Troppi governi di breve vita, l’anomalia italiana. A quale costo?

scritto da il 28 Luglio 2022

Dal 13 febbraio 2021, giorno di insediamento del governo Draghi, al 21 luglio 2022, giorno delle dimissioni accolte, sono passati 523 giorni. Si tratta di una durata maggiore rispetto alla media storica del Paese, ma comunque troppo bassa, specie se consideriamo che la durata prevista dalla Costituzione per una legislatura è di ben 5 anni. La difficoltà del nostro sistema politico a dar vita a maggioranze stabili continua a essere uno dei problemi di fondo del Paese.

Ma perché è importante che un governo duri cinque anni?

Molto semplicemente, esecutivi più stabili e longevi favoriscono politiche meno miopi perché non hanno bisogno del consenso immediato degli elettori e possono concentrarsi su interventi che danno risultati nel medio-lungo periodo. Molte riforme strutturali condividono infatti la caratteristica di avere costi concentrati e immediatamente tangibili, mentre i benefici diffusi e percepibili solo nel lungo termine. Immaginiamo che un governo possa scegliere se spendere soldi pubblici in ricerca, istruzione, innovazione o infrastrutture – investimenti i cui risultati maggiori si vedono dopo vari anni – oppure utilizzare gli stessi fondi per bonus immediati a categorie specifiche. Con il rischio continuo di elezioni anticipate, l’esecutivo preferirà investire nel futuro di tutti o cercare il pronto consenso di coloro che ricevono il bonus? Coloro che perdono il privilegio potrebbero infatti diventare subito una solida fetta di consenso in meno per il governo, mentre l’eventuale beneficio dell’investimento sarebbe percepito dagli elettori-consumatori solo nel medio termine. Risulta poco realistico quindi immaginare che un governo che si aspetta di durare un paio di anni dia la giusta importanza a tali investimenti, a lasciare i conti in ordine o addirittura provi a ridurre il debito. È invece più plausibile che cerchi di scaricare il peso di riforme con costi immediati e benefici di lungo periodo sul prossimo esecutivo e così via, di generazione in generazione.

Veniamo ai numeri: quanto dura un governo in Italia?

Dal 1946 ad oggi, in Italia si sono alternati 67 governi, guidati da 30 presidenti del Consiglio diversi. In media, i governi italiani rimangono in carica per 414 giorni (mentre distinguendo fra Prima e Seconda Repubblica, in quest’ultima abbiamo avuto 17 governi contro i 50 della Prima, per una durata media dei governi di 611 giorni, contro 347), meno di un anno e due mesi, e governano effettivamente per 380 giorni, poco più di un anno. Si distingue infatti tra “giorni in carica” e “giorni di governo effettivi”: dopo le dimissioni un governo rimane comunque in carica, parliamo di “ordinaria amministrazione per il disbrigo degli affari correnti”, fino a quando non giura il successivo. L’Italia ha avuto un governo in ordinaria amministrazione per 2257 giorni – tradotto 6 anni, 2 mesi e 9 giorni: l’8,12% della nostra storia è quindi trascorso fra consultazioni, incarichi esplorativi, elezioni anticipate, ricerca di nuovi assetti politici. Dal primo luglio 1946 ad oggi, l’Italia ha avuto 66 crisi di governo (quella in corso è la numero 67), durate in media poco più di 33 giorni, con dati aggiornati al 21 luglio 2022.

Il governo che è rimasto in assoluto più tempo in carica, con 1.412 giorni, è il secondo esecutivo guidato da Silvio Berlusconi tra il 2001 e il 2005. Anche il secondo governo più duraturo, 1.287 giorni, è quello guidato da Berlusconi tra il 2008 e il 2011, mentre al terzo posto c’è il primo governo di Bettino Craxi, tra il 1983 e il 1986. All’estremo opposto ci sono i governi lampo, durati pochi giorni perché non sono riusciti ad avere la fiducia del Parlamento. Tra questi, abbiamo il primo governo di Amintore Fanfani, con 22 giorni in carica nel 1954, l’ottavo governo di Alcide De Gasperi nel 1953 (32 giorni) e il secondo governo di Giovanni Spadolini, con soli 100 giorni in carica nel 1982. Limitandosi agli esecutivi della Seconda Repubblica, dopo i due governi di Berlusconi, al terzo posto, come governo più duraturo c’è quello guidato da Matteo Renzi tra il 2014 e il 2016, con 1.024 giorni in carica. Il governo che è durato di meno è invece il secondo guidato da Massimo D’Alema nel 2000. Il presidente del Consiglio che ha governato di più l’Italia repubblicana è stato Berlusconi, con 3.339 giorni in carica, più di nove anni. Dopo ci sono Giulio Andreotti con 2.678 giorni e De Gasperi con 2.591 giorni. I presidenti del Consiglio che sono rimasti meno in carica sono stati Fernando Tambroni, Giuseppe Pella, Arnaldo Forlani con 123, 155 e 253 giorni di governo.

Giuseppe Conte e Mario Draghi

Giuseppe Conte e Mario Draghi

Quanto durano i governi e i capi di Stato in Europa?

