Tasse, perché adesso è il momento giusto per una riforma complessiva

scritto da il 03 Maggio 2021

Post di Fabio Ghiselli, dottore commercialista, già tax director d’impresa, attualmente tax and lab advisor, autore di numerose pubblicazioni in materia tributaria e di welfare, opinionista de Il Sole 24 Ore, cultore di economia –

“Il sistema tributario è meccanismo complesso, le cui parti si legano l’una all’altra. Non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta”. Sono queste le parole con le quali il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha aperto il capitolo sulla fiscalità nel suo discorso di insediamento al Senato, che denotano una precisa consapevolezza del significato di “sistema tributario” cui fa riferimento l’art. 53 della Costituzione. Molto distante da quel “sistema-non sistema” che oggi rappresenta l’attuale impianto normativo creato da un legislatore poco avvezzo a una visione d’insieme e molto sensibile a soddisfare esigenze del momento o istanze di parte.

In un contesto come l’attuale, ma anche post pandemico, nel quale continuano a generarsi pesanti effetti negativi sul lavoro e sull’attività economica, le esigenze di un sistema di welfare pubblico sono destinate a crescere. Non solo si dovranno proteggere coloro che hanno perso il lavoro o la propria attività, ma realizzare politiche di riduzione del “gender gap” e garantire le risorse per “promuovere al meglio il capitale umano, la formazione, la scuola, l’università e la cultura”. Ecco perché il sistema fiscale rappresenta “l’architrave per la politica di bilancio”, e la sua riforma costituisce una delle “azioni chiave per dare risposta alle debolezze strutturali del Paese e in tal senso è parte integrante della ripresa che si intende innescare anche grazie alle risorse europee”, come scritto a pag. 107 dell’appena approvato PNRR.

Come non condividere queste conclusioni, dato che le sole entrate tributarie erariali coprono oltre l’88% delle entrate complessive (non contributive) dello Stato, e che la fiscalità è un prezioso agente di equità, giustizia sociale, solidarietà sostanziale, ma anche di sviluppo economico?

Per tali ragioni qualunque ipotesi di flat tax, appare incompatibile con il modello di Stato che conosciamo e con quello delineato nel discorso di insediamento, come del resto attestano tutte le esperienze di adozione di tale regime in 31 Paesi al mondo (su 196), e in 7 Paesi dell’est Ue.

E sempre per le stesse ragioni che l’obiettivo dichiarato è quello di costruire un “sistema” tributario più progressivo ed equo, in linea con i principi costituzionali della capacità contributiva (art. 53) e della solidarietà sostanziale (art. 3, co. 2), e più equilibrato in termini di composizione del carico fiscale, anche in rapporto al Pil. Perché è dai principi che dovremmo partire.

Ma come in concreto?

L’indagine delle Commissioni Finanze di Camera e Senato sul sistema fiscale è un ottimo punto di partenza. L’insieme dei documenti acquisiti consentono di individuare le linee guida della riforma che il Parlamento dovrebbe tradurre in una legge delega.

Il passo successivo lo ritroviamo in un passaggio del discorso di insediamento del Presidente Draghi, nel quale, dopo aver richiamato la commissione Cosciani che studiò la riforma del 71-73, si legge che “le esperienze di altri Paesi insegnano che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate ad esperti che conoscono bene cosa può accadere se si cambia una imposta”. Ipotesi confermata dal PNRR che afferma di voler realizzare questo impegno nel secondo semestre del 2021, subito dopo la presentazione in Parlamento (entro il 31 luglio) del disegno di legge delega.

Non una riforma costruita nelle segrete stanze del “palazzo” o affidata a soggetti gravati di altri compiti istituzionali, quindi, ma elaborata da un gruppo di esperti e studiosi del diritto tributario e di scienza delle finanze, come da tempo ho personalmente auspicato (Per una vera “riforma fiscale” serve una commissione di studi(osi)).

L’estensione dell’indagine parlamentare lascia ben sperare per un intervento non limitato a una revisione dell’Irpef, anche se questa rappresenta la “madre” di tutte le riforme.

