La fuga dei ricchi dalla grande città aumenta la diseguaglianza

scritto da il 14 Settembre 2021

Poiché siamo in un momento di transizione, della quale sono ancora molto incerti gli esiti, vale la pena dedicare un po’ di tempo all’osservazione di un fenomeno recente incoraggiato dalla pandemia – il calo della domanda di immobili nei grandi centri a vantaggio di quelli nei piccoli – che contribuisce ad aggravare  una delle ossessioni del nostro tempo: la diseguaglianza.

Lo spunto ce lo forniscono un paio di osservazioni molto interessanti. La prima, prodotta dalla Bis di Basilea nell’ambito della sua ricognizione statistica sugli andamenti dei prezzi immobiliari, conferma una lunga serie di conclusioni alle quali sono arrivate diverse banche centrali e alcuni osservatori di settore. Quindi i prezzi salgono insieme alle compravendite, ma in molti paesi più nelle aree esterne alle grandi città che nei grandi centri. Come se fosse in corso una sorta di esodo, incoraggiato dalla pandemia e dallo smart working.

Pur evitando conclusioni affrettate, la Bis scrive che “evidenze aneddotiche suggeriscono che la domanda di abitazioni possa essersi spostata verso le aree sub-urbane e rurali, via dalle grandi città, durante la pandemia, riflettendo l’impatto di alcuni fattori. I dati preliminari suggeriscono che questo spostamento inizia a riflettersi in termini di differenze fra gli sviluppi dei prezzi in alcuni paesi”. Il grafico sotto da un’idea di questi sviluppi.

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L’inflazione dei prezzi del mattone, insomma, è stata meno pronunciata nelle grandi città rispetto alle aree esterne. Sui 21 paesi osservati, tale tendenza è confermata in 11 capitali/grandi città, mentre in altre cinque è accaduto il contrario. Si tratta quindi di un’evidenza sfumata. Ma definita abbastanza da meritare un approfondimento.

È interessante notare che queste tendenze di breve periodo sono molto diverse da quella di medio-lungo, che si possono osservare dal grafico sotto.

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In Olanda, ad esempio, dal 2019 i prezzi sono saliti più nelle aree esterne che nelle grandi città, al contrario di quanto accaduto nel decennio iniziato nel 2010. Insomma: è iniziata una tendenza, ma non è affatto detto che duri.

Come abbiamo già osservato, le forze che sostengono la congestione nella grandi città, che è uno dei vettori che favoriscono la rendita, sono all’opera. Basta pensare al dibattito in corso nel nostro paese sullo smart working. Chi difende il lavoro in ufficio con l’argomento che produce anche reddito a baristi e ristoratori delle zone direzionali, finisce con l’incoraggiare anche la rendita del settore immobiliare. Ciò per dire che non è mai semplice definire gli interessi economici, e che può essere molto fuorviante identificarli seguendo un principio di classi sociali o di reddito.

Questo ci porta alla seconda osservazione, che arriva da uno studio recente del Nber dedicato agli effetti del lavoro da remoto nelle città americane. L’analisi ci riporta al discorso centrale: la questione della diseguaglianza. Gli autori hanno osservato che le città a maggiore densità abitativa sono le stesse che esibiscono una quota più elevata di lavoratori ad alta specializzazione (high-skill), che poi sono gli stessi che hanno più probabilità di fruire dello smart working.

La tendenza osservata nel corso della pandemia conferma questa potenzialità. “Molti addetti ai servizi altamente qualificati hanno iniziato a lavorare da remoto – scrivono -, sottraendo la loro spesa dalle industrie dei servizi al consumo delle grandi città che dipendevano dalla loro domanda”.

Un esito da non sottovalutare. Questi servizi, infatti, – classicamente la colazione al bar la mattina, o il parrucchiere – venivano in larga parte prodotti dai lavoratori low-skill impiegati nelle grandi città, che di conseguenza “hanno dovuto farsi carico del recente impatto economico prodotto dalla pandemia”.

Per dirla diversamente, il banconista di un bar del centro, che non può certo lavorare da remoto, si è trovato non solo a dover fare i conti col lockdown, che l’ha privato del reddito, ma ha dovuto fare fronte anche alle spese per continuare a vivere nella grande città, di certo ben superiori a quelle di un piccolo centro.

Questo spiega perché gli autori dello studio parlino di “ampie implicazioni per le conseguenze distributive nella transizione dell’economia verso il lavoro da remoto”. Il rischio, insomma, è che si amplino ancora di più le differenze. Da una parte i lavoratori qualificati, che possono scegliere di vivere lontano dalla congestione, godendo persino di un miglioramento della loro situazione reddituale – basta considerare il risparmio che deriva dall’azzeramento degli spostamenti – dall’altra i meno qualificati, alle prese con redditi declinanti, nel contesto molto costoso della grande città.

Questo scenario è stato elaborato per gli Usa, ma basta scorrere le nostre cronache recenti per notare la somiglianza con le dinamiche di casa nostra. I servizi low-skilled nelle grandi città italiane hanno subito un duro colpo a causa della pandemia che ha contribuito ad allargare la forbice della diseguaglianza dei redditi.

La “dipendenza” individuata dai ricercatori americani dei lavoratori poco qualificati dai redditi di quelli molto qualificati non è certamente solo un fenomeno Usa. La grande città prospera in questa interdipendenza. Solo che la tecnologia ha creato un’alternativa. Adesso gli high-skill possono lavorare da remoto, e vivere benissimo, al contrario dei low-skill.

In questo scenario se il governo vuole agire in chiave redistributiva può scegliere fra usare la leva fiscale a vantaggio dei lavoratori poco qualificati – i classici bonus – o semplicemente riportare nei loro uffici gli high-skill. Che poi è quello di cui stiamo discutendo adesso. Che lo facciano i privati è da vedersi. Ma questa è un’altra storia.

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