Possiamo dirci europei? Proposta: un Erasmus per le imprese

scritto da il 31 Marzo 2022

L’autore è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale. Co-autore del podcast Capitali coraggiosi sul Sole 24 Ore – 

Molti ritengono che l’unità ritrovata dei paesi dell’Unione Europea sia l’unico risvolto positivo di questi tempi drammatici. In realtà anche questo lieve ottimismo potrebbe rivelarsi infondato, sia perché ci sono paesi come l’Ungheria che frenano, sia soprattutto perché c’è sempre qualcuno prova a disfare di notte ciò che ha tessuto di giorno.

D’altronde non si può nemmeno parlare di unità “ritrovata”, quando una vera unità non c’è mai stata. Ogni paese dell’Unione Europea ha sempre badato ai suoi interessi, e non c’è ambito delle politiche europee che non sia stato ispirato da logiche spartitorie, con tanto di goniometri, regoli e bilancini in mano. Non c’è da stupirsi che questa mentalità, che gli anglosassoni chiamerebbero “anale”, abbia ostacolato ogni visione del futuro che non fosse già scontata. Dunque, piuttosto che rallegraci del fatto che i paesi europei siano uniti per diventare più autonomi sul piano energetico – e, prima ancora, che la transizione energetica sia uno dei due obiettivi prioritari del piano Next Generation EU – dovremmo chiederci perché, mentre eravamo intenti stabilire il diametro delle vongole e la curvatura delle banane, non abbiamo fatto nulla per impedire l’erosione della nostra sovranità energetica, e pure di quella tecnologica e digitale.

foto di Markus Spiske per Unsplash

foto di Markus Spiske per Unsplash

Così l’Unione Europea non solo dipende da un pugno di autocrazie nel settore dell’energia, ma anche dagli Stati Uniti, e sempre più dall’estremo oriente, nel settore digitale e tecnologico. Questa seconda dipendenza potrà apparire meno grave della prima, tuttavia è più insidiosa, perché il recupero della sovranità energetica è possibile tramite la diversificazione delle fonti la transizione verde, mentre il recupero della sovranità digitale e tecnologica appare sempre più illusorio. Dunque, mentre è verosimile che l’Unione Europea possa affrancarsi dalla dipendenza energetica dalla Russia (e forse, a tendere, anche dai paesi del Nord Africa e del Golfo Persico) non è verosimile che possa affrancarsi dalla dipendenza tecnologica e digitale dagli Stati Uniti, dalla Corea del Sud e, sempre più, dalla Cina.

A dire il vero la dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti non si limita al settore tecnologico e digitale, ma è ben più estesa. Pochi però sembrano preoccuparsene, anzi molti la considerano vantaggiosa per diversi aspetti, fra cui quello della difesa, delle politiche fiscali e della leadership dell’occidente. Ma occorre chiedersi se da questa dipendenza non derivi anche l’incompiutezza del processo d’integrazione europeo. E, soprattutto, se ciò risponda o meno a un preciso disegno politico.

Il New York Times ha recentemente ricostruito l’evoluzione (o meglio, involuzione) del pensiero di Putin negli ultimi vent’anni, che all’origine sembrava favorevole all’idea di un’Europa di cui facesse parte anche la Russia. D’altronde i russi si sentivano (e invero si sentono ancora) più europei che asiatici. Dunque, dopo la fine della Guerra fredda, la prospettiva di una grande regione europea compresa fra Lisbona a Vladivostok non era affatto inverosimile. Il distacco da questa visione fu segnato da un discorso di Putin alla Munich Secuirty Conference del 2007, in cui criticò aspramente le mire egemoniche degli Stati Uniti in Europa attraverso l’espansione della NATO. Secondo il New York Times il vero timore di Putin non era legato all’espansione dell’area d’influenza degli Stati Uniti in Europa, ma a quella del modello liberale e democratico, che avrebbe potuto pregiudicare il suo potere in Russia.

Quali che siano le cause del distacco della Russia dall’occidente, la sua conseguenza non può che essere l’ulteriore aumento della dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti e lo spostamento del baricentro della Russia a est. Questo scenario non è però auspicabile, non solo per l’Europa, ma in fondo anche per gli Stati Uniti, dato che finirebbe per avvantaggiare la Cina, che resta la vera potenza destinata a cambiare l’ordine mondiale. Occorre dunque iniziare a chiedersi se e come farvi fronte. Una strada potrebbe essere, paradossalmente, la riduzione della dipendenza europea dagli Stati Uniti, non solo nel campo digitale e tecnologico, ma anche nel campo politico. D’altra parte la leadership tecnologica e digitale di Stati Uniti e Cina sembrano oggi testimoniare una stretta relazione fra sovranità politica e sovranità digitale.

Il processo d’integrazione europeo si trova oggi nella difficile transizione da un modello confederale a un modello federale, che per realizzarsi dovrebbe estendere le competenze dell’Unione Europea (almeno in parte) alle politiche estere, fiscali e militari. Inoltre gran parte delle delibere delle istituzioni europee dovrebbero essere assunte a maggioranza semplice e non rafforzata o, ancor peggio, all’unanimità. E’ però inverosimile che ciò possa accadere in tempi brevi, soprattutto nell’attuale scenario di forze sovraniste che, seppur depotenziate, continuano a imperversare nella parte più furiosa dell’opinione pubblica. Prima di tutto, dunque, occorrerebbe puntare su politiche che rafforzino l’identità europea, in modo che i cittadini dell’Unione Europea si sentano di appartenere a un solo popolo come negli Stati Uniti, la cui popolazione è anche più eterogenea di quella europea.

foto di Sara Kurfeß per Unsplash

foto di Sara Kurfeß per Unsplash

Piuttosto che vagheggiare improbabili cessioni di sovranità è dunque preferibile ampliare il campo delle identità in cui i nostri cittadini si riconoscano come europei più che italiani. E lo stesso andrebbe fatto, ovviamente, anche negli altri stati dell’Unione Europea. Storicamente il progetto che è più servito a creare e rafforzare l’identità europea è stato probabilmente il programma Erasmus, che tra l’altro deve la sua nascita all’italiana Sofia Corradi. Al punto che si parla di generazione Erasmus per descrivere coloro che si riconoscono più nella cittadinanza europea che nelle cittadinanze di rispettiva appartenenza. In origine il programma Erasmus era limitato agli scambi universitari, ma dal 2014 è stato esteso a tutta la formazione, allo sport e alle politiche giovanili.

Per rafforzare ulteriormente il senso d’identità europeo si potrebbe dunque pensare di estendere il modello di Erasmus al mondo delle imprese, che tra l’altro potrebbero beneficiarne molto sul piano manageriale e dell’internazionalizzazione. Più in generale, servirebbero progetti altrettanto capaci di incarnare i valori dell’Unione Europea, che non riguardano solo la libera circolazione delle persone, ma si estendono a tutti i diritti politici e civili dei paesi democratici. Per esempio, si potrebbe estendere il diritto di voto nelle elezioni politiche nazionali a tutti i cittadini dell’Unione Europea che risiedono stabilmente nello stato in cui si tengono elezioni: idealmente bisognerebbe farlo in tutti gli stati membri, ma il primo di essi che decidesse di farlo potrebbe innescare un processo che, ragionevolmente, si estenderebbe rapidamente a tutti gli altri. Sarebbe bello immaginare che, anche questa volta, fosse una (o uno) di noi, come lo fu per Erasmus.