La verità, vi scongiuriamo, sul neoliberismo nell’università

scritto da il 07 Ottobre 2021

Post di Matteo Hallissey, Matteo Fatale, Giulio Anichini. Con la collaborazione di Nazareno Lecis

“In un mondo in cui ogni giorno si alzano nuovi muri e lo scontro politico si fa sempre più acceso, un nemico comune unisce destra e sinistra, populisti e democratici, reazionari e progressisti. Che siano le aziende a delocalizzare, l’ ‘immigrazione selvaggia’, la precarietà del lavoro o il diffondersi del virus Ebola, il libero mercato, il capitalismo o, nella sua definizione più abusata, il ‘neoliberismo’ è il capro espiatorio perfetto per tempi confusi, l’elefante nella stanza che tutti, quando ce n’è bisogno, additano”

Alberto Mingardi, La verità, vi prego, sul neoliberismo

Abbiamo bisogno di nemici lontani, astratti, a cui affidare qualsivoglia problema della nostra realtà. Si è già parlato ampiamente nelle scorse settimane della critica di tre studentesse alla presunta impostazione neoliberista della Normale di Pisa e, più in generale, del sistema universitario – e non solo – italiano. Il discorso delle tre neodiplomate alla cerimonia di consegna dei diplomi è stato ripreso su Valigia Blu da Ignazio Ziano, che a sua volta risponde alla controcritica di Claudio Giunta su Il Post, il quale evidenzia l’inconsistenza e la superficialità di alcune delle critiche mosse dalle tre studentesse.

Del discorso si è parlato fino allo sfinimento, ed è per questo che preferiamo concentrarci sulle parole di Ignazio Ziano e delle controcritiche da lui proposte. Primo tra tutti, si riprende il problema della competizione e della non cooperazione: bisogna un attimo stare con i piedi per terra e guardarsi in faccia mentre si parla. L’ambiente universitario d’eccellenza è tale solo perché, grazie alla competizione, solo i migliori riescono ad accedere. Nulla vieta di cooperare, ma pensare di poter rendere tutti vincitori è chiaramente una fantasia di un mondo dove ci vogliamo tutti bene e dove le persone non agiscono secondo i propri interessi (ci torniamo più giù). Fantasia, infatti.

Segue poi il problema, importantissimo e in cima alla lista dei mali di questo paese, dello scarso finanziamento all’università che ci pone agli ultimi posti nei Paesi OCSE. Emblema di questa questione è la decrescita del numero di dottorati, frutto di un duplice motivo: tagli alla spesa fatti nell’ultimo decennio e, omesso nell’articolo, scarsa attitudine del mercato del lavoro ad assorbirli. Infatti, non siamo tra gli ultimi solo nella spesa universitaria, ma anche nell’attrazione di lavoro altamente qualificato.

Qualora il nostro autore si fosse fermato qui, avrebbe elencato una serie di mali del nostro paese assolutamente condivisibili e su cui iniziare a discutere con un’urgenza prioritaria. Ma così non è stato. L’articolo è pieno zeppo della parola “neoliberismo”, che si conta quasi 30 volte: questa corrente di pensiero creata, secondo lui, da Milton Friedman, dalla sua nascita ha cambiato la mente delle persone, inducendole ad agire in un modo rispetto che in un altro. Va bene, modi di vedere il mondo e la storia. Meno bene però quando ci si dilunga su strambe teorie economiche e si incolpa dei tagli di bilancio post crisi dei debiti sovrani, e quindi del taglio della spesa universitaria, il pareggio di bilancio e la necessità di rientrare del deficit accumulato. È veramente colpa di questi cattivi strumenti del neoliberismo?

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Facciamo un passo indietro. La crisi del 2010-2011 ha visto un sistema bancario al collasso, una caduta verticale della produzione e un aumento conseguente della disoccupazione. Il bilancio dello stato, quindi, è andato ampiamente in deficit per evitare una crisi ancora più profonda, difendendo i cittadini con un aumento della spesa in sicurezza sociale. Chiaramente, data la caduta di base imponibile, è stato necessario prendere a prestito questo denaro aumentando il debito pubblico. Questo denaro addizionale esiste solo grazie ad una cosa: la fiducia che gli investitori hanno riposto nello stato italiano di ripagare questo debito una volta arrivato a scadenza. Arriva quindi un momento in cui bisogna rientrare del deficit accumulato, soprattutto se ampio e prolungato.

