Assegno, entrata, credito: nelle arti e nei mestieri la loro genesi

scritto da il 26 Gennaio 2022

Federigo Melis, fondatore dell’Istituto Internazionale di Storia Economica “F. Datini”, oltre che stimatissimo storico dell’economia, in Note di storia della banca pisana del Trecento (1955), afferma che alcuni assegni datati 1374 rappresentano i più antichi tra i documenti del genere, ovverosia tra gli ordini di pagamento che un emittente abbia indirizzato a una banca. Quest’ultima, nella terminologia di pertinenza, è definita trattaria e costituisce, com’è noto, il luogo fisico e giuridico presso il quale il traente, in quanto titolare di un conto, avvia quel rapporto di convenzione che gli permette di avere e usare il carnet. La pratica in questione, a dire il vero, comincia ad essere un po’ desueta, ma reca in sé una storia illustre e che, molto probabilmente, va ben oltre le rispettabili e autorevolissime attestazioni di Melis.

Non è escluso, per esempio, che ai Romani fosse già nota una primordiale forma di assegno, almeno dal I sec. a. C., com’è testimoniato da Cicerone, che utilizza il termine perscriptio per indicare proprio un assegno scritto per il pagamento, un assegnamento (CALONGHI, 1898). Tra gli altri significati del termine, rileviamo: scrittura ufficiale, registrazione nel libro dei conti e, per metonimia, somma registrata.

De Caerellia quid tibi placeret Tiro mihi narravit; debere non esse dignitatis meae, perscriptionem tibi placere [Quanto a Cerellia, Tirone mi ha detto: che non è proprio della mia dignità che io sia in debito, e che ti è gradito un titolo di credito/assegno (CICERONE, Epistole ad Attico, 12, 51, 3, trad. nostra, vol. 2, a cura di C. Di Spigno, 1998, UTET, Torino, pp. 1142-1143)].

È risaputo che certe operazioni di pagamento, che avvenivano tramite ordini scritti, trovino la propria scaturigine nella prassi bancaria del Medioevo e, in particolare, nella Toscana del Trecento: per carità! Ma lo studio di una serie di papiri egizi datati tra il III sec. a. C. e il II sec. d. C. – dunque, tra età tolemaica ed età romana – ha consentito agli studiosi di stabilire che, in realtà, l’uso d’una qualche forma d’assegno era una pratica antichissima. Tali papiri, infatti, sono veri e propri ordini di pagamento scritti e rivolti a un banchiere a beneficio di un terzo. Le scritture di questi ritrovamenti, all’incirca, sono tutte simili; il che giova all’ermeneutica: un saluto iniziale, seguito dall’ordine di effettuare il pagamento dichiarato per mezzo di una parola chiave, che di solito l’imperativo διάγραψον (diàgrapson), ma anche gli imperativi δός (dos) e, più tardi, χρημάτισον (chremàtison). Comunque, il significato dei tre termini pare sempre lo stesso, ovvero un’ingiunzione a pagare in contanti, visto che, in alcuni documenti, i termini sono usati con riferimento allo stesso obiettivo-formula. Seguono, da ultimo, il beneficiario, l’oggetto, la somma, la formula di saluto-congedo e la data.

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Secondo Melis (op. cit.), si è giunti alla creazione dell’assegno nel modo che segue: è probabile che tutto abbia avuto inizio da normali lettere di corrispondenza che potevano contenere, tra gli altri argomenti, la preghiera o l’ordine di effettuare un pagamento; in seguito, dev’esserci stata una progressiva specializzazione di contenuto; per la qual cosa la lettera dev’essere stata destinata solo a quel tipo di servizio. Sicuramente, le prime lettere sono state dettate dalla necessità di ovviare alla distanza di chi doveva esprimere la propria dichiarazione di volontà; in seguito, data la praticità del sistema, esso si sarebbe diffuso. Melis precisa pure, a scanso di equivoci, che, sebbene quelli dei papiri egizi si possano ritenere i diretti antenati dei moderni assegni, tuttavia non si può riscontrare continuità tra questi e quelli medievali toscani. La continuità non è possibile, dato l’evidente regresso che si registrò nel sistema bancario già a partire dalla fine del III secolo dopo Cristo. Si tratta di fenomeni slegati tra di essi, in cui si è verificato, come in altri casi, che una pratica diffusa in un dato luogo e in dato tempo, a un certo punto, sia decaduta per rinascere, poi, in maniera del tutto indipendente dalla precedente, in tutt’altro luogo e tutt’altro tempo.

