Disuguaglianze e lavoro: i fallimenti della lettura economica convenzionale

scritto da il 24 Settembre 2021

Articolo di Riccardo D’Orsi, assegnista di dottorato e assistente all’insegnamento presso la Divisione Economica dell’Università di Leeds, analista di Kritica Economica.

La pandemia da Covid-19, ma già prima di essa la crisi finanziaria globale e la prolungata stagnazione successiva, hanno messo a nudo tutte le fragilità del paradigma liberale contemporaneo nelle sue declinazioni socio-politiche ed economiche. Le istanze espresse a più riprese dalla società civile evidenziano la necessità di un cambiamento profondo in ciascuno di questi ambiti, sebbene ad oggi gli istinti reazionari sembrino prevalere, perlomeno in Europa, e spingere gli equilibri di potere cristallizzatisi negli ultimi quarant’anni verso un ulteriore consolidamento. Ascrivendo la diffusa precarietà esistenziale e sofferenza popolare a un fenomeno isolato dovuto alla scarsa propensione di pochi alla “resilienza”, ovvero all’adattamento creativo a una società di mercato in continuo mutamento, il restaurazionismo dei nostri giorni garantisce il clima ideale per la proliferazione di estremismi di segno opposto. Entrambe le risposte non risultano però all’altezza delle sfide dei nostri tempi: la prima poiché, ideologicamente improntata alla cieca idolatria del Mercato, sottovaluta inevitabilmente le sofferenze diffuse della società globalizzata; la seconda in quanto, sebbene intercetti il sentimento di rabbia sociale diffuso, manca di una dimensione costruttiva indispensabile allo sviluppo di un paradigma alternativo.

Cercando di rispondere a tali esigenze, il presente contributo individua nella riscoperta della teoria economica critica e nell’attualizzazione delle sue prescrizioni il principale vettore di affermazione di un nuovo orizzonte di giustizia sociale. Partendo dall’esposizione delle traiettorie storiche degli ultimi decenni riguardanti la distribuzione del reddito e il mercato del lavoro, con particolare attenzione al caso italiano, ripercorriamo le principali spiegazioni avanzate dalla teoria economica convenzionale[1], alla base della visione politica portata avanti dalla fine degli anni ‘70. Dopo aver evidenziato la scarsa attinenza empirica delle interpretazioni avanzate dagli economisti convenzionali, esaminiamo i fondamenti dell’economia critica[2] sottolineando come molti dei processi in questione trovino in essa una lettura coerente. In ultimo, ripercorriamo le dinamiche che hanno portato all’affermazione della teoria economica convenzionale malgrado la sua scarsa attinenza empirica. Evidenziando come alla base della prevalenza di determinati paradigmi scientifici vi siano specifici interessi materiali e conflitti egemonici di classe, individuiamo nella diffusa riscoperta della teoria economica critica sullo sfondo di un denso attivismo sociale lo strumento essenziale per il perseguimento di politiche economiche più coerenti nella teoria e più sostenibili nella prassi.

 

Distribuzione del reddito e mercato del lavoro: le traiettorie storiche

Le traiettorie della distribuzione dei redditi rivelano una preoccupante tendenza alla polarizzazione delle retribuzioni nella quasi totalità del mondo occidentale, sia pur in grado diverso. Nel 2019, il 10% degli americani deteneva il 45,5% del reddito nazionale, mentre nelle principali economie europee la quota oscillava tra il 32% e il 38% (figura 1). Ad un andamento tanto eccezionale delle retribuzioni più alte è corrisposta una opposta tendenza dei redditi più bassi. Nel caso italiano, nello stesso anno il 50% della popolazione deteneva soltanto il 20% del reddito nazionale (figura 2).

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Larga parte di queste dinamiche riflettono i processi in atto sul mercato del lavoro. L’andamento dei salari reali italiani rispetto a quello della produttività è abbastanza esaustivo da questo punto di vista (figura 3). Dopo un lungo periodo in cui questi sono cresciuti quanto e più degli incrementi di efficienza del processo produttivo, a partire dalla fine degli anni ‘70, assistiamo ad una stagnazione dei redditi da lavoro, che cessano di aumentare di pari passo con la produttività[3]. La difficoltà della classe lavoratrice italiana è ulteriormente catturata dalle statistiche sulla disoccupazione (figura 4). Mentre fino alla prima metà degli anni ‘70 questa è oscillata tra un minimo del 3,6% e un massimo del 6%, il tasso di disoccupazione si è da allora strutturalmente innalzato visibilmente, fino a raggiungere il picco del 12,7% nel 2014, nonostante la definizione piuttosto ampia che si è teso a dare alla categoria degli “occupati”[4].

