Rischio climatico e finanza: come stanno reagendo banche e gestori

scritto da il 24 Maggio 2021

Post di Michelangelo Bruno, Policy Expert presso l’Eba, l’autorità bancaria europea. In precedenza ha lavorato come ispettore di vigilanza bancaria e finanziaria presso la Banca d’Italia per tre anni e come Analista presso la BCE per due anni e mezzo, dopo aver conseguito un Master alla London School of Economics – 

Secondo le stime dello European Centre for Medium Range Weather Forecasts (ECMWF), settembre 2020 è stato il mese più caldo di sempre. Nel corso dello stesso anno il congelamento del mare di Laptev in Siberia (principale vivaio di ghiaccio marino dell’Artico) è avvenuto in ritardo, per la prima volta nella storia, a causa della prolungata ondata di calore cha ha investito la Russia settentrionale e dell’innalzamento generalizzato delle temperature dei mari. Questi sono solo alcuni esempi di eventi catastrofici originati dal cambiamento climatico che hanno avuto impatti dirompenti sia sugli ecosistemi naturali sia sulle economie dei diversi paesi.

A quasi un mese dal quinto anniversario della conferenza dell’ONU di Parigi sui cambiamenti climatici, appare chiaro che per raggiungere gli obiettivi dell’accordo è necessario un supporto finanziario senza precedenti. La pandemia da COVID-19 e la conseguente necessità dei governi di predisporre dei pacchetti di stimolo per la ripresa economica agevoleranno lo stanziamento di risorse finanziarie pubbliche a favore di progetti volti a facilitare il processo di transizione ecologica (ad esempio, secondo la bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza redatta dal governo e recentemente approvata dalle Camere, circa 60 miliardi dei fondi del Recovery Fund assegnati all’Italia saranno destinati alla rivoluzione verde). Al supporto pubblico è altresì fondamentale che si aggiunga il sostegno degli intermediari finanziari che dovranno promuovere il cambiamento delle aziende industriali al fine di favorire l’adozione di pratiche più sostenibili. Tuttavia, non sarà facile adempiere a tale compito per via di una serie di difficoltà.

Partendo dai processi di concessione del credito da parte delle banche, occorre evidenziare come gli indicatori tradizionalmente considerati nei modelli per l’attribuzione dei rating creditizi siano di natura finanziaria (forward e backward looking) e di natura andamentale. L’integrazione del rischio climatico in tali processi richiederà un ulteriore affinamento dei modelli per migliorarne la capacità (in un’ottica forward looking) di individuare i progetti meritevoli di sostegno finanziario.

schermata-2021-05-24-alle-15-24-14

Come rilevato dall’OCSE (nel Due Diligence for Responsible Corporate Lending and Securities Underwriting Report), infatti, un’efficace due diligence dei progetti e dei creditori permette di gestire al meglio i rischi ambientali e contribuisce al raggiungimento di obiettivi di sostenibilità, migliorando al contempo le relazioni con gli stakeholders. Un’efficace valutazione dei progetti permetterebbe, inoltre, alle banche di ottimizzare la gestione del portafoglio crediti mediante una puntuale stima degli impatti economici potenziali derivanti dal rischio climatico. Secondo Carbon Disclosure Project (CDP) – una ONG che si occupa di disclosure su tematiche ambientali – l’impatto economico stimato del cambiamento climatico sulle 215 aziende più grandi a livello globale per capitalizzazione di mercato è potenzialmente pari a mille miliardi di dollari. Queste stesse aziende hanno evidenziato ulteriori potenziali perdite in bilancio a causa della riduzione del valore degli attivi (c.d. stranded assets) pari a 250 miliardi di dollari. Tuttavia sempre secondo CDP, questa fase di transizione creerà nuove opportunità che potrebbero generare guadagni superiori a duemila miliardi di dollari.

Ad oggi le principali banche operanti a livello globale hanno raccolto la sfida, accelerando il processo di evoluzione e ridefinendo le loro strategie per allinearle ai principi contenuti nell’Accordo di Parigi, ai principi per l’attività bancaria responsabile dell’ONU e agli Equator Principles.

Allo stesso modo le Autorità di Vigilanza finanziaria stanno valutando il modo più efficace ed opportuno di inserire i principi Environmental, Social and Governance (ESG), nei quali confluisce anche il rischio climatico, all’interno dei processi di gestione dei rischi degli intermediari finanziari e nell’attività di vigilanza. In questo ambito è fondamentale il lavoro svolto dall’Autorità Bancaria Europea (ABE) con l’emanazione di standard regolamentari rivolti all’industria finanziaria e alle Autorità di Vigilanza (con l’obiettivo di uniformare le pratiche di vigilanza nei 27 paesi dell’Unione).

Per adempiere a questo compito sarà tuttavia fondamentale la collaborazione da parte delle aziende; in particolare, queste ultime dovranno migliorare la trasparenza in merito alle azioni intraprese per ridurre e/o gestire il rischio climatico. A questo proposito giova ricordare che il numero di aziende che ha deciso di aderire volontariamente alle raccomandazioni emanate dalla Task Force on Climate-related Financial Disclosures (TCFD) è in costante crescita. Allo stesso modo un’ulteriore iniziativa rilevante, è stata l’emanazione della EU taxonomy for sustainable activities volta ad allineare la divulgazione delle informazioni finanziarie climate-related fornite dalle aziende. Queste iniziative contribuiranno a fare chiarezza sulle attività che possono essere considerate sostenibili da un punto di vista ambientale e pertanto permetteranno di evitare pratiche di greenwashing.

Analogamente alle banche, i gestori di fondi dovranno accelerare il processo di adozione di indicatori in grado di discriminare la sostenibilità ambientale delle attività industriali delle aziende nelle quali investono. Secondo il report Climate Change Analysis in the Investment Process, pubblicato dal CFA Institute, il 40% dei gestori intervistati già considera informazioni riguardanti il rischio climatico nel proprio processo di investimento mentre il 75% degli intervistati reputa che il rischio climatico sia un fattore rilevante da tenere in considerazione.

Secondo un’indagine condotta da PwC nel corso del 2019 sul settore del risparmio gestito, circa il 15% degli assets detenuti dai fondi europei era ESG compliant. Questa percentuale è cresciuta nel corso dell’ultimo anno anche a causa della pandemia da COVID-19, evento quest’ultimo che ha ulteriormente accelerato il processo di integrazione del rischio climatico all’interno delle strategie di investimento dei fondi.

Anche i gestori dovranno sviluppare nuove competenze (nuovi modelli di valutazione fondati su analisi di scenario efficaci) che permettano loro di individuare tempestivamente i potenziali impatti economici derivanti dai rischi climatici sulle aziende nelle quali investono. Non è plausibile ipotizzare un cambiamento repentino che porti i gestori a ridurre l’investimento in aziende operanti in settori ad alto rischio climatico (come, ad esempio, quelle operanti nel settore petrolifero) per favorire l’investimento in aziende con business meno esposti a tale rischio soprattutto in virtù dell’elevata domanda di energia che continua ad essere prodotta mediante combustibili fossili.

Tuttavia le severe conseguenze derivanti dai rischi climatici impongono un cambiamento radicale a cui tutti noi saremo chiamati ad adeguarci. Mai come in questo caso sono attuali le parole di Charles Darwin: “It is not the strongest of the species that survive, nor the most intelligent, but the one most responsive to change”.