Attraverso uno dei documenti riportati da Melis abbiamo la possibilità di ricostruire il modello in uso all’epoca:

Arrigho da Crespina, lanaiolo, de’ avere …  Ane avuto, a dì 11 di ferraio, fior[ini] uno d’oro, demmo per lui ad Arrigho tessitore 47 (A.S.PI, Arch. Op. Duomo, n. 1323, c. 126s., in Melis, 1955, op. cit., p. 116)

Il verbo latino da cui il sostantivo assegno deriva è assignāre; si tratta quindi di un deverbale composto da ad e signum: assegnare, attribuire, affidare. Battaglia, nel GDLI (1961-2002), così descrive il lemma: “attribuzione  a  vantaggio  di  qualcuno  di  una somma  di  denaro,  la  somma  stessa  assegnata; retribuzione, paga, compenso”.

Ad acquisire sempre più solida consapevolezza della sua storica valenza leggiamo l’occorrenza di Tasso:

Mi  ha  fatto  [il  Granduca]  offerire  venti scudi  al  mese,  e  mi  dicono  che  me  ne  sarà  fatto  l’assegno (TASSO, T., Lettere familiari, CXXXV, in Lettere di Torquato Tasso, a cura di G. Rosini, 1826, tomo IV, Capurro, Pisa, p. 24).

Come si evince dalla lettura del frammento di Melis e, in particolare, dalla designazione di emittente e beneficiario (“lanaiolo” e “tessitore”), in quel contesto socio-economico, risultava decisivo il ruolo delle corporazioni, cioè di quelle organizzazioni di arti e mestieri che si occupavano della tutela degli interessi di coloro che facevano parte di una determinata categoria professionale.

Il termine corporazioni risale al Settecento e fu utilizzato da coloro che, di fatto, ne parlavano per eliminare questo tipo di associazioni, mentre il loro nome originario varia a seconda del luogo: per esempio, si chiamarono arti in Toscana, fraglie in Veneto, paratici in Lombardia et alia. Le corporazioni professionali, in realtà, sono attestate già presso i Romani e dovettero essere di origine molto antica, anche se le testimonianze più concrete ci provengono dall’età imperiale e, in particolare, dal I e II sec. d. C., epoca per cui ci soccorrono gli scavi archeologici del Foro Traiano e di Pompei ed Ercolano, come anche i testi di Petronio, Stazio, Marziale, Giovenale, Plinio il Giovane. A ogni modo, è noto che le arti e i mestieri, a Roma, erano praticati dai plebei, dato che, per i patrizi, era disdicevole sporcarsi le mani col denaro proveniente da un’attività ritenuta vile come il commercio. Sappiamo che, per lungo tempo, gli scranni del senato furono tenuti esclusivamente da patrizi, che traevano il loro lussuoso sostentamento dai proventi dei latifondi di cui erano padroni e in cui lavoravano schiere di operai e schiavi.

Lo studioso di costumi politici dell’Ottocento, Ludovico Bianchini (1845), afferma che, in origine, a essere riuniti in associazioni di arti e mestieri furono solamente o gli schiavi o i forestieri; della qual cosa sarebbe rimasta traccia nel fatto che, nel Medioevo, coloro che esercitavano un’arte si chiamarono inizialmente servi ministeriali. Tale nome, tuttavia, non deve farci confondere circa il ruolo sociale che ebbero i praticanti di mestieri nel Medioevo: essi non erano affatto schiavi, ma comuni cittadini. Com’è noto, infatti, molto presto, le loro corporazioni assunsero in Italia grande importanza nella nascita, nello sviluppo e nel governo di quella importante realtà politica che furono i Comuni. In Toscana, in particolare, si ebbero corporazioni di arti maggiori, appannaggio del cosiddetto popolo grasso – la grande borghesia –, tra cui giudici, notai, cambiavalute, mercanti, lanai, pellicciai, speziali, e corporazioni di arti minori, appannaggio del popolo minuto  – la piccola borghesia –, di cui facevano parte beccai, falegnami, rigattieri, calzolai, vinai, et cetera. Esse ebbero così tanto peso nella vita politica dei Comuni che molti aristocratici decisero di entrarvi a far parte proprio per assicurarsi potere e rappresentatività. D’altronde, la presenza così importante delle corporazioni di mestiere nelle città italiane (del Nord, poiché il Sud conobbe tutt’altra storia) fece sì che presto i governi emanassero precisi e rigidi statuti (il primo fu quello di Venezia, risalente al 1172) a cui esse dovevano sottostare, rischiando, in caso contrario, pesanti ammende e persino, nei casi più gravi, pene corporali.

