Giustizia tributaria, ecco quanto delude e perché la riforma tanto attesa

scritto da il 18 Ottobre 2022

Post di Francesca Masotti e Matteo Castronovo, Studio Masotti Cassella – 

A trent’anni dall’entrata in vigore dei Decreti Legislativi che hanno disciplinato la giustizia tributaria e il processo in materia fiscale, il Legislatore è intervenuto con la ormai nota Legge 130/2022 per riformare la materia.

Trascorso qualche giorno dall’entrata in vigore della prima parte della riforma (alcune novità saranno operative da gennaio 2023), è opportuno fare qualche riflessione a mente fredda.

La prima impressione di questa riforma è che, in tutta onestà, dopo un periodo così lungo dall’entrata in vigore dei primi decreti, era legittimo attendersi una riforma più incisiva, che modificasse in profondità la giustizia tributaria; queste speranze, tuttavia, sono state in buona parte disattese.

La classica occasione mancata

Potremmo definirla la classica occasione mancata, perché non ci sono grandi novità di rilievo. O, meglio, se di novità si tratta, queste si notano per una certa disarmonia e confusione della norma appena entrata in vigore, spesso a favore delle pretese erariali.

Oltre alla modifica estetica della denominazione delle Commissioni Tributarie – da qualche giorno chiamate Corti di Giustizia Tributaria – , una delle novità di maggior rilievo è l’introduzione dei magistrati tributari, che saranno scelti per concorso e avranno un obbligo di formazione permanente. Questo, certamente, è un elemento positivo, dato che è legittimo auspicare che la maggiore specializzazione dei magistrati genererà una più elevata qualità delle decisioni e dello svolgimento del processo tributario. Tuttavia, non si può non notare come l’attuale problema della giustizia tributaria non risiede certo nella mancanza di qualità dei giudici non togati, ma piuttosto nella carenza cronica di risorse (sia umane che economiche) che rendono il processo tributario un iter spesso ingiustificatamente lungo e dispendioso. Su questo, la norma non pare intervenire.

Rottamazione, il pasticcio sulle liti pendenti

In questo senso, la rottamazione delle liti pendenti è un’evidente sconfitta del sistema, perché non è solo la qualità delle decisioni (che è legittimo dare per scontata) a fare giustizia, ma sono i tempi processuali veloci che creano, realmente, giustizia. Una vittoria ottenuta in via definitiva dopo 5-6 anni di procedimento non è, in realtà, giustizia. Un processo non deve essere rottamato, ma deciso bene e in tempi certi.

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Magistrati tributari davvero indipendenti?

Desta qualche preoccupazione la nuova struttura della magistratura tributaria, soprattutto con riferimento alla totale indipendenza che i magistrati tributari devono avere per definizione. Infatti, dal 1° gennaio 2023 verrà istituito un ufficio ispettivo dei giudici tributari, che però è fortemente connesso con il Ministero dell’economia e delle finanze e, all’atto pratico, subordinato a questo. Ovvero, una delle due parti in causa di un procedimento tributario. Se la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto, sarebbe stata sicuramente apprezzata una maggiore e più netta separazione dei ruoli, a beneficio di tutta la giustizia tributaria.

Il pagellino fiscale

Inoltre, è ai limiti dell’incomprensibile la novità legislativa che lega la possibilità di non dover presentare una garanzia in caso di istanza di sospensione dell’esecuzione dell’atto impositivo impugnato con il voto del contribuente negli ISA (Indici Sintetici di Affidabilità, ovvero i vecchi Studi di Settore). La formulazione della norma è davvero curiosa, dato che parla di “bollino di affidabilità fiscale”: riprendendo le parole di autorevoli commentatori, siamo al pagellino fiscale. Ciò che appare davvero inspiegabile è come si sia potuta creare una connessione tra uno strumento nato per fini statistici e legato ai risultati reddituali di un contribuente – peraltro, strumento molto criticato perché avulso dalla realtà aziendale – e una istanza processuale che riguarda esclusivamente la fondatezza (o meno) della pretesa impositiva dell’Erario e l’eventuale danno economico che subirebbe il contribuente in caso di un ingiusto prelievo in pendenza di giudizio.