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Lavoro e disuguaglianze nella teoria economica convenzionale

Il dibattito economico sui principali mezzi di informazione è appiattito sulle posizioni proprie della teoria convenzionale. Questa è progressivamente penetrata nelle università e negli ambienti istituzionali a partire dalla fine degli anni ‘70 sull’onda della controrivoluzione neoliberale, finendo per condizionare indirettamente il senso comune di larga parte della popolazione. Da anni, in Italia, i macroscopici conflitti di interesse nell’informazione continuano ad alimentare questa tendenza[5], sterilizzando lo spirito critico di chi, quando tratta di temi economici, raramente entra nel merito delle questioni e mette a confronto opinioni disparate. Poiché però l’architettura istituzionale dell’intera Eurozona non è giustificabile se non alla luce dell’approccio convenzionale alla teoria economica, è opportuno approfondirne i concetti portanti.

L’elemento cardine che regge l’impianto teorico convenzionale consiste nella convinzione che l’economia di mercato tenda naturalmente verso la piena occupazione dei fattori produttivi esistenti (capitale e lavoro). Tale tendenza si baserebbe essenzialmente su due presunti meccanismi: le relazioni inverse tra salario e occupazione, da un lato, e tra tasso di interesse e investimento, dall’altro. La peculiare interpretazione riservata all’interazione tra queste variabili ha implicazioni ben chiare per la lettura dei processi in atto sul mercato del lavoro e sul piano distributivo e le rispettive prescrizioni di politica economica.

Partendo dalle prime, l’impostazione convenzionale porta a caldeggiare soluzioni volte alla flessibilizzazione dei contratti lavorativi e dei salari al fine di favorire il raggiungimento della piena occupazione. Vengono inoltre portati a sostegno di tali misure gli argomenti per cui una maggiore flessibilizzazione del mercato del lavoro determinerebbe una più alta competitività internazionale dei beni prodotti e una maggiore attrattività nazionale sulle imprese grazie ai costi di produzione più contenuti. A sostegno di questa tesi, si adduce ad una presunta miglior efficienza del processo produttivo per mezzo della maggior disciplina dei lavoratori connessa alla persistente possibilità del licenziamento.

Venendo ora al tema della distribuzione del reddito, la teoria economica convenzionale considera la remunerazione una risultante della legge di domanda e offerta che rifletterebbe la scarsità delle capacità richieste dalla mansione in questione rispetto ai bisogni dei consumatori. Il conflitto politico tra capitale e lavoro viene in questo modo sterilizzato, indicando nell’intromissione di corpi intermedi a garanzia delle parti, come sindacati e istituti regolatori, un fattore di distorsione. Contestualizzando in termini pratici quanto detto, mentre l’introduzione di un salario minimo che garantisca la sussistenza dei lavoratori contro lo sfruttamento viene considerato un ostacolo alla concorrenza, le retribuzioni multimilionarie dei manager testimonierebbero l’eccezionalità del loro talento, e dunque andrebbero lasciate intatte. Abbracciando tale impostazione, la teoria dominante spiega i cambiamenti delle quote distributive tra capitale e lavoro adducendo all’eccezionalità delle dinamiche del nostro tempo. Nello specifico, per giustificare la stagnazione dei salari reali, che avrebbero dovuto crescere di pari passo con gli incrementi di produttività dovuti al progresso tecnico (figura 3), gli economisti convenzionali si appellano ai cambiamenti determinati dalla globalizzazione, che avrebbero comportato una richiesta di lavoro sbilanciata verso la manodopera qualificata e svantaggiato i lavoratori non formati per via dell’abbondanza di questi ultimi nelle economie emergenti.

 

Le tesi economiche convenzionali alla prova empirica

Gli insuccessi alla prova empirica collezionati dalla teoria economica convenzionale negli ultimi quarant’anni avrebbero portato ad un suo integrale abbandono in qualunque contesto ove una dialettica scientifica pluralista fosse operante. Nonostante ciò non sia avvenuto, l’entità e frequenza di questi fallimenti, suggellate dalla crisi finanziaria globale, sono state comunque tali da spingere molti degli economisti appartamenti all’ala più pragmatica del paradigma convenzionale a rivedere criticamente diverse delle conclusioni più estreme associate alla loro impostazione teorica[6]. Nondimeno, le personalità del dibattito politico europeo paiono faticare ad abbandonare integralmente posizioni economiche sempre più fuori dal tempo[7].

