Elogio dei tecnici che danno virtù alla politica

scritto da il 18 Ottobre 2022

Post di Fabio Ghiselli, dottore commercialista, già tax director d’impresa, attualmente tax and lab advisor, autore di numerose pubblicazioni in materia tributaria e di welfare, opinionista de Il Sole 24 Ore, cultore di economia –

Dopo le esperienze di governi “tecnici” – Ciampi (1994), Dini (1995), Prodi (1996), Amato (2000), ancora Prodi (2006), Monti (2011) e Draghi (2021) – non particolarmente brillanti per efficacia dell’azione ed effetti risolutivi di problemi strutturali e contingenti del Paese, ci dovremmo aspettare una cesura netta rispetto al passato e, ancora di più, con il presente doloroso.

La stessa decisione di non scongiurare il verificarsi del disegno del presidente Draghi di sottrarsi alle responsabilità conseguenti agli evidenti errori commessi in questi mesi (ricordiamo che è l’unico PdC nella storia di questo Paese che ha rimesso il mandato al PdR dopo aver ottenuto la fiducia in Parlamento il 14 luglio), lasciava presagire senza ombra di dubbio la volontà dei partiti di riappropriarsi del potere di gestione della res publica.

Probabilmente, la bramosia di liberarsi dal senso di frustrazione indotto dalle parole del Presidente della Repubblica Mattarella all’indomani della caduta del governo Conte bis, ha offuscato la ragione che, viceversa, avrebbe dovuto consigliare di porsi nella “vigile attesa” che gli effetti drammatici della crisi economica e geo-politica travolgessero l’attuale governo [1]. Cosa che, con molta probabilità, sarebbe successa prima delle elezioni politiche del marzo prossimo. La reazione degli elettori sarebbe stata identica ma il peso della responsabilità sarebbe stato diverso: un conto è assumere decisioni drastiche sull’evidenza empirica di errori altrui, un’altro conto è assumerle quando chi ha commesso gli errori viene ancora considerato come il “migliore” per poter risolvere l’insieme dei problemi sottostanti.

In ogni caso, le dichiarazioni di questi giorni dei segretari dei partiti vincitori delle elezioni, sembrano parzialmente “tradire” quella volontà di “rientrare in possesso” dei propri spazi, perché si evocano ancora una volta i famosi “tecnici” ai quali verrebbero attribuiti alcuni ministeri chiave, primo fra tutti, quello dell’Economia [2]. Anche se gli ultimi tweet dell’attuale leader della coalizione di centrodestra Giorgia Meloni annunciano che il prossimo governo sarà il più politico di sempre.

Ciò nonostante, il “problema” di cui si discute si ripropone con una certa frequenza, soprattutto in situazioni economiche difficili. Perché, dunque, la politica delegherebbe ai “tecnici” quei compiti per i quali le conoscenze tecniche sono necessarie, persino per dialogare con la struttura operativa dei ministeri?

Che cosa servirebbe oggi al Paese? “Tecnici” veramente qualificati, politici “di razza” oppure politici che hanno anche maturato competenze tecniche?

(Alotofpeople Adobe.stock.com)

Sul punto è intervenuto Natalino Irti, accademico di fama e “grand commis”  di stato, con un articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 2.10.2022, “Elogio del dilettantismo che dà virtù alla politica”, nel quale poggiando le sue osservazioni sull’atto d’accusa di Platone contro i Sofisti, rappresentato dall’opera Protagora, conclude, ironicamente, che le scelte collettive, “la potestà di suprema decisione circa gli affari dello Stato … non è ufficio di specialisti”, in quanto “sta oltre le competenze, e la chiamano <politica>”. Benché permanga la necessità “dello specialismo tecnico e della competenza”, i “competenti non hanno legittimità a decidere circa gli affari dello Stato, che esigono altre capacità e abitudini (prima tra esse un vasto orizzonte e un agile piegarsi a debolezze e miserie umane)”.

Ecco allora che affidare alcuni ministeri chiave, come l’Economia – anche nella bene augurabile ipotesi che si ritorni alle origini, con la separazione tra Tesoro (per il controllo del bilancio e della spesa pubblica), e le Finanze (per il governo delle entrate, soprattutto tributarie) – ma sotto la direzione e la responsabilità di un Presidente del Consiglio “politico” (ex art. 95 Cost.), e non più di un “tecnico”, garantirebbe quell’assetto enunciato da Platone e così caldeggiato dalla politica.