È tutta qui la questione. Imputare al neoliberismo e, successivamente, al monetarismo friedmaniano il pareggio di bilancio è un errore molto pericoloso. Viene sottinteso che basterebbe pensarla diversamente ed ecco allora che questi problemi non sussisterebbero più. Ricordiamoci che il neoliberismo non c’entra assolutamente nulla. Il pareggio di bilancio è imposto da una forza molto più potente: si chiama aritmetica. Chi governa decide, dato il vincolo aritmetico di lungo periodo, come spendere e come tassare. Se decidete di aumentare le pensioni dovete aumentare le tasse e tagliare le spese. Oppure, nel breve periodo, potete indebitarvi, ma nel lungo periodo no. I debiti vanno pagati. Tutto questo per dire cosa? Che l’autore non ha ben chiari alcuni concetti base di finanza pubblica, ma ancor di più non ha la minima idea, neanche lontana, di cosa sia il monetarismo.

Ma non finisce qui. Nelle righe successive si critica l’operato della banche centrali, in quanto questa visione politica (?) imporrebbe di non creare moneta oltre una certa quantità (?) decisa da alcuni economisti, perché altrimenti poi scatta l’inflazione. Vincolo venuto meno, a sua detta, grazie alla covid-19 – visto che ormai lo spread non interesserebbe più e le banche avrebbero iniziato a “stampare moneta a tutto spiano”. Questo è un discorso molto tecnico al quale rimandiamo la spiegazione: teniamo solo a sottolineare la totale estraneità dell’autore agli aggregati monetari e al fatto che no, le banche centrali non stampano moneta dal nulla né a caso. Bisogna ricordarsi che l’asset più di valore di una banca centrale non è la sua dipendenza dallo stato, e quindi dal partito politico di turno, ma la sua credibilità. Quindi, da ciò che abbiamo imparato oggi, dato che la banca centrale non può finanziare direttamente il governo (si parla di monetizzazione del debito pubblico) allora esso è costretto a tagliare la spesa pubblica. Un articolo dai contenuti simili in cui ci eravamo già imbattuti si intitola “Quando i soldi finiscono si stampano”.

A questo punto è utile elencare alcuni dei paesi che monetizzano il debito in parte o sistematicamente: Turchia, Venezuela, Zimbabwe, Argentina. Lasciamo al lettore il divertimento di osservare la situazione economica di questi paesi e di giungere da solo alla conclusione che la monetizzazione forse è più un danno che altro. A meno che non si voglia arrivare a non avere nemmeno più la carta per stampare moneta o ci si diverta a possedere in tasca banconote che valgono meno della carta igienica, come accade in Venezuela.

E non si pensi al Giappone: basta un minimo di buon senso per studiare e comprendere che no, non finanzia la spesa pubblica con emissione di moneta e non è minimamente comparabile con il nostro paese. Le politiche monetarie, in particolare della Banca Centrale Europea, vengono da decenni di storia ed esperimenti. Anzi, molti dei modelli interni sono opera di neo-keynesiani – altra dimostrazione che non si ha la minima idea dell’argomento su cui si scrive. Ancora una volta, basterebbe pensarla diversamente per l’autore ed ecco che avremmo i soldi necessari per fare tutto.

Poi però viene ripreso il discorso del debito pubblico arrivando da un’altra direzione: la critica ai lavori di Rogoff & Reinhart sulla correlazione tra debito e crescita, viziati da una serie di errori metodologici e alquanto banali. Ziano si dimentica di come negli ultimi dieci anni la letteratura sia andata avanti, anche grazie a Panizza & Presbitero, dimostrando come effettivamente la correlazione negativa tra debito e crescita ci sia, ma il nesso causale sia più difficile da determinare rispetto a quanto inizialmente dedotto.