Si dovrà affrontare il tema centrale, quello della scelta tra sistema duale (redditi da lavoro da una parte e redditi di capitale dall’altra), e tassazione del reddito complessivo, nella speranza che l’opzione non si fondi sull’anacronistico e semplicistico convincimento che il secondo sia complesso e difficilmente gestibile oltreché incompatibile con l’attuale mobilità dei capitali.

Poi si dovrà scegliere tra il modello di progressività continua (quello tedesco) e quello per scaglioni e aliquote differenziate e crescenti. Entrambi possono funzionare, anche se la mia personale predilezione va al primo, ma occorre avere la consapevolezza che non è sufficiente scomporre l’attuale secondo e/o terzo scaglione reddituale in soli quattro/due nuovi scaglioni, lasciando inalterato l’ultimo. Se questo fosse l’indirizzo, sarà bene guardare alla struttura dell’imposizione uscita dalla riforma dell’Irpef del 71-73 e prendere opportuni spunti.

Contemporaneamente dovrebbe essere introdotto il “reddito minimo esente” per tutti, in piena sintonia con il principio di capacità contributiva imposto dall’art. 53 Cost., e risolto il tema dei c.d. “incapienti” attraverso l’introduzione di una imposta negativa, eventualmente trasformabile in servizi di welfare.

È evidente, inoltre, che si dovrà correggere significativamente tutto il comparto delle deduzioni e detrazioni, compreso il “bonus” 100 euro che, in un’ottica riformatrice, non si può pensare di mantenere. Lo impongono sia esigenze di semplificazione – le attuali 171 diverse tax expenditures riferite alla sola Irpef, oltre a quelle introdotte dai vari decreti di sostegno alla crisi pandemica approvati nell’ultimo anno, sono una vera esagerazione – sia di controllo degli effetti economici. Alcune sono oggi prive di senso, altre possono essere mantenute (quelle a più elevato impatto sociale ed economico e di tutela di alcuni capisaldi costituzionali), altre ancora possono essere inglobate nell’assegno unico irrilevante ai fini della tassazione. E molte con un andamento decrescente rispetto al reddito.

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Senza dimenticare che una riforma dell’Irpef non può essere disgiunta da una revisione della tassazione locale sul reddito, oggi così variamente frastagliata da incidere negativamente sulla curva della progressività. Se l’autonomia impositiva degli enti locali va mantenuta e salvaguardata, il punto di riferimento dovrebbe essere il principio del necessario “coordinamento … del sistema tributario” sancito dall’art. 117, co. 3 Cost..

Considerato che dal PNRR emerge la chiara volontà di addivenire a una riforma complessiva del sistema, dovrebbero essere affrontati i temi della tassazione delle imprese (ne ho parlato su Il Sole 24 Ore, Crescere incentivando la domanda, il 22.4.2020), del catasto, dell’imposizione immobiliare, dell’imposta sul patrimonio necessariamente complessivo, delle successioni e donazioni, delle aliquote Iva e degli elenchi dei beni e servizi agevolati.

Inoltre, non possiamo non evidenziare altri due punti che lo stesso PNRR dimostra di considerare rilevanti nell’ambito dell’intervento riformatore (come auspicato nel mio libro Giù le tasse ma con stile! ed. F. Angeli, 2019).

Il primo è un’opera “di raccolta e razionalizzazione della legislazione fiscale in un testo unico integrato e coordinato con le disposizioni normative speciali, da far confluire in un unico Codice tributario”. Il che non solo dovrebbe rendere meno rischiosa l’attività di interpretazione e applicazione delle norme, in particolare per i contribuenti, ma dovrebbe garantire una maggiore stabilità normativa e, quindi, la tanto auspicata certezza del diritto.

Il secondo è il potenziamento dell’Amministrazione finanziaria, in termini di uomini e mezzi, per implementare il contrasto dell’evasione (oltre 110 miliardi di euro/anno).
Il momento giusto è questo. L’occasione è così importante che non può essere sprecata.

Twitter @GhiselliFabio1