Riguardo al mercato del lavoro, i dati relativi all’Italia (figure 3 e 4), ma anche all’Eurozona nel suo complesso, testimoniano che alla caduta del costo del lavoro è associato un aumento del tasso di disoccupazione, questionando uno dei meccanismi fondamentali alla base dell’impianto economico convenzionale. Guardando poi nello specifico alla relazione tra flessibilità del mercato del lavoro e occupazione, i principali istituti di ricerca internazionale confermano l’assenza di una relazione significativa[8]. Per quanto concerne la produttività, i dati italiani indicano che proprio nel momento in cui si sono avviate misure volte alla flessibilizzazione del mercato del lavoro[9] a partire dagli anni ‘90, questa ha cominciato a stagnare, assecondata dal precedente arresto della crescita dei salari reali (figura 3).

Nel caso della distribuzione del reddito, le argomentazioni della teoria dominante che enfatizzano il ruolo della globalizzazione nell’indirizzare i processi di polarizzazione si scontrano con l’evidenza empirica per cui le divergenze tra lavoro qualificato e dequalificato si sono registrate anche nei paesi in via di sviluppo, dove il secondo avrebbe invece dovuto beneficiare della maggiore richiesta di manodopera secondo i modelli convenzionali di libero commercio (Krugman et al., 2018). Inoltre, il crollo dei redditi anche di larga parte dei lavoratori qualificati a fronte di un crescente arricchimento di un piccolo gruppo di persone, affiancato dalle spiccate differenze nelle esperienze di distribuzione del reddito dei paesi industrializzati, suffragano la mancanza di supporto empirico alla tesi sostenuta dall’impostazione dominante, come ammesso da esponenti illustri di quel campo (Krugman, 2009, p. 131; Stansbury & Summers, 2017). Fallaci risultano anche le argomentazioni per cui le remunerazioni lavorative rifletterebbero necessariamente il talento (Piketty, pp. 334-335).

 

Lavoro e disuguaglianze nella teoria economica critica

Le evidenze empiriche di cui sopra trovano una spiegazione teorica coerente nell’impostazione economica critica. Questa ha esercitato una considerevole influenza nel determinare l’assetto economico occidentale post-bellico, garantendo un periodo di prosperità diffusa conosciuto come “età d’oro del capitalismo” (Marglin & Schor, 1991), per poi divenire sempre più minoritaria sia nelle istituzioni politiche che universitarie con l’intensificarsi della controrivoluzione neoliberale. Essa trova i suoi principali riferimenti nei lavori di Keynes, Kalecki, Robinson, Kaldor, Sraffa, Smith, Ricardo e Marx.

Il fondamento della teoria economica critica è il rifiuto della tendenza alla piena occupazione, e dunque l’affermazione di una predisposizione cronica del capitalismo al sottoutilizzo dei propri fattori produttivi (Keynes, 1936). Tale credenza è sostanziata dalla scarsa rilevanza dei meccanismi economici che secondo la teoria dominante dovrebbero assecondare il raggiungimento dello stato ottimale di pieno impiego, ovvero le relazioni inverse salario-occupazione e interesse-investimento[10], e dall’affermazione del principio della domanda effettiva. Secondo questa prospettiva, il livello di produzione è guidato dalla domanda di beni e servizi, che dunque necessita di stimoli periodici per scongiurare un esito di sottoutilizzo dei fattori disponibili. Ne consegue una profonda differenza interpretativa riguardo al ruolo dello Stato, colta pienamente dalle parole di Keynes (1926):

“Le cose da fare più importanti dello Stato non riguardano le attività che i singoli individui già svolgono, ma le funzioni che cadono al di fuori della sfera dell’individuo, le decisioni che, se non assume lo Stato, nessuno prende. Importante per il governo non è fare le cose che gli individui stanno già facendo, e farle un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare le cose che al presente non vengono fatte per niente”.

