Il Nuovo Codice della Crisi è ancora un cantiere aperto: cosa ci aspetta?

scritto da il 12 Luglio 2021

Anche il nuovo Codice della Crisi e dell’Insolvenza affronta le conseguenze della pandemia e si rifà il trucco ancora prima di essere operativo; la data originaria di entrata in vigore era lo scorso anno e il Covid rese necessario un rinvio al 2021; ma anche quest’anno, la prevista entrata in vigore a settembre slitterà nel 2022; altro elemento da considerare è il recepimento della Direttiva Europea 1023 del 2019, che impone la necessità di un’armonizzazione con quanto disposto dal nuovo Codice italiano.

Questi ed altri sono i contenuti di un’intervista sul Sole 24 Ore del 30 giugno 2021 rilasciata a Giovanni Negri da Ilaria Pagni, presidente della Commissione ministeriale sulla riforma del Codice della Crisi e dell’Insolvenza, istituita lo scorso 21 aprile sia al fine di recepire alcune modifiche proposte dalla Direttiva UE in tema di crisi d’azienda, che per tener conto del nuovo scenario di uscita del mondo produttivo dalla pandemia Covid.

Per comprendere quelle che paiono essere le direttrici di questo nuovo intervento normativo, vanno ricordate alcune linee guida della riforma, frutto del lavoro di una precedente Commissione, quella guidata da Renato Rordorf; ci siamo intrattenuti spesso, in questo spazio (1), sulla portata di questo intervento, lungamente atteso, che ha certamente dato un respiro più ampio agli strumenti normativi a disposizione di imprenditori, manager e consulenti impegnati a gestire questa particolare fase della vita aziendale, quella della crisi, che abbiamo spesso paragonato alla malattia: anche le aziende si ammalano, e possono purtroppo morire (cioè finire in una procedura concorsuale liquidatoria), se la loro malattia non è diagnosticata e presa in tempo, con i dovuti strumenti.

Come abbiamo detto, il nuovo Codice, diventato legge nel 2019, e di prevista entrata in vigore, dopo un periodo transitorio, il primo settembre del 2020, aveva il merito di introdurre, in maniera ancor più incisiva, il tema della cosidetta “gestione anticipata della crisi”, un tema che pervade anche la citata Direttiva 1023: lo strumento principale del cosidetto “early warning” su eventuali focolai di crisi era rappresentato, nel dettato della nuova legge, dalle famose procedure di allerta, strumento invero molto discusso e contestato.

In breve, la procedura di allerta è di due tipi:

a) interna, quando sono gli organi di controllo interni (collegio sindacale, revisori) a segnalare all’organo amministrativo situazioni che possano concretamente sfociare in situazioni di crisi più gravi: presenza di debiti scaduti, cali rilevanti di fatturato, sbilanci strutturali fra costi e ricavi, indici di liquidità carenti, piuttosto che un piano di cassa che possa prevedere significative incertezza nei 12-18 mesi seguenti, sono tutti segnali che gli organi preposti al controllo legale della gestione devono monitorare, attivando se del caso una procedura di allerta endo-aziendale; gli amministratori risponderanno, entro 60 giorni, a queste segnalazioni indicando le modalità attraverso le quali intendono superare e risolvere le problematiche che saranno evidenziate;

b) esterna: in questo caso, possono essere dei creditori qualificati (Entrate, Istituti Previdenziali, Agenti per la Riscossione) a segnalare la presenza di debiti scaduti (pena la perdita del grado di privilegio): qui la tematica è quindi differente, essendo un terzo ad “alzare la mano” e a rendere noto che una determinta impresa ha posizioni scadute.

Per certi versi, la dialettica riguardante questa situazioni è già presente, anche prima dell’entrata in vigore delle nuove norme: l’analisi dei piani di cassa per valutare la continuità è effettuata regolarmente dagli organi di controllo legale nelle varie aziende in sede di approvazione del bilancio, mentre per ciò che attiene alla seconda tematica, molto spesso le aziende sono già (giustamente) sottoposte a controlli sulla regolarità fiscale e contributiva, ad esempio al fine di essere ammesse al pagamento di crediti verso la PA o per avere benefici o rimborsi di carattere fiscale.

Il nuovo Codice tuttavia rende più formale questo processo, istituendo anche una sede (l’OCRI, Organismo per la Composizione della Crisi, presso le Camere di Commercio) nella quale idealmente devono articolarsi le soluzioni a questi focolai di “malattia d’impresa”; è per questo che, è stato notato, queste procedure possono irrigidire e “burocratizzare” aspetti prima lasciati al dialogo informale, nonchè ovviamente fornire effetti di “signalling” verso l’esterno non sempre positivi.

Fatto questo brevissimo riassunto, dobbiamo ricordare che, in realtà, le procedure di allerta non sono mai entrate in vigore, per i motivi detti; cosa prevede di fare la Commissione ministeriale a questo riguardo, e in generale sul tema dell'”early warning“?

L’intervista a Ilaria Pagni ci fornisce diversi spunti interessanti.

