Segnali etici ne abbiamo? Ecco l’economia che evolve verso nuovi modelli

scritto da il 17 Dicembre 2021

Post di Gianluigi De Marchi, consulente finanziario, giornalista e scrittore – 

Nel corso degli ultimi venti anni la corsa sfrenata all’accumulo della ricchezza ed all’esibizione dei suoi simboli ha accelerato il suo ritmo, alimentata dai media che additano all’ammirazione dell’umanità personaggi che, in pochi anni, accumulano patrimoni smisurati che rivaleggiano con il Pil di interi Paesi. Nomi come Mark Zuckerberg, Elon Musk, Jeff Bezos, Bernard Arnault, Bill Gates, Warren Buffett sono sulla bocca di tutti. Tutti conoscono la loro ascesa nel ristretto gruppo dei nababbi mondiali e sognano di poter un giorno imitarne la carriera.

In totale coloro che arrivano ad un patrimonio di almeno un miliardo di dollari posseggono l’imponente cifra di 13 mila miliardi di dollari, lasciando al resto dell’umanità briciole della torta mondiale della ricchezza.

Eppure in questi ultimi anni sono emersi, anche se in maniera ancora insufficiente, alcuni valori che sembravano dimenticati, messi da parte dal rutilante scintillio delle monete d’oro dei Paperon de’ Paperoni.

Elon Musk, da quest'anno l'uomo più ricco del mondo (Epa)

Elon Musk, da quest’anno l’uomo più ricco del mondo (Epa)

Accumulare ricchezze è un’attività che affascina tutti, ma, come dice un ben noto proverbio: “L’argent ne fait pas le bonheur”, i soldi non danno la felicità; e l’uomo non vive di solo pane, come ricorda un altro celebre detto, ma anche di spirito, di sentimenti, di emozioni.

Forse qualche ripensamento è stato stimolato dalla recente pandemia, che ha imposto a tutti di riflettere sulla propria fragilità e sull’importanza di far riferimento a valori solidi anziché effimeri. Forse si è capito che non basta vivere bene, o addirittura benissimo, occorre anche con-vivere con gli altri, facendosi carico anche dei problemi e delle difficoltà della società che ci circonda. E una volta afferrato il senso del con-vivere, si può arrivare anche alla tappa successiva, quella del con-dividere, cioè far partecipare gli altri alle proprie fortune.

Tra i segnali confortanti che si colgono, ne citiamo alcuni.

1) Alcuni imprenditori hanno recepito istanze sociali, orientando l’azione delle proprie aziende in maniera diversa da quella tradizionale, basata sul noto imperativo: “L’imprenditore ha un solo obiettivo: massimizzare il profitto” (che implica il corollario: ”A qualunque costo e senza tener conto di nulla e di nessuno se non di se stessi”). Sulla scia delle idee di Adriano Olivetti (antesignano del modello d’impresa sociale) queste persone imprimono alla loro attività una spinta multi strategy, in cui il conseguimento del profitto è un obiettivo (ma non l’unico). Entrano così negli obiettivi aziendali valori come la sicurezza sul lavoro, il rispetto della dignità umana dei dipendenti, il rispetto dell’ambiente, il sostegno ad attività sociali e così via.

2) Alcune aziende hanno adottato il modello di “società benefit”, un nuovo modo di presentarsi e di agire basato su quanto previsto dalla legge n.208 del 28/10/2015. L’azienda benefit opera per mantenere corrette relazioni industriali, un attivo rapporto con le comunità locali, un’attenzione costante alla tutela dell’ambiente, una collaborazione con associazioni di volontariato o della società civile, un sostegno alle attività culturali. In una parola, non si persegue più l’ottenimento del massimo profitto nel breve termine, ma del profitto “utile” nel lungo termine, che vada a beneficio non solo degli azionisti ma anche della collettività.

3) Alcuni imprenditori hanno adottato un criterio di ripartizione dell’utile annuale che codifica i diversi protagonisti del successo aziendale, gratificando non solo gli azionisti ma anche i dipendenti ed il territorio in maniera prestabilita. Ad esempio la Reynaldi (media azienda del settore cosmetico piemontese) destina un terzo ai proprietari, un terzo ai dipendenti ed un terzo al sostegno di attività sociali. Non si tratta di una rivisitazione della “compartecipazione dei lavoratori” da tempo esistente in Germania, ma di una presa d’atto che gli interessi aziendali non finiscono all’interno del recinto degli azionisti.

4) Alcune aziende hanno costituito Fondazioni (alimentate dall’accantonamento di parte degli utili) finalizzate a sostenere soggetti in difficoltà oppure finanziare attività meritevoli nel campo dell’arte o della cultura. Un modello largamente diffuso negli Stati Uniti e da tempo utilizzato da banche di natura pubblica o strettamente legate al territorio (si pensi alla Fondazione San Paolo, alle fondazioni di tutte le banche derivate dalle vecchie Casse di Risparmio, Fondazione Pirelli, Fondazione Ferrero e tante altre).

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Insomma, di segnali di cambiamento ne possiamo cogliere qua e là, per ora senza un disegno coordinato e preciso, ma fortunatamente proattivi; esempi positivi che attirano l’attenzione anche dei media (indispensabili per diffondere una diversa “cultura economica”) e che sono destinati a trascinare altri protagonisti verso la nuova via di un sistema produttivo orientato non solo alla crescita di sé, ma anche alla crescita della collettività.

E qui può essere utile citare un’omelia che ho avuto la fortuna di ascoltare l’anno scorso, quando il parroco di Cortina, commentando il brano evangelico dei pani e dei pesci, sottolineò con acume che il miracolo non consisteva nella “moltiplicazione” (termine mai citato dai testi sacri), ma nella “divisione”, anzi proprio nella “condivisione” dei pochi beni in possesso del previdente ragazzo che aveva portato un cesto con un po’ di cibo, messo a disposizione della “moltitudine” accalcata sul monte.

Un episodio che dovrebbe far riflettere tutti coloro che posseggono pani e pesci, brioches ed aragoste, castelli e aerei privati, banche e società tecnologiche. Si badi bene: non si tratta di vivere seguendo la regola francescana della povertà assoluta, ma di vivere perseguendo le regole universali dell’etica che impongono, sotto tutte le latitudini e in tutti i tempi, di destinare a chi ha bisogno non solo una distratta occhiata di compassione allungando una misera elemosina, ma un concreto impegno di riscatto e di attribuzione di dignità.