Il destino dell’occidente di Biden (e Putin), partita che si giocherà altrove

scritto da il 05 Maggio 2022

L’autore di questo post è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale –

Sarebbe saggio tenersi alla larga da dibattiti polarizzati su pensieri unici opposti, che annullano ogni comprensione dei problemi. Eppure ci ho provato confrontando le misure adottate da diversi paesi sulla pandemia e traendone conclusioni basate non tanto sulle opinioni, ma sui dati, soprattutto quelli relativi ai contagiati e ai morti.

Prevedibilmente, tuttavia, la polarizzazione del dibattito non è mai cambiata (non dopo le mie considerazioni, ci mancherebbe), ma nemmeno dopo venti milioni di morti (1), che sono più o meno gli stessi di quelli della Prima Guerra Mondiale e circa un terzo di quelli della Seconda Guerra Mondiale. Ma se le opinioni dovessero basarsi sui dati, non ci sarebbe alcun dubbio che le cosiddette politiche zero-Covid restino ancora – non si sa per quanto – le più efficaci, non solo per la salute ma anche per l’economia. Oggi invece si registra un trionfalismo dell’occidente a fronte di alcuni lockdown della Cina che riguardano meno del 2% della sua popolazione (2), come se il maggiore lassismo delle misure dell’occidente, peraltro durate ben più di quelle cinesi, sia valso la morte di milioni di persone.

Lo stesso sta accadendo in relazione alla guerra in Ucraina. Ma in questo caso a ruoli invertiti, dove il libertarismo miope dei no-vax si è riversato in un pacifismo retorico e senza via d’uscita, mentre il rigorismo intermittente dei loro detrattori si è tramutato in un atlantismo ebbro ed erratico. L’unica continuità di pensiero di queste due fazioni sembra essere la miopia e l’incoerenza.

Per una migliore comprensione della vicenda, come di molte altre dell’ultimo secolo, sarebbe forse più utile partire dalla psicologia sociale dei vinti.

Prendiamo, per esempio, un passaggio recente dell’Economist:

La Russia potrà anche essere vasta, ma è un paese medio che aspira ancora a essere una superpotenza. La sua popolazione si attesta fra il Bangladesh e il Messico, la sua economia fra il Brasile e la Corea del Sud e la sua quota di esportazioni globali fra Taiwan e la Svizzera. Sebbene la Russia riscuota simpatia fra paesi non allineati come il Sud Africa e l’India, il suo soft power è in declino, accelerato dallo sfoggio della sua incompetenza e della sua brutalità in Ucraina.

È ovvio che questa verità amara per i russi – e ancor più amara per la sufficienza della sua narrazione – susciti il risentimento di ogni cittadino russo che si riconosca nella gloria dell’Unione Sovietica e dell’Impero Russo. D’altronde è noto che il risentimento di Putin verso l’occidente fu alimentato anche dalla sufficienza con cui Obama giudicò l’invasione della Crimea, in cui la Russia fu descritta come “una potenza regionale che cerca di minacciare i suoi vicini partendo da una posizione di debolezza, non di forza”. Questo “risentimento” è stato però sfruttato per alimentare un “sentimento” ben più forte: quello del ritorno alla gloria dell’antico impero, che ha alimentato la retorica di gran parte dei regimi autoritari dell’ultimo secolo, da quella dell’Italia e della Germania dei nazifascisti a quella della Cambogia degli Khmer rossi, a quella, e più recente, della Cina di Xi Jinping, che non perde occasione per rimarcare come l’ascesa della Cina degli ultimi anni rappresenti il riscatto dal cosiddetto secolo dell’umiliazione, e non certo dalla rivoluzione culturale di Mao, che a ben vedere non ha fatto altro che rallentare, più che accelerare, il ritorno della Cina nella scena geopolitica mondiale, di cui è stata protagonista indiscussa per oltre duemila anni.

