L’illusione di evitare le delocalizzazioni per decreto e cosa si dovrebbe fare

scritto da il 26 Agosto 2021

Preciso sin da subito che sulle delocalizzazioni è emersa solo una bozza di decreto. La stessa cambierà ancora molto fino all’arrivo in Consiglio dei Ministri ed anche durante l’eventuale iter legislativo. Potrebbe anche non vedere mai la luce, visti i malumori all’interno della maggioranza. Ma appare comunque doveroso provare a dibattere su un tema molto importante. Un tema che è tornato, purtroppo, agli onori della cronaca per alcune gestioni particolarmente discutibili.

La tematica riguarda quelle situazioni in cui un’impresa decide di spostare la produzione presso un’altra nazione. Ciò lascia sul territorio problemi di occupazione sia diretta (dipendenti) sia indiretta (indotto). Si tratta di un fenomeno abbastanza diffuso nelle economie di mercato alle prese con la globalizzazione. Le società sono sempre alla ricerca di catene globali del valore più efficienti ed in grado di aumentare i profitti in modo sostenibile.

Naturalmente, le delocalizzazioni rappresentano un danno per il Paese che le subisce ed un beneficio per quello che accoglie l’investimento. Le ragioni del fenomeno possono essere diverse. Spesso incidono il costo del lavoro, il livello di tassazione e gli incentivi pubblici a disposizione. Ma contano anche l’efficienza del sistema Paese, elementi di logistica e di organizzazione aziendale.

A volte il fenomeno avviene con modalità brutali, in spregio alla dignità dei lavoratori e della comunità in cui ha sede l’azienda. Ed è a questa “brutalità” che la politica vorrebbe porre rimedio, in modo da rendere l’uscita maggiormente indolore. Il problema, però, è che dalle buone intenzioni alle tendenze dirigiste il passo non è poi così lungo.

La bozza del decreto Orlando-Todde suscita una serie di perplessità. Entrare nel merito non è semplice, considerate le continue indiscrezioni e novità sulla stessa.

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Secondo il testo circolato, il decreto si rivolge a imprese che non sono in difficoltà economica, in quanto ad esse si applicano le norme sulla crisi impresa. I destinatari sono le aziende, di una certa dimensione, che hanno intenzione di chiudere un sito in Italia per ragioni diverse. L’impresa dovrebbe comunicarlo alle istituzioni, con almeno sei mesi di preavviso e in ogni caso prima dell’inizio della procedura di licenziamento collettivo. Entro un mese dalla comunicazione, l’azienda dovrebbe nominare (a sue spese, si immagina), un advisor, per intrattenere i rapporti con le istituzioni. Entro novanta giorni dalla comunicazione, l’impresa dovrebbe presentare un Piano che includa:

  1. – Azioni per la salvaguardia dei livelli occupazionali;
  2. – Prospettive di cessioni di azienda o di ramo di azienda;
  3. – Un percorso di reindustrializzazione per individuare potenziali acquirenti:
  4. – Proposte per eventuale riconversione del sito.

Il Piano verrebbe presentato alla Struttura per le crisi d’impresa, istituita presso Il MISE, con il coinvolgimento dell’ANPAL.

Sulle sanzioni, vi è ancora incertezza. In ogni caso, sembrerebbero prospettarsi delle sanzioni economiche dirette per chi non presenta il Piano o in caso di mancata approvazione dello stesso (questa seconda fattispecie sembrerebbe decaduta). Nonché altre sanzioni relative ad un divieto temporaneo di accedere a contributi pubblici (black list). Sembra che sia tramontata l’ipotesi di una sanzione pari al 2% del fatturato. Avanza invece l’idea di un inasprimento del contributo di licenziamento (fino a dieci volte).

Non si comprende se l’intenzione sia quella di colpire qualsiasi impresa o solo quelle che abbiano ricevuto contributi pubblici negli anni precedenti.

L’impianto presenta numerosi problemi. Considerata l’incertezza sul testo, ci si può limitare a fornire qualche consiglio generale.

  1. – Occorre prevenire un’inutile duplicazione della procedura di licenziamento collettivo. Si potrebbe intervenire sulla stessa legge, modificando i termini della comunicazione obbligatoria e dell’apparato sanzionatorio, anziché creare una nuova procedura.
  2. – Appare necessario inserire una distinzione per le delocalizzazioni verso altri stati membri dell’Unione europea. Ciò per evitare violazioni delle norme sul mercato unico.
  3. – Sugli aiuti pubblici, in primo luogo servirebbe capire a cosa si faccia riferimento, dato che la tipologia è estremamente variegata. In ogni caso, servirebbe che la politica imparasse ad erogarli con un giusto mix di obblighi e condizionalità (come già avviene nella gran parte dei casi), piuttosto che intervenire ex post tramite sanzioni con efficacia retroattiva.
  4. – Sarebbe comunque opportuno evitare delle sanzioni alle imprese per punire la mancata presentazione del Piano o, addirittura, per la mancata approvazione dello stesso.

Si tratta di punti che, probabilmente, sono già stati vagliati ed accolti dai ministeri competenti. In generale, però, è l’impianto di fondo che appare miope da un punto di vista politico.

In primis è difficile che si riesca a far cambiare idea ad una società con questa tipologia di deterrenti. Gli basterebbe includere nei costi di uscita anche questa ulteriore voce.

In secondo luogo, preoccupano invece gli effetti a monte di una tale novità normativa. Difatti, la stessa verrebbe valutata nel momento in cui un’azienda intenda investire nel nostro Paese. Alcune pulsioni protezionistiche che ogni tanto emergono nel nostro Paese, potrebbero essere valutate negativamente al momento della decisione sull’investimento. Negli ultimi tempi vanno molto di moda, ma occorre resistere alle tentazioni.   .

Purtroppo, la politica molto spesso fatica a comprendere la logica sottesa all’attività d’impresa. La libertà di apertura di un’iniziativa privata contempla anche la libertà di chiusura della stessa.

Sarebbe forse meglio che il Ministero dello Sviluppo economico si dedicasse maggiormente alla missione insita nel nome stesso del dicastero, piuttosto che fare il curatore fallimentare delle imprese in crisi. Ed il Ministero del Lavoro potrebbe invece lavorare sulla già esistente procedura di licenziamento collettivo anziché ideare nuove forme di dissuasione che appaiono inutili se non dannose.

Ecco il ruolo chiave di una politica all’avanguardia. Rendere l’ecosistema più favorevole all’attività di impresa, piuttosto che arroccarsi di continuo su battaglie che non si possono vincere. Senza dimenticare gli effetti sui lavoratori che subiscono inermi le decisioni dall’alto, ovviamente. Su quest’ultimo aspetto, si segnala il recente atto di indirizzo del Ministro Giorgetti, che ha l’obiettivo di favorire l’assunzione di lavoratori che hanno subito delocalizzazioni e licenziamenti collettivi.

Le minacce servono a poco in questi casi. Meglio ragionare su come spendere con parsimonia le risorse pubbliche per evitare di elargire fondi a chi non ha interesse ad investire in Italia nel lungo periodo.

Twitter @frabruno88