.

In prima analisi bisogna considerare il quadro europeo: 22 paesi su 28 hanno un salario minimo universale. In questi paesi i salari minimi sono diversi, e possono essere raggruppati in tre categorie:

nella prima compaiono i Paesi che adottano un salario minimo scelto direttamente dall’esecutivo, nella seconda è prevista la partecipazione di enti terzi e parti sociali, nella terza la soglia è determinata da meccanismi di indicizzazione ai prezzi, alle retribuzioni o ad entrambi.

L’ultima soluzione sembra quella più adatta, ed è scelta da Paesi come Francia, Belgio e Olanda. Infatti, considerando la letteratura menzionata nel secondo paragrafo, sarebbe interessante collegare il salario minimo al salario mediano, ed avere un’indicizzazione meccanica e annuale. Un’altra soluzione potrebbe essere quella di scegliere una soglia che rispetti un legame con il salario mediano, senza però creare un meccanismo di indicizzazione annuale, ma con l’obbligo di rivedere tale soglia nel corso degli anni.

In Italia esistono dei salari minimi diversi per ogni settore del mercato del lavoro, scelti con i sindacati tramite i contratti collettivi nazionali. Fissare un salario minimo universale sarebbe utile per vari motivi: per rendere più semplice scovare le irregolarità e quindi facilitare i controlli, per unire i lavoratori, per dare più forza ai sindacati ed incentivare la contrattazione collettiva.

In Italia si discute di un salario tra gli 8 e i 9 euro orari, che ci porterebbe vicino ai Paesi come Francia e Germania, ma senza raggiungerli.

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Valore salario minimo universale in Europa, Fonte: Inps 2020, 19° Rapporto annuale.

Secondo i dati dell’Inps [6] se si fissasse un salario minimo universale pari ai 9 euro, senza comprendere tredicesima e TFR, circa 4,6 milioni di lavoratori sarebbero interessati da questa misura, ovvero il 29,7% del totale. Il rapporto tra il salario minimo e quello mediano sarebbe del 74%. Se venisse scelto invece un salario minimo di 8 euro, la percentuale sarebbe del 64% (vicina a quella proposta nell’intervallo), e i lavoratori interessati sarebbero pari a circa 2,6 milioni (ovvero il 16,8% del totale).

Considerando il secondo scenario, ci sarebbe sì un aumento del costo del lavoro per le imprese, ma un anche un aumento del gettito dello Stato per circa 1,5 miliardi di euro. Il risultato dell’introduzione di un salario minimo di 8 euro sarebbe quello di ridurre la povertà e le disuguaglianze, obiettivo primario per un Paese avanzato come l’Italia.

Spesso il salario viene osservato solo in un suo aspetto, ovvero quello del costo per le imprese. In realtà il salario ha un altro ruolo fondamentale, ovvero quello di fonte della domanda aggregata.

L’effetto benefico dell’adozione di un salario minimo sarebbe quello di far aumentare le entrate dei lavoratori facenti parte dei decili di reddito più poveri in Italia, che hanno una propensione al consumo molto alta: un aumento del loro reddito si tramuterebbe quasi totalmente in consumi e non in risparmi. Ciò porterebbe ad un aumento della domanda aggregata e ad un effetto benefico per l’intera economia.

Inoltre, con una politica industriale pubblica orientata al raggiungimento di obiettivi di medio/lungo periodo si arriverebbe alla creazione di nuovi posti di lavoro. Se alla ricerca del pieno impiego si aggiungesse il salario minimo, il risultato sarebbe quello di creare lavori dignitosi, ovvero ciò che serve al nostro Paese.

Riferimenti bibliografici

[1]       Adam Smith, 1776. La ricchezza delle Nazioni, libro primo capitolo 8°.

[2]       IMF, 2016. Time for a Supply Side Boost? Macroeconomic Effects of Labor and Product Market Reforms in Advanced Economies. In World Economic Outlook 2016. IMF, Washington DC, pp. 101–142.

[3]       World Bank, 2013. World Development Report 2013: Jobs. World Bank Publications, Washington DC, p. 261

[4]       Brancaccio, Garbellini & Giammetti, 2018. Structural labour market reforms, GDP growth and the functional distribution of income. Structural Change and Economic Dynamics 44 , 34-45.

[5]       Cengiz, Dube, Lindner, & Zipperer, 2019.“The Effect Of Minimum Wages On Low-Wage Jobs: Evidence From The United States Using A Bunching Estimator”. Quarterly Journal of Economics vol. 134(3), 1405-1454.

[6]       INPS, 2020. Tra emergenza e rilancio – 19° Rapporto annuale.