La digressione sull’economia medievale è giustificata non solo dalle occorrenze “lanaiolo” e  “tessitore” e dal loro ricorso all’assegno, ma anche e soprattutto dall’esame, che ci apprestiamo a fare, di un altro termine proprio di quel periodo, entrata, anch’esso deverbale, e che costituiva, all’epoca, proprio la quota d’ingresso in una delle associazioni di arti e mestieri di cui abbiamo parlato.

Intendansi essere dell’Arte di Calimala tutti coloro che pagarono la libra di soldi cento alla detta Arte per entrata all’Arte (P. Emiliani-Giudici, Storia dei Comuni italiani, Statuti fiorentini, 1334, II, 26, vol. III, 1866, Le Monnier, Firenze, p.311)

Entrata si origina dal verbo latino intrāre, entrare, insinuarsi, anche se, nel latino tardo (Du Cange, 1887), intrare acquisisce il significato di sistere (porre, collocare), exhibere (presentare, produrre, mostrare).

Anche se, oggi, col termine entrata s’intende, per lo più a livello popolare, un incasso, occasionale o periodico, i redattori del dizionario Treccani, nel trattare la voce all’interno della sezione “economia e finanza”, ci indicano un concetto del tutto diverso: “L’atto di ingresso da parte di un agente economico in uno specifico mercato di beni o servizi, dal lato della produzione o più in generale dell’offerta (…) L’e. nel m. di un’impresa consiste, in generale, nell’avvio della produzione di un certo bene o servizio, ovvero, più specificatamente, nell’ingresso in un particolare settore locale, per es. esportando i propri prodotti all’estero. Nel caso di un lavoratore, invece, si fa riferimento all’e. nel m. del lavoro.

Come si può notare, la semantica economico-finanziaria è molto più vicina a quella delle origini, in cui e per cui era necessario ammettere una feconda dialettica tra il protagonista, la realtà socio-economica e il prodotto della sua arte.

Affidandoci ancora una volta a uno statuto, quello senese questa volta, riscopriamo senso e significato d’un altro termine, credito, che nasce nel latino credĭtu(m), cosa affidata, prestito e giunge fino a noi con forza polisemica, tanto da acquisire sia il valore di stima e prestigio sia quello di somma di denaro che si può pretendere da un debitore.

Et anco tutti li debiti et li crediti et li beni de’ minori facciano scrivere nel detto inventario (Il Costituto del comune di Siena volgarizzato nel MCCCIX-MCCCX, Statuto senese, 1309-10, dist. 2, cap. 170, a cura di Alessandro Lisini, vol. 1, 1903, Siena, Tip. Sordomuti di L. Lazzeri, p. 435).

È utile, a questo punto, ricordare, attraverso le fonti, il significato di credito nella latinità classica, significato cui abbiamo già fatto cenno.

Etiam a tali accipiam pecuniam, quam pro capite dependam, accipiam autem tamquam creditum, non tamquam beneficium [Anche da un uomo simile accetterò il denaro, che impiegherò per riscatto, tuttavia lo accetterò come un prestito, non come un beneficio (SENECA, De beneficiis, II, 21, trad. nostra, a cura di M. C. Gertz, 1876, Weidmann, Berlino, p. 30)].

Per tutti noi, a vario titolo di conoscenza e consapevolezza, sono note le espressioni “carta di credito”, “istituto di credito”, “linea di credito” et cetera. Ognuna di queste funzioni d’uso si rifà in modo emblematico, per così dire, alla tradizione. Con la carta di credito, infatti, abbiamo la possibilità di acquistare il prodotto regolando il pagamento in una fase successiva. Ciò è reso possibile, in genere, proprio dal ruolo delle banche, che, non a caso, sono istituti di credito, vale a dire mediatori del credito stesso nelle forme della raccolta e dell’impiego, anche se – è bene precisarlo – non sono gli unici istituti a potere emettere le summenzionate carte. In quanto alla linea di credito, è sufficiente dire che si tratta di una vera e propria somma di denaro che una banca o una finanziaria possono mettere a disposizione del richiedente con l’applicazione di un ben regolamentato tasso d’interessi.

 

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