A questo punto quale sarebbe la soluzione dell’autore? Naturalmente alzare le tasse ai ricchi, così da raccogliere la bellezza di centinaia di miliardi di gettito. Ecco nuovamente il riemergere del modello modello superfisso di bruschiana memoria, secondo cui si dà per scontato che cambiando le regole del gioco i partecipanti non cambino modo di giocare. Come se, alzando ancora di più le tasse in un paese con tasse già sproporzionate, le aziende e gli individui non inizierebbero a produrre di meno, non cambierebbero abitudini di consumi e investimenti, ma soprattutto i capitali non uscirebbero dal paese, impoverendoci ulteriormente. Ma poi, scusateci, chi sono i “ricchi” in Italia? Una conoscenza base della contabilità nazionale dimostra comunque che, aumentando le tasse da una parte, avrai meno crescita dall’altra e quindi meno base imponibile.

Ziano prosegue affermando che i tagli alla spesa sono colpa di una cosa chiamata “austerità” (ma non era il neoliberismo prima?). L’austerità impone, secondo l’autore, il taglio della spesa pubblica, per non si sa quale ragione. Autori di rilevanza internazionale, come Alesina, Favero e Giavazzi, hanno pubblicato studi decennali sull’austerità, riassunti nel loro ultimo libro uscito nel 2019, con una frase iniziale: “Se i governi adottassero misure di bilancio sostenibili nel lungo periodo e non volte all’aumento della spesa pubblica senza ragionevoli motivi, allora non ci sarebbe mai bisogno dell’austerità”.

Quindi la definizione precisa in questo senso si esaurisce come: austerità è quando il bilancio pubblico diventa insostenibile e quindi è necessario, per evitare il default, tagliare la spesa pubblica o aumentare le tasse per riacquistare la credibilità verso gli investitori e ritornare su un sentiero di sostenibilità e crescita. L’evidenza empirica dimostra come i tagli alla spesa pubblica siano ottimali rispetto ad un aumento delle tasse, in quanto meno spesa pubblica oggi equivale a meno tasse domani, e quindi maggiori investimenti.

Ci sono settori strategici, tra cui quello dell’istruzione e della ricerca, però, in cui è fondamentale investire. I tagli di spesa pubblica in istruzione o ricerca non sono scelte più o meno neoliberiste, ma semplicemente decisioni miopi di chi ci ha governato. Non è stata la cattiva austerità o la “neoliberistissima” Unione Europea a costringerci a tagliare la spesa in istruzione, ricerca e sviluppo, anzi, la stessa Strategia Europa 2020, elaborata dall’UE in seguito alla crisi economico-finanziaria che ha investito l’intera Europa a partire dal 2008, ci suggeriva di investire una quota pari al 3% del PIL in Ricerca e Sviluppo, oltre che portare il tasso di abbandono scolastico sotto il 10% e il tasso di persone con un’istruzione universitaria tra i 20 e i 34 anni sopra il 40% a livello europeo. Due dei cinque obiettivi fondamentali per le strategie europee del decennio passato, il periodo “incriminato” secondo l’autore, erano quindi proprio legate a ricerca ed istruzione.

A spiegare come il taglio della spesa per l’educazione sia stato un errore italiano e non una scelta condivisa da tutti i paesi europei a causa della cattiva austerità imposta dall’UE è l’attuale ministro dell’istruzione, Patrizio Bianchi. Non proprio un pericoloso neoliberista.

“Il taglio delle risorse all’istruzione avviene nella difficile fase di uscita dalla crisi del 2008-9, che coincide in tutti i paesi con la riorganizzazione produttiva e con il passaggio tra le tecnologie 3G e 4G, che ha ridisegnato il mercato a livello globale e determinato i riposizionamenti competitivi nella nuova industria, centrata sull’emergere di nuove competenze e nuovi saperi. Mentre in Germania si affrontavano la crisi e il rilancio dell’economia investendo in educazione, in Italia si tagliava sull’istruzione, mantenendosi poi per anni su un livello di sussistenza. Qui si colloca la radice del ritardo italiano”.