Un’impostazione economica di questo tipo, chiaramente, porta a prescrizioni di politiche del lavoro profondamente diverse da quelle perseguite negli ultimi decenni. Poiché la diminuzione dei salari a favore dei profitti tende a ridurre la propensione al consumo della collettività, e dunque a deprimere la domanda aggregata di beni e servizi (Kaldor, 1956; Kalecki, 1969), l’effetto risultante sul livello di occupazione sarà precisamente l’opposto rispetto a quello predetto dalla teoria convenzionale. Siccome il livello di produzione si adeguerà infatti alla domanda, le imprese saranno incoraggiate ad assumere meno, e l’occupazione calerà. Non solo: uno stimolo insufficiente alla domanda aggregata si rifletterà negativamente sulla capacità innovativa dell’impresa, che non avrà stimolo ad investire in nuove tecnologie per sostenere un consumo di beni e servizi stagnante e potrà ridurre i costi ricercando un maggior sfruttamento dei lavoratori piuttosto che una miglior efficacia nelle tecniche produttive (Verdoorn, 1949; Kaldor, 1967). Per venire all’ultimo punto, la flessibilizzazione del lavoro non risulta dunque necessariamente in una maggior competitività internazionale. Quest’ultima dipende dal costo dei beni e servizi prodotti, che a sua volta è legato solo in parte al costo del lavoro, e ben più al tasso di cambio valutario e alla produttività delle imprese. Nel caso italiano, è possibile constatare come a seguito della politica di consolidamento fiscale perseguita insistentemente dagli anni ‘90 (Heimberger & Krowall, 2020), il livello di domanda aggregata abbia cominciato a divergere rispetto a quello dei partner europei (Perri, 2013), riflettendosi negativamente sulla produttività (D’Orsi, 2020), che da allora ha cominciato a stagnare (figura 3).

Venendo ora alla distribuzione del reddito, gli economisti critici partono dal riconoscimento di tre classi sociali con interessi contrapposti che competono reciprocamente per accaparrarsi una quota il più possibile ingente di prodotto sociale: i capitalisti, i salariati e i percettori della rendita. Ne consegue che gli esiti distributivi non saranno altro che un riflesso dei rapporti di produzione tra le diverse classi in un dato contesto storico[11]. La polarizzazione del reddito osservata negli ultimi decenni sarebbe dunque da ascrivere alle politiche economiche e ai mutamenti istituzionali avviati a partire dalla fine degli anni ‘70 sull’onda della controrivoluzione neoliberale, che avrebbero assecondato un crescente indebolimento dei lavoratori nei rapporti contrattuali con i datori di lavoro (Stockhammer, 2013). L’andamento del reddito del 10% degli americani più ricchi, opposto rispetto all’adesione sindacale, riflette plasticamente tale argomentazione (figura 5).

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Perché l’impostazione economica convenzionale ha prevalso nonostante i suoi fallimenti?

Vista la debolezza empirica e l’inconsistenza teorica dell’approccio economico convenzionale, verrà spontaneo domandarsi a quali fattori sia ascrivibile il suo successo. La risposta viene fornita da Thomas Kuhn, uno dei massimi sociologi della scienza del XX secolo. Nella sua opera più famosa, “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” (1962), viene osservato come il progresso “normale” della scienza altro non sia che il costante tentativo di trovare nuovi sviluppi e applicazioni delle stesse pratiche e credenze sulla base della fede dogmatica che queste siano corrette. Ne consegue che, ogni qualvolta emergesse un contro-argomento al paradigma egemonico, questi verrebbe ricondotto nell’alveo della teoria dominante, o ignorato dalla comunità scientifica, fino al momento in cui un nuovo sistema teorico soppianti il precedente.

I motivi che assecondano la dialettica scientifica possono comunque essere tutt’altro che razionali e scientificamente fondati, e piuttosto legati a elementi di natura storico-sociale. Nel caso della teoria economica, queste forze si sono dispiegate con l’obiettivo di fornire una visione apologetica dell’economia di mercato, mobilitando finanziamenti volti a premiare contributi scarsamente utili dal punto di vista della comprensione dei fenomeni reali, ma funzionali al fine di cui sopra[12]. Tali pratiche vengono spesso nascoste dietro il velo retorico della misurazione oggettiva del merito[13], che ha in realtà come unica risultante l’emarginazione delle posizioni critiche dal dibattito accademico, finendo per alimentare un conformismo intellettuale incapace di far fronte alle sfide della modernità.

