La via d’uscita dalla crisi d’impresa ai tempi della pandemia

scritto da il 09 Aprile 2022

Post di Antonella Negri-Clementi, presidente e CEO di Global Strategy

La pandemia e le misure adottate dai Governi Conte e Draghi per ridurne gli effetti hanno portato come conseguenze, tra le tante, un drastico calo di fiducia nel futuro da parte dei consumatori, con la conseguente riduzione della domanda di beni e servizi, sia a livello nazionale sia internazionale. In termini economici queste scelte si sono tradotte con nuove situazioni di crisi aziendale, specie per settori e imprese già in difficoltà prima del Covid-19.

È recente la notizia, diffusa dalla Federazione Pubblici Esercizi, che in due anni sono stati chiusi oltre 45.000 tra bar e ristoranti, con la perdita di quasi 200.000 posti di lavoro. Più in generale, secondo i dati diffusi dalla società internazionale Cribis, che studia l’andamento dei mercati internazionali, aggiornati al 30 settembre s 2021 (ultimo dato disponibile), più di 6.700 imprese in Italia, nei primi nove mesi del 2021, hanno dichiarato fallimento. È ipotizzabile, inoltre, che l’aumento dei costi dell’energia e quello delle materie prime che quest’ultime sono oggi spesso in quantità limitata, acutizzati dalla crisi in Ucraina, potrebbe portare ad un incremento di questi numeri.

Non c’è solo il problema delle chiusure, ma anche quello del carente numero delle aziende neonate. Infatti, nel periodo 2020-2021, le aperture di nuove attività economiche sono calate rispetto al periodo 2019, per un totale di quasi 20 mila imprese mai nate, di cui circa un terzo nel commercio e nel turismo. Secondo l’analisi di Confesercenti, il calo di iscrizioni di nuove attività è l’effetto più evidente della crisi sanitaria sul tessuto imprenditoriale italiano, ancor più grave della chiusura delle attività esistenti.

Parlando da un punto di vista tecnico, la crisi aziendale parte da uno squilibrio economico-finanziario che rende possibile l’insolvenza dell’impresa nei confronti dello Stato e dei fornitori e che si manifesta sottoforma di inadeguatezza dei cash flow prospettici per far regolarmente fronte alle obbligazioni pianificate. In ottica aziendalistica, la crisi connota dunque una situazione degenerativa di minore gravità rispetto allo stato di insolvenza, potenzialmente idonea a sfociare nell’insolvenza stessa.

Le difficoltà dell’impresa possono avere una duplice origine. Da un lato, quella finanziaria che riguarda politiche di investimento sbagliate, incaute scelte di copertura finanziaria, dilazione rilevante del capitale circolante che causa crescita incontrollata del volume d’affari ed assorbimento di cassa. Dall’altro, esiste un’origine operativa causata da problemi manageriali, forte contrazione del mercato, obsolescenza del prodotto, inefficienze organizzative, rigidità della struttura produttiva, cambio del contesto legislativo, incremento della concorrenza.

Nel caso di una crisi che origina dal business, in aggiunta ad un intervento di ristrutturazione finanziaria potrebbe essere necessario implementare un turnaround operativo che permetta di comprendere e risolvere le problematiche di business (commerciali, industriali, competitive…) che penalizzano l’impresa, nonché ridefinire la strategia aziendale. Ovviamente, tale approccio è molto complesso perché presuppone un’attenta analisi interna ed esterna dell’impresa e del contesto competitivo in cui questa opera, nonché un approccio specifico appositamente studiato per quella determinata realtà aziendale da definirsi e strutturarsi “case by case”.

La stessa analisi risulta però indispensabile per salvaguardare la prospettiva del going concern e garantire una continua creazione del valore a vantaggio di tutti gli stakeholder: solo agendo in tal modo è possibile salvaguardare la continuità aziendale nel medio e lungo periodo. Infatti, se si risana la sola struttura finanziaria dell’impresa senza operare sulla componente di business, la crisi potrebbe aggravarsi e ripresentarsi in futuro rendendo vano ogni sforzo operato a livello finanziario.

Tuttavia, talvolta l’impresa non dispone di un efficiente sistema di controllo di gestione, reporting e pianificazione finanziaria, essenziali per individuare tempestivamente i segnali di crisi. In altri contesti, chi governa l’azienda vive le fasi di declino e crisi come un insuccesso personale, versando in uno stato psicologico di rifiuto dell’idea stessa di crisi fino a che questa non assume una rilevanza tale da non poter più essere occultata, comportando un dannoso ritardo nella segnalazione della crisi anche quando l’azienda avrebbe tutti gli strumenti per individuarla tempestivamente.

 

Ritardi nella fase di diagnosi comportano un aggravarsi delle difficoltà dell’impresa e la necessità di ricorrere agli istituti previsti dalla Legge Fallimentare, riducendo o compromettendo le probabilità di risanamento. In particolare, per le situazioni di crisi leggera caratterizzate dall’assenza di problemi di liquidità e dalla possibile necessità di riscadenzamento del debito, la normativa garantisce l’accesso ad una procedura di risanamento stragiudiziale normata dall’art 67 L.F.. Nelle situazioni di tensione finanziaria moderata con problemi di liquidità nel breve/medio periodo e necessità di stralcio o riscadenzamento del debito, occorre invece ricorrere alla procedura giudiziale di ristrutturazione del debito di cui all’art 182 bis L.F. con necessità di omologa da parte del Tribunale competente. Se la crisi è effettiva e l’impresa ha gravi problemi di liquidità, oltre allo stralcio ed al riscadenzamento del debito è necessario che venga legalmente riconosciuta una discontinuità con il passato al fine di proteggere le prospettive di continuità aziendale nel medio e lungo termine. È dunque inevitabile accedere al Concordato Preventivo (art. 161 L.F.).

immagine da Unsplash

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Il risanamento appare tanto più difficile quanto più la società si trovi già in decozione per ragioni di natura operativa ed operi in settori capital intensive quali, ad esempio, l’industria delle costruzioni. Mentre in settori a bassa intensità di capitali, anche in assenza di nuova finanza, è possibile tentare di risanare l’impresa con interventi di cost cutting volti a migliorare l’efficienza, cambio di governance e management per segnare una discontinuità col passato, ridefinizione del mix di vendita per focalizzare l’attività sui prodotti ad alta marginalità, nei settori ad alta intensità di capitali l’assenza di liquidità comporta un blocco delle attività rendendo pressoché nulle le leve operative agibili da parte di proprietà e management.

In ogni percorso di risanamento è opportuno che gli imprenditori e gli amministratori siano affiancati, fin dai primi segnali di crisi, da un team di figure competenti in tema di risoluzione della crisi d’impresa e nelle procedure concorsuali. Il supporto di advisor specializzati, con competenze trasversali – industriali, finanziarie, giuridiche e commerciali – un’ottima credibilità reputazionale (per interloquire con i vari stakeholder), è indispensabile al fine di approntare un piano di risanamento che sia ben strutturato e i cui obiettivi siano raggiungibili, sia sotto il profilo industriale che finanziario.

Il mio suggerimento è infine che l’Advisor affianchi l’imprenditore, non solo durante le fasi di chiusura dell’accordo di ristrutturazione, ma anche successivamente, nelle fasi di implementazione del Piano industriale stesso, affinché avvenga tutto nel modo più efficace possibile.