Sempre Bianchi fa notare come la spesa per l’educazione in totale in Italia fosse pari al 9,2% del PIL nel 2009, abbassatasi poi all’8,4% nel 2012 e scesa al 7,81% nel 2016. Nello stesso periodo uno stato come la Germania passava dal 10,19% del PIL investito in educazione nel 2009 all’11,03% nel 2012, assestandosi al 10,93% nel 2016. Il fatto che la media europea sia sopra il 10%, mentre l’Italia resta fanalino di coda, ci indica come questo ritardo del nostro paese non sia dovuto ad altro che a scelte sbagliate compiute in complicati momenti di transizione dove bisognava spingere su settori fondamentali come l’istruzione e la ricerca e sviluppo. Cosa che non è stata fatta. In questo grande errore tutto italiano non c’entrano né neoliberismo né austerità o Unione Europea.

Ci piacerebbe domandare a tutti coloro che, più in generale, additano il neoliberismo come grande male dell’Italia: sono più neoliberisti gli occhiali e le dentiere gratis promesse dai governi Berlusconi oppure l’enorme debito che ci ritroviamo oggi? È più neoliberista il deficit sempre negativo da quarant’anni oppure la metà del PIL in spesa pubblica? I miliardi persi in Alitalia o le migliaia e migliaia di aziende controllate dallo stato senza messa a gara? il total tax rate al 59% o il 68esimo posto al mondo nell’indice di libertà economica? Per non parlare poi delle misure neoliberiste per eccellenza, le più recenti Quota 100 e reddito di cittadinanza.

Vorremmo quindi sottolineare come sia necessario studiare a fondo le questioni e non fermarsi alle teorie che sembrano più facili e che confermano la nostra ideologia pregressa, invitando con gentilezza e amicizia l’autore Ignazio Ziano ad una chiacchierata con noi in modo da poter chiarire questa serie di punti. In fondo il liberale, diceva già Popper, è una persona a cui importa più di imparare che di avere ragione.

C’è poi un ultimo argomento da affrontare, volendo il più importante riguardo al problema di partenza: cosa c’entra, realmente, la polemica sul neoliberismo con l’università? Per rispondere a questa domanda pensiamo sia interessante un esercizio di stile fittizio per venire incontro agli autori della polemica in questione. Facciamo pure finta che i mali dell’università siano imputabili al “neoliberismo”, che quindi in questo (fittizio, ripetiamo) contesto assume il significato esteso di “competitività”, “meritocrazia estrema”, “tirannia dei migliori”, “americanismo” – decidete voi l’interpretazione che vi sembra più affine. Una lenzuolata etimologica, ma utile a capire dove sta l’errore.

Se davvero l’Università Italiana fosse colpevole di eccessivo “neoliberismo” diciamo pure che ci è riuscita abbastanza male. Il ranking delle migliori università mondiali dell’anno 2020 (qui e qui i link a due delle classifiche più autorevoli) vedono Padova, Milano e Roma prime università italiane ben dopo il 100esimo posto. Tutte le più grandi università US e UK sono sopra, ma ci sono ulteriori dati interessanti. Alcuni paesi, molto spesso citati dagli anti-neoliberisti nostrani come le terre promesse del sol dell’avvenire, ci sorpassano di gran lunga: Francia, Svezia, Germania, Paesi Bassi, Austria, Danimarca. Tutti posti con uno stato sociale più organizzato, più strutturato e virtuoso del nostro. Con la Francia parzialmente esclusa (più nei ragli in piazza che nella realtà, a ben guardare), sono anche paesi in cui le parole “business”, “libertà di impresa”, “concorrenza”, “merito” non fanno certo alzare il sopracciglio a nessuno. La domanda la giriamo a chi ha avanzato le critiche al “neoliberismo”: in quei casi cosa succede? Dov’è l’inghippo? Perché questi paesi hanno un ottimo stato sociale ma non disdegnano università competitive?

C’è di più. Entrando anche nel merito della ripartizione dei grant a livello europeo, il rapporto dell’European Research Council 2020 ha evidenziato una più che dignitosa ripartizione dei fondi di ricerca, con ingegneria e fisica ovviamente al primo posto, ma con un distacco relativamente limitato rispetto alle altre. Ciliegina sulla torta il fatto che scienze umanistiche, a sorpresa, hanno visto un lievemente maggiore numero di proposte accettate rispetto a scienze biologiche. Il che, ulteriormente, pone dei seri dubbi su uno degli aspetti della critica iniziale che, inter alia, vuole il “neoliberismo” acerrimo nemico delle discipline non produttive.