Alla luce di quanto detto, l’affermazione di un orizzonte politico più coerente con gli obiettivi di giustizia sociale non può prescindere dalla riscoperta del pensiero economico critico. Keynes concludeva la sua opera più famosa osservando come “presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, a essere pericolose nel bene e nel male” (1936). Da questo punto di vista, risulta quanto mai essenziale assecondare la dialettica scientifica attraverso un finanziamento pubblico incondizionato alla ricerca e all’insegnamento che sia in grado di tutelare l’autonomia di pensiero di docenti, ricercatori e studenti. Tale misura potrebbe garantire il consolidamento dell’impianto teorico critico attraverso interpreti pronti ad attualizzarlo ove ve ne fossero le condizioni storiche. L’esperienza degli ultimi due secoli suggerisce però che specifiche impostazioni teoriche in campo economico si sono ciclicamente susseguite seguendo gli esiti del conflitto politico (D’Orsi, 2021). In tal senso, è ancor più essenziale ricercare una mobilitazione della cittadinanza attiva che sia in grado di spingere le istituzioni ad imprimere un cambio di passo rispetto all’ulteriore stretta reazionaria degli equilibri esistenti quale quella cui oggi assistiamo. I processi catastrofici della nostra epoca, alcuni dei quali affrontati in questo articolo ed affiancati da molti altri di diversa natura, in primis l’imminente catastrofe climatica, sembrano indicare che i tempi sono ormai maturi.

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Riferimenti

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Note

[1] Conosciuta anche come teoria Neoclassica (in accezione ampia), viene spesso identificata con gli aggettivi “ortodossa”, “mainstream”, “dominante”, “marginalista”.

[2] Conosciuta anche come teoria Post Keynesiana (in accezione ampia), viene anche indicata con l’aggettivo “eterodossa”. Per approfondire i concetti trattati, qui per forza di cose esposti sinteticamente, si vedano Cesaratto (2019) e Stirati (2020).

[3] Si noti, peraltro, che i dati sui redditi da lavoro sono viziati dall’inclusione degli stipendi multimilionari dei CEO, inflazionati a seguito della finanziarizzazione. Escludendo tali retribuzioni dalla variabile, l’andamento dei salari reali risulterebbe ancor più anemico (cfr. Hein & Mundt, 2012).

[4] Si noti che nella sua definizione più estesa, che include la categoria dei “sottoccupati” e quella degli “occupati con part-time involontario”, il tasso di disoccupazione italiano risulta raggiungere picchi di oltre il 30% (Zezza, 2017).

[5] Si veda, a scopo esemplificativo, la scarsa visibilità riservata all’appello contro l’austerità cofirmato nel 2012 da centinaia di economisti italiani.

[6] Si vedano, in questo senso, i lavori dei Premi Nobel Joseph Stiglitz e Paul Krugman, di Olivier Blanchard, ex capo del Fondo Monetario Internazionale, nonché di Larry Summers, ex Segretario al Tesoro americano.

[7] Si veda, ad esempio, la recente uscita di Schäuble (2021) a favore di un ritorno europeo alle politiche di austerità, nonostante il loro manifesto fallimento.

[8] Si vedano a questo proposito i recenti rapporti della Banca Mondiale (2013) e del Fondo Monetario Internazionale (2016).

[9] Si vedano, in particolare, l’annullamento della scala mobile nel 1992, le riforme Treu del 1997 e Biagi del 2003, fino all’annullamento dell’articolo 18 con il recente ‘Jobs Act’. Per una ricostruzione approfondita di tali vicende, cfr. Levrero & Stirati (2006) e Stirati (2015).

[10] Relazioni che, vista la scarsa attinenza empirica, vengono oggi questionate da diversi esponenti critici dello stesso paradigma dominante, come Krugman (2014).

[11] La determinazione esogena del salario reale come variabile legata al conflitto distributivo tra capitale e lavoro è presente insistentemente in Marx (1867), ma ancor prima di lui, nell’autore liberale classico Ricardo (1817).

[12] Eloquenti risultano in questo senso, tra i tanti, gli scritti di Pasinetti (2000) e Roncaglia (2017, p. 616), due dei massimi economisti critici italiani del XX secolo.

[13] Si veda come esempio di tale pratica il recente articolo di Boeri e Perotti (2021) sull’allocazione dei finanziamenti alla ricerca. Per una critica ai sistemi di valutazione improntati su tale impostazione, si veda la nota pubblicata su Economia e Politica (2021).