La Russia e noi, quanto può fare male uno stop alle importazioni?

scritto da il 11 Aprile 2022

Negli ultimi giorni, lo scenario di un embargo all’importazione di materie prime energetiche chiave dalla Russia è diventato sempre più concreto in Europa. Il Parlamento Europeo ha infatti votato giovedì 7 aprile una risoluzione per chiedere lo stop all’acquisto di petrolio, carbone e gas in risposta all’aggravarsi della situazione ucraina.

Data la dipendenza del Vecchio Continente alle risorse energetiche provenienti dalla Russia, diversi analisti e politici hanno avvertito in merito all’impatto economico di tale decisione. Se sull’effettiva praticabilità tecnica di questa strada sono già state fatte delle analisi, la quantificazione dell’impatto economico dati alla mano non è ancora stata affrontata. Occorre una precisazione doverosa: una valutazione economica deve essere corredata sempre da una valutazione politica ed etica dello scenario, sebbene quest’ultima non sia l’oggetto di tale articolo.

Implicazioni dell’embargo

L’Europa importa dalle società controllate dal Cremlino quantità rilevanti di materie prime: i dati Ocse evidenziano chiaramente la scomoda dipendenza rispetto alla produzione totale di energia, che va dal 30% di Belgio, passando per il 40% di Italia e Germania ai picchi del 60% da parte di Austria, Finlandia, Paesi Baltici ed Est Europa. Nello specifico, il petrolio russo rappresenta il 22% delle importazioni dei paesi Ue, mentre per il gas si arriva fino al 42%. Come si evince dal grafico seguente, nel caso del gas, la dipendenza nei confronti della Russia è disomogenea, dove si può notare una netta separazione tra est ed ovest Europa: il fattore geografico gioca chiaramente un ruolo fondamentale in questo (dati Eurostat/Nazionali).

La situazione all’interno dell’Unione europea stessa è quindi meno uniforme di quanto si possa pensare: se da un lato paesi come Spagna, Portogallo e Francia sarebbero meno influenzati da questo provvedimento, lo stesso non possiamo dire per Germania, Austria, est Europa e per l’Italia stessa. Le cause di queste differenze sono da ricercare nel grado di diversificazione delle forniture: in seguito all’invasione della Crimea del 2014, per esempio, la Lituania ha implementato una politica sempre meno dipendente dalle importazioni russe, puntando sullo sviluppo di nuovi rigassificatori LNG – liquified natural gas, gas naturale trattato, raffreddato e liquefatto, trasportabile via nave -, seguendo l’approccio iberico già consolidato da anni.

Lo stesso non si può invece dire per la Germania e l’Italia: la dipendenza nei confronti del gas naturale è cresciuta in seguito alla chiusura delle centrali a carbone e si è rimarcata ancor più, nel caso tedesco, dopo la decisione dell’ex cancelliera Angela Merkel di chiudere le rimanenti centrali nucleari a seguito del disastro di Fukushima del 2011.

Il possibile impatto economico di un embargo

Oltre all’aspetto geopolitico ed etico di un possibile stop agli import russi, tuttavia, è importante prevedere quale sarebbe l’effetto di una policy simile sulle economie europee affinché i decisori politici abbiano tutti gli strumenti possibili per prendere una decisione ben informata. Secondo Christian Sewing, Ceo di Deutsche Bank, una recessione dell’economia tedesca sarebbe inevitabile: ma quanto sarebbe pesante?

Diversi economisti stanno provando a rispondere a questa domanda cercando di fornire delle stime. Una premessa è d’obbligo a riguardo: queste stime sono prodotte da modelli macroeconomici che, per quanto articolati e complessi, cercano di simulare il funzionamento di un’economia che nella realtà è ancora più complessa. Sono modelli basati su assunzioni spesso profonde e, in quanto tali, soggetti ad errore. Tuttavia, rappresentano quanto di più preciso ci sia a disposizione in economia e per questo rimangono strumenti utili nelle mani dei policy-maker.

Un esempio di questi recenti tentativi è il contributo di Buchmann e coautori, i quali hanno tentato di stimare l’impatto dell’embargo su alcune economie europee utilizzando un modello all’avanguardia (Baqaae e Farhi, 2021) che si basa sulle reti di produzione: uno shock che colpisce una determinata impresa o settore può avere una ricaduta su altre parti dell’economia, con un effetto a cascata che lo trasforma in una fluttuazione macroeconomica.

In Germania, dove il 60% circa dell’energia è importato dalla Russia, si assisterebbe in un anno a un calo del Pil stimato tra lo 0,2% e il 2,2%, ovvero dagli 80 ai 1000 euro per cittadino. Un impatto forte, certamente, ma minore ad esempio di quello della pandemia (nel 2020 il crollo del Pil fu del 4,5%). Per quanto riguarda la Francia, un altro gruppo di autori stima invece una contrazione del Pil molto più modesta, tra lo 0,15% e lo 0,3%, che ritengono facilmente assorbibile grazie all’elevato livello di sostituibilità delle fonti e alla facilità di riallocazione delle risorse. Le assunzioni sul livello di sostituibilità pongono un grosso punto di domanda sulle stime prodotte dal modello, ma i risultati sembrano essere robusti anche di fronte a un’elasticità più contenuta.