Un interessante punto sollevato da Domani riguarda il dato che vede gli italiani vincere molti grant (assegni di ricerca) all’estero ma pochi in patria. Sarebbe fin troppo facile far saltare fuori il solito “signora mia, abbiamo i talenti migliori ma li lasciamo andare via”, ma come tutti i luoghi comuni risulta sbrigativo, riduttivo e non affronta il nodo cruciale. Ed il nodo è presto sbrigliato, almeno sulla carta: la verità è che gli italiani non sono né migliori né peggiori di tanti loro coetanei e colleghi. Semplicemente in Italia l’istruzione e la preparazione, bene o male, hanno retto allo sfacelo degli ultimi decenni (anche sullo sfacelo ci torniamo), ma non reggono poi alla mancanza di una infrastruttura di supporto che favorisca progetti, iniziative e innovazione. Questa è probabilmente la pietra tombale (clamorosamente / volutamente ignorata) alla tesi della competitività pervasiva: se davvero fossimo in un regime di “neoliberismo”, questa gente i grant se li prenderebbe in patria. Se non succede, tocca farsi due domande.

Le diagnosi possibili sono due: o ci siamo adeguati molto male alle logiche “neoliberiste”, oppure semplicemente non ci siamo adeguati. Tertium non datur. La verità (sommessamente riconosciuta dietro le quinte da alcuni illuminati addetti ai lavori e taciuta al grande pubblico soprattutto in piazza) è che per quanto i tagli lineari siano perniciosi per la ricerca, molti soldi e molte nomine sono ancora ripartiti malissimo, con logiche clientelari, nepotistiche, bizantine.

I dati Eurostat su ricerca e innovazione non evidenziano, infatti, unicamente un problema di mancanza di fondi (che pure non neghiamo), ma anche se non soprattutto diverse criticità strutturali del sistema italiano. In primo luogo, si nota quanto sia clamorosamente carente l’integrazione università-lavoro, una mancanza di cui ci stiamo accorgendo con anni (se non decenni) di ritardo rispetto ad altri paesi di simili dimensioni e aspirazioni. Figlia di questo problema è la tendenza tutta italiana ad incentivare poco o per nulla la libera impresa che all’innovazione è strettamente collegata. Chi il “neoliberismo” lo vede come il fumo agli occhi non potrà che gioire di fronte a questi dati ma, come fatto notare precedentemente, è un atteggiamento tafazziano: stiamo de facto gioendo di una condizione di malessere economico dal quale non intendiamo liberarci per non si capisce bene quali principi etici. Infine, anche se ci sarebbe da dire di più, l’Italia zoppica fra i grandi paesi dell’area UE per numero di pubblicazioni di impatto internazionale, aspetto che è anche relativamente poco collegato a dinamiche di tipo economico.

E qui entriamo nell’altro vero problema che affligge l’università italiana e che di “neoliberista” sembra avere ben poco: il clientelismo ed il nepotismo esasperati. È difficile offrire una stima attendibile del fenomeno, visto che chi dovrebbe indagare non lo fa o lo fa per figura, ma uno studio del 2016 rilanciato da alcuni quotidiani nazionali mise in evidenza non solo il ricorrere di determinati cognomi in tutti i maggiori atenei, ma anche la tendenza degli accademici italiani a spostarsi meno fra regioni, l’esatto contrario dei colleghi americani. Va detto che il trend è in leggero calo. Forse perché abbiamo smesso di essere eccessivamente “neoliberisti”… o perché lo stiamo diventando? Chiunque abbia una minima esperienza nella ricerca e negli ambienti accademici italiani sa benissimo di cosa si sta parlando. Oceani di giovani ricercatori post-doc attendono per anni l’agognato posto di lavoro umiliandosi in mansioni non correlate alle loro capacità, assistendo impotenti a nomi aggiunti per facilitare carriere altrui, idee rubacchiate dall’ordinario di turno, abili carambole politiche per far uscire concorsi tarati sul vincitore deciso a tavolino. Non serve nemmeno stare a citare fonti e dati: il problema è sistemico e lo riconoscono tutti quelli che ci si siano fatti un po’ le ossa.