Onere probatorio, sorge un sospetto

Così come è davvero criticabile la nuova previsione, contenuta nell’articolo 6, che introduce un nuovo comma 5-bis all’art. 7 del D. Lgs. N. 546/1992 in materia di onere probatorio. Se c’è un pilastro del procedimento giudiziale tributario è che questo nasce da un atto impositivo emesso dall’Amministrazione Finanziaria che lo motiva per sostenere la bontà della sua tesi e della sua pretesa. Contro questo atto, il contribuente propone ricorso e chiede ad un soggetto terzo, il giudice, di dirimere la questione. Le motivazioni della pretesa erariale, è bene ribadirlo, sono contenute nell’atto impugnato e su tale aspetto non ci possono essere dubbi.

Bene, sarebbe meglio dire che su questo non c’erano dubbi, fino all’agosto scorso, quando il legislatore ha scritto una legge che nella migliore delle ipotesi è semplicemente formulata in modo maldestro. Infatti, la norma afferma che “L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio…”.

Se si ci si attiene alla lettera a questo nuovo comma, si potrebbe essere spettatori di un tentativo di stravolgimento della disciplina dell’onere probatorio nel processo tributario. Infatti, l’amministrazione finanziaria potrebbe non avere più l’obbligo di provare e motivare le proprie contestazioni nell’atto impositivo, dovendo/potendo farlo nel processo. Parimenti, il giudice dovrebbe fondare la propria decisione sulle prove fornite nel giudizio e non, come dovrebbe essere, in sede di atto impositivo per l’Amministrazione finanziaria e in sede di ricorso per il contribuente.

Il dibattito è aperto

Se venisse accettata la nuova formulazione, si sarebbe di fronte ad una lesione del diritto di difesa del contribuente che non ha precedenti. Il processo tributario non è un processo penale che si fonda sul dibattimento in giudizio per l’emersione delle prove; è, invece, un procedimento documentale in cui una parte – l’Erario – emette un atto impositivo e lo motiva in modo ampio, preciso e circostanziato, fornendo altresì le prove a sostegno della propria pretesa.

Secondo alcuni commentatori, questa norma sarebbe a favore del contribuente, dal momento che impone all’Amministrazione finanziaria di assolvere all’onere della prova (salvo, ovviamente, le richieste di rimborso del contribuente). Questa affermazione è, a giudizio di chi scrive, quantomeno eccessivamente ottimista. L’onere della prova è sempre stato in capo all’ente impositore.

Il fatto che nella realtà dei procedimenti alle volte questo onere sia stato ribaltato in capo al contribuente (si pensi alla giurisprudenza in tema di prova della corretta deducibilità di alcuni oneri), non significa che non ci fosse un obbligo in capo all’Erario. Se questa interpretazione ottimistica è in linea con le reali intenzioni del legislatore, sarebbe certamente un bene. Ma perché non farlo in modo organico e completo, fugando ogni dubbio? Perché inserire una simile previsione all’ultimo secondo?

No, la formulazione del nuovo comma 5-bis è preoccupante perché pare essere un tentativo per consentire all’Amministrazione finanziaria di provare in giudizio quello che non è riuscita a provare prima.

Sono state fatte anche cose buone

La novità legislativa, però, nonostante i numerosi elementi criticabili sopra esposti, ha introdotto alcune novità positive. È infatti apprezzabile l’introduzione della possibilità, per i giudici tributari, di proporre di propria iniziativa una proposta di conciliazione alle parti con riferimento alle liti soggette a reclamo. L’intento del legislatore è, ad avviso di chi scrive, chiaro: dal momento che l’istituto del reclamo-mediazione è, alla prova dei fatti, privo di rilevanti effetti deflattivi sul contenzioso, prevedere che sia un soggetto terzo a proporre una conciliazione tra le parti è sicuramente un modo concreto per evitare di far proseguire procedimenti tributari che possono essere agevolmente evitati, con beneficio economico di tutti.

Si lega a quanto detto la previsione, da accogliere con favore, di una maggiorazione delle spese di giudizio del 50% qualora il giudice o una delle due parti abbia avanzato una proposta conciliativa non accettata dall’altra parte, senza un giustificato motivo. Anche in questo caso, il legislatore spinge per favorire una soluzione di buon senso in liti che non vedono, inequivocabilmente, solo una parte nel torto e solo una nella ragione. Tale tentativo è certamente apprezzabile, auspicando che poi riesca a dispiegare effetti positivi reali.

Riforma zoppa

In definitiva, si tratta di una riforma un po’ zoppa, con qualche nota positiva ma, purtroppo, diversi elementi criticabili che denotano una scarsa attenzione del legislatore agli effetti che si produrranno sui contribuenti e sui professionisti che si occupano di difesa tributaria.