E l’Italia? Secondo gli autori l’impatto sarebbe sostenibile: anche assumendo scarsa sostituibilità, il crollo del Pil si assesterebbe sotto lo 0.5%, valore più basso della media Ue. Più gravi sarebbero le conseguenze per paesi come Lituania, Bulgaria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Finlandia, i cui Pil potrebbero ridursi dall’1% al 5%.

Il Documento di Economia e Finanza (Def) approvato mercoledì 6 Aprile ipotizza il verificarsi di due possibili scenari in conseguenza al blocco delle importazioni di gas e petrolio dalla Russia da Aprile 2022 fino a tutto il 2023: nello scenario più sfavorevole, la crescita del Pil in termini reali nel 2022 sarebbe pari allo 0,6% e nel 2023 allo 0,4%. Tali stime sono riferite ad un quadro tendenziale, si legge infatti nel Def che in uno scenario simile il governo varerebbe una manovra più “robusta” di quella ipotizzata nel programmatico del documento.

Il secondo scenario, meno sfavorevole, ipotizza che le aziende del settore energetico siano in grado di assicurare le forniture di gas necessarie al paese grazie ad un incremento delle importazioni dai gasdotti meridionali (Tap e Algeria), un maggior utilizzo di gas liquido e conseguente rapido incremento della capacità di rigassificazione e un aumento della produzione nazionale di gas naturale e biometano, che, seppur inizialmente modesto, crescerebbe nel tempo.

Tuttavia, nonostante in tale scenario si ipotizzi un analogo comportamento dei partner europei, assisteremmo ad aumenti del livello dei prezzi di molto superiore a quello ipotizzato nel quadro macroeconomico tendenziale con una conseguente riduzione della crescita del Pil Italiano di 0.8 punti percentuali nel 2022 e 1,1 punti percentuali nel 2023 rispetto allo scenario tendenziale. Le conseguenze sull’occupazione consisterebbero invece in un calo di 0,6 punti quest’anno e 0,7 nel 2023.

Immagine da Unsplash

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Quali strumenti a disposizione?

Da un punto di vista economico, è bene prepararsi a misure fiscali e monetarie per assorbire l’impatto di un possibile stop agli import. Quali sono le soluzioni sul tavolo?

Sebbene sembri che il consumo energetico in relazione al reddito non vari significativamente a seconda della ricchezza o delle dimensioni dei nuclei familiari, è ovvio che le famiglie ad alto reddito sono maggiormente in grado di assorbire un incremento del prezzo dell’energia di quelle a basso reddito. Queste ultime dovranno rivedere i propri consumi al ribasso, e non potranno semplicemente ridurre i propri risparmi (o usare ricchezza accumulata). Dei trasferimenti mirati alle famiglie meno abbienti rappresentano quindi una soluzione più equa per lo Stato, nonché più efficiente.

Servono inoltre degli incentivi immediati alla sostituzione delle fonti russe, anche attraverso una comunicazione politica chiara (in pieno stile forward guidance delle banche centrali) che indirizzi verso un aumento dei prezzi delle fonti fossili, anche in assenza di un effettivo embargo. Politicamente si tratta di una mossa rischiosa, ma è forse l’unico modo per spingere verso un’azione immediata e incentivare il miglioramento dell’efficienza energetica e la sostituzione in favore di energia rinnovabile.

Da un punto di vista monetario la soluzione è forse meno ovvia. Sewing ha richiesto con forza una cessazione immediata dei programmi di acquisto di titoli da parte della Bce e un rialzo dei tassi di interesse. Se consideriamo lo shock dei prezzi dell’energia come uno shock di produttività, un rialzo dei tassi sarebbe necessario per fermare l’inflazione. Diverso sarebbe il discorso se si volesse intendere l’aumento dei prezzi come uno shock ai margini delle imprese: in tal caso stabilizzare l‘inflazione potrebbe causare una destabilizzazione dell’output.

Ad ogni modo, è impensabile affrontare uno stop agli import russi senza interventi appropriati da parte di banche centrali e governi. Per quanto imprecisi, gli studi citati ci danno un’idea dell’ordine di grandezza del problema e ci consentono di agire di anticipo.

Hanno collaborato a questo articolo:

Elia Bidut – Classe 1997, laureato in Management con una formazione in 4 università europee. Lavora come consulente su tematiche di innovazione e senior fellow del think tank Tortuga, tramite il quale pubblica questo contributo.

Enrico Cavallotti – Nato nel 1995 e laureato in Discipline Economiche e Sociali (DES-ESS) presso l’Università Bocconi. Ha lavorato come assistente di ricerca per Bocconi ed LSE e come stagista per il centro studi Nomisma. È attualmente studente di dottorato presso il Trinity College di Dublino e senior fellow del think tank Tortuga, tramite il quale pubblica questo contributo.

Matteo Ficarra – Dottorando in economia internazionale al Graduate Institute di Ginevra e senior fellow del Think Tank Tortuga, tramite il quale pubblica questo contributo.