Fare un confronto tra l’Italia e gli altri quattro grandi Paesi europei – Germania, Regno Unito, Francia e Spagna – non è semplice per via delle differenze istituzionali e di durata delle legislature (ad esempio la durata di una legislatura in Germania è pari a 4 anni; in Francia abbiamo un sistema semi presidenziale dove il presidente ha un ruolo predominante e l’esecutivo non ha bisogno della fiducia dell’Assemblea nazionale; diversi sono i sistemi elettorali vigenti e così via), tuttavia permette di delineare un’immagine molto chiara. Considerando prima di tutto la durata media dei governi vediamo come l’Italia e la Francia occupano le ultime due posizioni della classifica con una media di 1,13 e 1,12 anni. Una magra consolazione sapere di non essere i soli. A metà classifica abbiamo la Spagna con 2,66 anni mentre il secondo ed il primo posto sono occupati da Regno Unito (2,88 anni) e Germania (2,96 anni).

Il risultato non cambia se anziché considerare l’esecutivo nel suo insieme, ci concentriamo sul capo di governo nei 5 Paesi, per semplificare a partire dal 1994. In Italia, ad oggi, il presidente del Consiglio è cambiato 15 volte, con alcuni che hanno guidato due governi consecutivi, come Berlusconi e Conte. Nello stesso periodo di tempo, in Germania si sono alternati quattro cancellieri (Kohl, Schröder, Merkel e Scholz), senza registrare cambi di maggioranze. In Spagna ci sono stati invece cinque primi ministri (González, Aznar, Rodríguez Zapatero, Rajoy e Sánchez). Nel Regno Unito ci sono stati sei primi ministri in (Mayor, Blair, Brown, Cameron, May e Johnson). Infine, in Francia si sono alternati 13 primi ministri che hanno presieduto 23 governi diversi.

Cosa comporta l’instabilità politica?

Quando cade un governo, prima che la macchina torni operativa occorre tempo. Quando cambiano i 23 ministri cadono infatti anche le persone chiave che ciascuno di loro aveva scelto, una squadra di circa 50 persone (capo gabinetto, capo dipartimento, capo legislativo, capo segreteria tecnica, tutti i vice ed i funzionari). Con un passaggio di consegne che riguarda in pratica oltre mille persone e, considerando che gli incarichi raramente coincidono con competenze specifiche, tutto quello che non è ordinaria amministrazione si paralizza. Si bloccano quindi appalti, decreti attuativi ed infine leggi e accordi in corso. Restano invece in carica fino alla scadenza dell’incarico i direttori generali. Ciò vuol dire che per esempio un direttore generale nominato da un ministro di centrodestra può remare contro il nuovo ministro del Pd. E questo può provocare ulteriori impedimenti.

A questo si aggiungono le problematiche legate allo spread, termometro della fiducia nell’economia italiana: tanto più è alto tanto più la nostra economia è considerata rischiosa. Il differenziale è ovviamente influenzato dall’instabilità politica e dalla litigiosità di un governo. Negli ultimi anni gli italiani si sono abituati a vedere lo spread tra i rendimenti dei titoli di Stato italiani e tedeschi divaricarsi pericolosamente in seguito alle uscite antieuropeiste di alcune forze politiche (Lega tra le altre) o di fronte a prospettive di ingovernabilità del Paese. Attualmente è a quota 234 punti base. Le conseguenze, tra le altre, sono interessi maggiori e quindi indebitamenti ulteriori. Debito chiama debito. Per finire, è necessario considerare, come conseguenza di governi brevi, l’impossibilità di costruire una direzione di marcia e rafforzare le relazioni con altri Paesi. Senza continuità è infatti più difficile incidere sugli scenari internazionali.

Per concludere, perché quindi i nostri governi durano così poco?

Quattro sono le motivazioni principali. La prima è contenuta nell’articolo 70 della Costituzione: ogni legge deve essere approvata da Camera e Senato, e questo raddoppia il potere di veto dei partiti, e ciò significa vita dura per un governo. La seconda dentro l’articolo 67: è possibile essere eletti con un partito e, durante la legislatura, passare ad un altro. Questo rende possibile ogni forma di ribaltone durante la vita di un esecutivo. La terza è dentro la legge elettorale: se un partito non prende il 51% dei seggi non può governare da solo, ma deve trovarsi degli alleati e questo significa che anche il mal di pancia di un partito con il 3% può far crollare un governo. Infine, la mancanza dell’istituto della sfiducia costruttiva (presente, ad esempio, in Germania e in Spagna). Si tratta di un istituto costituzionale che impedisce a un parlamento di votare la sfiducia al governo in carica se non concede simultaneamente la fiducia a un altro governo, pronto a subentrare. Tramite questa procedura, un esecutivo che non può più contare su una maggioranza dei seggi in parlamento ha la possibilità di rimanere in carica qualora i partiti parlamentari non raggiungano un’intesa riguardo la formazione di un nuovo governo. Tale strumento rappresenta quindi un importante elemento di stabilizzazione dei governi. Ovviamente si tratta di condizioni che garantiscono maggiori poteri al Parlamento, ma a quale costo?

Luca Maltauro