D’altra parte molti conflitti della storia recente si possono spiegare con la psicologia so-ciale del risentimento: dai conflitti libici e algerini al fondamentalismo islamico, dai colpi di stato sudamericani alla guerra civile siriana, e così via. Ultimamente l’occidente sembra avere maturato una maggiore coscienza delle proprie colpe verso il resto del mondo. Peccato, però, che lo abbia fatto soprattutto con l’irruzione della cosiddetta cultura “woke”, che si manifesta in forme più o meno pittoresche di autoflagellazione, indignazione e damnatio memoriae. Questa furia iconoclasta sta oggi mietendo altre vittime, ma senza cogliere il nocciolo del problema, che deriva da un etnocentrismo ossessivo, che paradossalmente aumenta ancor più nella misura in cui si riconosce nella cultura dei “buoni” di oggi contro quella dei “cattivi” di ieri. Alla fine i buoni restiamo sempre noi.

Questa visione manichea della realtà è un tratto distintivo tipicamente americano, le cui radici storiche risalgono ai primi Padri Pellegrini, da cui gli americani ricavarono la fede che Dio fosse dalla loro parte, al punto da diventare il motto della loro nazione. Fino alla Seconda Guerra Mondiale rimase però una visione insulare: gli Stati Uniti si rispecchiavano in una “Neverland” isolata dal resto del mondo, incluso quello dei loro progenitori. Anzi, agli occhi di molti di loro l’Europa era ancora quella dei “cattivi” da cui scapparono i Padri Pellegrini e nei confronti dei quali i Padri Fondatori si ribellarono.

Putin, Biden e lncontro mai avvenuto per parlare di Ucraina

Putin, Biden e l’incontro mai avvenuto per parlare di Ucraina

Questa visione del mondo cambiò però dopo la Seconda Guerra Mondiale e fu accelerata dalla Guerra Fredda, che rese “buoni” i popoli dei paesi capitalisti e “cattivi” quelli dei paesi comunisti. Sicché gli europei furono contagiati da una visione che non apparteneva alla loro storia, in cui la distinzione fra bene e male era molto più ambigua e sfumata. Questa rappresentazione artificiale creò poi una cesura ancor più artificiale, che portò a parlare dell’occidente come sineddoche del tutto per una parte, vale a dire dell’occidente capitalista come unica espressione dell’occidente cristiano, che comprendeva anche la Russia e gran parte dei paesi dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia.

Quest’amputazione creata dalla Guerra Fredda restò una ferita aperta per molti russi, che dopo il crollo dell’Unione Sovietica avrebbero voluto ricongiungersi a un’Europa a cui sentivano di appartenere molto più che all’Asia. Forse lo avrebbe voluto anche Putin, come sembra testimoniare Romano Prodi in una recente intervista per Report. Ed è difficile capire se questo mancato ricongiungimento sia dipeso da un amore non corrisposto o da un’oggettiva difficoltà di integrazione fra due sistemi troppo lontani e diversi. Fatto sta che siamo tornati al secolo scorso, sebbene sia difficile immaginare una Russia fuori dalla casa comune europea, se non dell’intero occidente.

Il prossimo appuntamento della storia resta comunque lo spostamento (o meglio, il ritorno) del baricentro del mondo da ovest a est. Può darsi che la guerra in Ucraina sia destinata ad accelerare il collasso di un occidente che avrebbe potuto resistere più a lungo grazie alla propria riunificazione; oppure può darsi che la riunificazione dell’occidente sia solo rinviata. In ogni caso la vera partita sarà giocata altrove.

NOTE

1) Calcolati in base alle stime delle morti in eccesso rispetto ai dati storici

2) Sulla base delle fonti disponibili altre forme di misure restrittive riguarderebbero circa 200 milioni di persone, che peraltro rappresentano meno del 20% dell’intera popolazione cinese. Senza contare che diverse forme di misure restrittive continuano a essere applicate in gran parte dei paesi occidentali.