In primo luogo, viene annunciato un disallineamento nei periodo di entrata in vigore, posto che le procedure di allerta entreranno in vigore successivamente rispetto all’intero codice: quest’ultimo “nella prima metà del 2022”, mentre le prime entreranno in vigore il 1 gennaio 2024, cioè circa un anno e mezzo dopo: la Commissione ha quindi ritenuto che questi strumenti, effettivamente, andassero meglio tarati – sicuramente anche, e forse soprattutto, a causa della pandemia.

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Un’altra importante novità che pare emergere dalle parole della presidente Pagni riguarda un diverso modo di gestire i necessari passi delle procedura di “early warning” previsti dalla Direttiva, senza per questo condannare le imprese alla procedura concorsuale, che tende a distruggere il loro valore di avviamento (il grassetto è nostro):

“…abbiamo ritenuto di introdurre uno strumento che rispondesse tanto alle esigenze dell’emergenza quanto alle indicazioni della direttiva. Uno strumento che consentisse alle imprese in difficoltà, di qualunque dimensione, tanto commerciali quanto agricole, indipendentemente dalle soglie di fallibilità, di avviare negoziazioni coi creditori potendo contare sull’aiuto di un esperto, competente nella ristrutturazione aziendale, attento conoscitore della disciplina della crisi d’impresa e dotato di capacità quale facilitatore, e perciò in grado, grazie alla propria indipendenza e terzietà, di favorire le trattative volte all’individuazione di soluzioni negoziali di composizione della crisi.

Chiaramente ci si riferisce a strumenti di carattere stragiudiziale, cioè fuori dalla sorveglianza dei tribunali, incentrati sulla negoziazione con i creditori (“soluzioni negoziali di composizione della crisi”); Pagni sembra indicare, e su questo non si può che essere d’accordo, che sia dalla negoziazione fra creditori e debitori che possono nascere percorsi virtuosi, che consentano all’impresa di uscire dalla crisi senza dover azzerare (o quasi) il proprio avviamento, che come è noto si fonda sulla continuità delle sue operazioni.

Vi è inoltre l’interessante riferimento alla figura di esperti, che certamente sono necessari vista la difficile situazione che talvolta gli imprenditori ed i manager si trovano ad affrontare per la prima volta e che necessitano di un aiuto concreto anche dal lato consulenziale; a questo riguardo, doverosamente e, ci sia consentito, un po’ tardivamente, Pagni apre anche a figure in parte nuove, o comunque certamente poco considerate in passato, come i consulenti del lavoro o

“… anche i manager che documentino di avere gestito l’impresa in operazioni di ristrutturazione concluse con successo” [grassetto nostro].

Interessante il riferimento al caso in cui l’azienda non riesca a portare a termine il negoziato con i creditori: cosa fare? Ecco che viene introdotto – apparentemente – un ricorso al tribunale che consenta

“… una rinegoziazione del contratto affidata alla volontà delle parti, che faccia leva sul supporto di consulenti seri e l’aiuto di facilitatori capaci, prevedendo che in caso di insuccesso il debitore possa chiedere al tribunale di determinare equamente le condizioni economiche sulla base della proposta dell’esperto, purché per il periodo strettamente necessario e come misura indispensabile ad assicurare la continuità aziendale”

Qui, di nuovo, torna il tema di consulenti e facilitatori, ai quali, pare, la Commissione sembra dare ampio spazio: sembra di comprendere che, qualora professionisti terzi possano ritenere un piano idoneo a riequilibrare le sorti dell’azienda, questa possa rivolgersi al Tribunale per ottenerne la messa in atto, qualora le soluzioni stragiudiziali non lo dovessero consentire; tema davvero delicato di cui sarà interessante vedere l’applicazione normativa in concreto, posto che intorno a questo concetto ruotano anche i c.d. “piani attestati” (ex art. 182-bis e 67 della vecchia legge fallimentare) che hanno avuto ampia applicazione con alterne fortuna.

***

Vedremo quindi quale sarà il risultato del lavoro della Commissione: certamente il periodo della pandemia era il meno indicato per varare nuove procedure, con il rischio di non comprendere quale sarebbe stato il reale effetto di queste ultime all’interno di una “tempesta perfetta” come quella avvenuta in questi 16 mesi di effetto pandemico, che ha messo in crisi anche aziende dai fondamentali sani in molti settori.

La revisione del Codice della Crisi e dell’Insolvenza, peraltro, come abbiamo cercato di spiegare, sembra portare anche nuovi esiti nel lungo percorso di cambiamento che da molti anni, fortunatamente, ha riguardato gli strumenti a disposizione di imprenditori, manager e consulenti per risolvere, o almeno provarci, le crisi aziendali: che significa, in definitiva, mantenere in essere complessi produttivi, opportunità, posti di lavoro.

Vedremo a breve gli esiti di questo lavoro.

 

Twitter @dorinileonardo

 

(1)

Qui i principali contributi in tema “crisi e Covid”:

Meglio giocare d’anticipo. Come cambia la crisi d’impresa dopo il COVID19?

Allerta, c’è la crisi: le aziende da salvare e i dubbi sul nuovo Codice