L’esodo dal lavoro dipendente è solo un sogno di mezza estate?

scritto da il 16 Agosto 2021

L’autore del post, Silvano Joly, 55 anni, torinese, guida Syncron in Italia e Spagna. Manager per Innovation Leader come PTC, Reply, Sap, Dassault Systemes e Centric Software, ha lavorato anche con Aziende pre-IPO, start up e collabora con varie Università Italiane. Mentore pro-bono di start-up high-tech è da sempre amico della Piccola Casa della Provvidenza (Cottolengo), il più antico istituto dedicato all’assistenza di persone con gravi disabilità –

Saranno i postumi del confinamento, sarà che siamo entrati nell’era dell’Acquario o che – per i boomers come me – i figli crescono e le mamme imbiancano, ma sembra essere tendenza ormai diffusa quella di considerare di non lavorare più o di cambiare il modo di lavorare. O meglio ancora, di rivedere le ragioni per le quali si lavora.

Si sogna una start up, si pensa di gettare badge e mouse alle ortiche, di abdicare alla sveglia, ai colleghi in presenza o in tele-riunione, alla routine ma pure allo stipendio. Onorando il motto di Guy Debord, filosofo marxista del Novecento che diceva : “Non lavorare mai richiede un grande talento”. Oppure ci si impone un “ora o mai più” circa il progetto imprenditoriale tenuto in mente da anni, con la scelta di espatriare o quella di fare una anno sabbatico, magari per tornare a studiare.

Insomma sempre più persone si interrogano e rivedono le priorità in un’ottica di vero bilancio di vita e non solo in base a guadagno, prestigio, status e benefit, mentre siti web come Voglio Vivere Così creato nel 2007 da Alessandro Castagna, per raccontare le esperienze di chi “spinto da un sogno o stanco della propria quotidianità, ha deciso di cambiare vita”, propongono ricette e storie di successo, diventando sempre più di un riferimento consultato assiduamente.

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Ma siamo di fronte a fantasie da ombrellone oppure sta davvero cambiando il mondo?

Stando allo studio intitolato The Next Great Disruption Is Hybrid Work – Are We Ready?, Microsoft ha rilevato che che il 54% dei lavoratori della Generazione Z ed il 41% dell’intera forza lavoro globale potrebbero considerare di dare le dimissioni. Mentre un altro sondaggio del World Business Forum ha determinato che nel Regno Unito e in Irlanda il 38% dei dipendenti aveva intenzione di lasciare il lavoro nei prossimi sei mesi o un anno, mentre un sondaggio negli Stati Uniti ha riferito che il 42% dei dipendenti avrebbe lasciato se la propria azienda non avesse offerto opzioni di lavoro a distanza. lungo termine.

Qualcosa quindi di molto serio, sistemico, globale e potenzialmente dirompente.

Infatti, in tempi normali, la liquidità nel mondo del lavoro, persone che lasciano e cambiano impiego, indicherebbe un’economia sana, con grande domanda ed offerta. Ma questi tempi normali non sono: la pandemia ha da una parte portato recessione e disoccupazione, mentre dall’altra certi datori di lavoro lamentano carenza di manodopera.

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In effetti, questo potenziale “esodo di massa” ha già un un nome: “The Great Resignation” e non è qualcosa che ha a che fare con il reddito di cittadinana o i Neet, qui c’ è qualcosa di più profondo, quasi filosofico e le Aziende stanno cercando di mitigarlo con programmi HR, iniziative di well-being, piani di attrazione e ritenzioni dai talenti.

Ma dal punto di vista del’impiegato, del dipendente come valutare il proprio lavoro, quando dimettersi e in base a quali puntuali considerazioni? Vi propongo una semplice matrice, quella delle 5 C:

1. Cash, 2. Career, 3. Challenge, 4. Company, 5. Consideration

che facilita la sintetica misura percentuale di Salario, Carriera, Sfida, tipo di Azienda, Considerazione per noi come persone che un posto di lavoro può offrire.

Starà quindi a noi di valutare tale mix e decidere cosa fare, eventualmente cosa chiedere prima di prendere decisioni irrevocabili.

Talvolta infatti la cosa giusta da fare è tenere duro, magari quando non siamo soddisfatti del nostro incarico ma non ne abbiamo ancora discusso con un responsabile o con le Risorse Umane. Quando gli aspetti del lavoro che non ci piacciono possono essere assegnati ad altri oppure riorganizzati. Oppure possiamo sperare in un aumento o una promozione. Ma attenzione sempre al parametro della Considerazione: se questa non c’è, se le nostre richieste e rimostranze non vengono ascoltate allora va veramente calcolato se ci stiano pagando abbastanza per accettare un compromesso con l’Azienda e ancora di più con noi stessi.

Fa un analisi simile Alistair Cox, capo di Hais, che ha elencato quelle che secondo lui sono le 7 ragioni per le quali così tante persone vogliono cambiare lavoro:

1. Sono certi troveranno un altro modo di guadagnare

2. Hanno avuto il tempo e lo spazio per riflettere sulla loro vita personale e professionale

3. Non vogliono più tornare in ufficio.

4. Sono in Burn-out

5. Vogliono un avanzamento di carriera

6. Sono motivati da ragioni finanziarie

7. Si son resi conto di non amare l’attuale impiego

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Siamo davvero davanti a qualcosa di definitivo? Alla “Great Resignation”, come l’ha battezzata lo psicologo e professore alla Texas A&M University Anthony Klotz ? Se la paragoniamo alle altre “Grandi” cui abbiamo assistito nel corso della storia, “La Grande Recessione” o “La Grande Depressione”, ad esempio, l’impatto potrebbe essere davvero importante.

Difficile fare previsioni, forse meglio godersi il periodo estivo, ma vale la pena provare a riflettere, magari proprio con il cluster delle 5 C, su quanto effettivamente valga dedicare tutto il nostro tempo al lavoro e quanto invece ne dovremmo dedicare a noi, ai nostri interessi ed affetti.

Twitter @sjoly-ita