A tutti questi problemi si aggiunge, infine, un decadimento culturale generalizzato che affonda le radici addirittura nelle contestazioni studentesche degli anni ‘60 (epoca in cui si affermò il famigerato concetto del 18 politico), continuando con l’arroganza opulenta degli anni ‘80 e concludendosi con il trash del ventennio berlusconiano, un decadimento che quindi ha responsabilità bipartisan. Sia a causa delle note crisi ricorrenti dovute ad un pessimo utilizzo dei fondi pubblici, sia per un malinteso senso di faciloneria e di raffazzonata inerzia che permea il sistema Italia in molti (troppi) ambiti, l’idea di eccellere nella competenza, dell’essere un punto di riferimento nazionale e internazionale nella propria materia, l’abitudine di citare dati e statistiche con la disinvoltura di chi ha una solida base scientifica oltre che umanistica, insomma tutte queste ed altre caratteristiche sono state progressivamente considerate “roba vecchia” sia nell’immaginario collettivo che (purtroppo) nella testa della classe dirigente italiana. È un dramma che spiega almeno in parte perché vediamo tuttologi televisivi che parlano di dati assenti quando i dati non sanno trovarli loro, esperti che passano più tempo sui social che in laboratorio o in ospedale, e che potrebbe contribuire a chiarire perché l’impatto della nostra ricerca è modesto rispetto a quella di uguali professionisti in altre nazioni.

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L’esercizio di stile, a questo punto, è concluso. Parafrasando i Simpsons, i fenomeni del neoliberismo e dei problemi dell’università italiana sono un po’ come il proverbiale mulo con un forno a microonde: non c’entrano assolutamente nulla l’uno con l’altro. Alle tre studentesse si può e si deve concedere il beneficio del dubbio di una interpretazione ingenua ed idealistica figlia dell’inesperienza. Tuttavia, lo stesso proprio non si può dire di quanti questo discorso lo difendono e/o lo hanno sbandierato a mo’ di vessillo politico. Queste buzzwords vengono periodicamente popolarizzate ed utilizzate in maniera estremamente capziosa per coprire pelose dinamiche ben poco limpide e con ben altri fini. Diamo per scontato che questo non sia nemmeno il caso di Ignazio Ziano, al quale vogliamo riconoscere onestà intellettuale anche solo per una questione di principio, ma a cui cionondimeno vorremmo chiedere: ma se è sbagliato valutare l’università sulla base di chi è più innovativo, di chi inventa e di chi ha talento, allora come la valutiamo? Con quali criteri possiamo far migliorare quello che dovrebbe essere l’epicentro ultimo del sapere e della spinta innovativa delle nazioni? Se non è il merito, il parametro qual è?

Il problema dell’università italiana non sarà forse l’aver scelto per troppo tempo come orientare i propri fondi e le proprie nomine in base a logiche non virtuose? E non saranno state proprio le terrificanti logiche a premio del merito, usate poco e per niente per decenni nel nostro paese, ad aver rotto le uova nel paniere a chi usa certi argomenti come scudo ideologico per i propri interessi? Si spiegherebbero molte cose. A partire dal fatto che molti figli di nessuno sono diventati qualcuno fuori dall’Italia, ma dentro succede troppo spesso l’esatto contrario. Perché se siamo tutti uguali e manca un sistema di controllo che valorizzi i migliori e penalizzi i mediocri, il mediocre tipicamente diventa più uguale degli altri.

Concludendo con un aneddoto, anni fa uno degli autori di questo articolo ha approcciato il relatore della propria tesi con un progetto per tenere qualche lezione extra-curriculare in più a studenti universitari e diplomati in attesa di dottorato. L’idea era di aumentare l’offerta didattica del dipartimento. La risposta del professore ordinario della nota università pubblica fu “eh, ma io della didattica mi sono rotto i coglioni”. Sarà stato un altro neoliberista.