Ma cosa si legge esattamente in Protagora?

Nel dialogo che vede contrapposti Socrate e Protagora, Socrate afferma che: “Ebbene, io vedo che, quando ci raduniamo in assemblea, se la città ha a che fare con questioni che riguardano la costruzione di edifici, si fanno intervenire in veste di consiglieri in materia di costruzioni gli architetti; se, invece, deve prendere qualche decisione circa la costruzione di navi, si mandano a chiamare i costruttori di navi, ed è lo stesso il criterio seguito quando si tratta di tutte le altre cose che, essi ritengono, si possano imparare ed insegnare. Ma se prova a dar loro consigli qualcun altro che essi non stimano pratico dì quel dato mestiere, per quanto sia bello, ricco e nobile, non per questo lo ascoltano, ma lo deridono ed esprimono il proprio malcontento levando un gran baccano, finché colui che ha tentato di parlare, interrotto da quel baccano, non desista per conto suo, o gli arcieri non lo tirino via e lo caccino fuori per ordine dei Pritani.  Così agiscono, dunque, in quelle questioni che essi ritengono dipendere da un’arte. Quando invece si tratta di decidere circa l’amministrazione della città, allora si leva a dar loro consigli su tali questioni, indifferentemente, l’architetto, il fabbro, il calzolaio, il mercante, l’armatore, il ricco, il povero, il nobile e il plebeo, e a costoro nessuno rinfaccia, come invece si rinfaccia a quelli del caso precedente, di mettersi a dar consigli senza aver prima imparato da qualche parte e senza aver avuto alcun maestro. è chiaro che questo accade perché non la considerano cosa che si possa insegnare. E bada che questo non accade solo nella vita pubblica della città, ma che anche nella vita privata i più sapienti e i migliori cittadini non sono capaci di trasmettere ad altri quella virtù che essi possiedono”.

Forse è in quest’ultime righe che si racchiude il senso del discorso, volto più che altro a criticare i sofisti che si facevano remunerare per trasmettere la loro sapienza.

Ma se l’arte politica non è insegnabile, né trasmissibile da uomo a uomo, chi possiederebbe questa virtù? Qualche eletto o l’uomo in sé?

La constatazione secondo la quale a tutti viene permesso di dare consigli sull’amministrazione della città senza nessun riconoscimento di status, non rappresenta certo un elogio dell’incompetenza, anzi, per Socrate la polis deve essere governata dal sapere competente e quindi da competenti. Solo che questo sapere non può essere conseguito con il tipo di educazione proposta dai sofisti, una sorta di cultura enciclopedica che consenta a chi vuole governare di sostenere tesi e convincere chi ascolta, riducendo la politica a retorica. Poiché la politica deve interessarsi dei valori supremi del bene e del male, l’educazione deve essere finalizzata alla ricerca della virtù e delle sue componenti essenziali (forza, temperanza, religiosità e giustizia), e a costruire una conoscenza che sovrintenda non solo l’arte militare ma tutte le altre arti particolari che attengono all’amministrazione e all’organizzazione della polis.

Per rispondere alla domanda che ci siamo posti potrebbe venire in aiuto Aristotele che nella sua opera Politica, afferma che l’uomo è zoon politikon, un uomo politico in sé che per vivere ha bisogno di farlo in una comunità, ma non passivamente, ma costruendola, e con essa il suo sistema di relazioni, il modo per rivolgersi agli altri, per organizzare gerarchicamente o in condizioni di eguaglianza i suoi rapporti con gli altri. La comunicazione e il linguaggio, il lògos, quindi, sarebbero l’essenza della politica, attraverso i quali si espliciterebbe la ragione e la capacità di distinguere l’utile e il dannoso, il giusto e l’ingiusto.  

Ma possiamo affermare che queste virtù, per quanto innate, siano possedute per sempre dall’”uomo politico”?

Dovremmo rispondere di no, se solo pensiamo che gli esseri umani sono figli di Adamo e che proprio Adamo era “naufragato con il peccato originale in una tempesta di pulsioni antisociali come il desiderio di possesso, la spinta alla sopraffazione, la libido dominandi, la necessità della difesa e quindi anche della guerra. La vita in comune di cui abbiamo esperienza è la naturale associazione di chi è incline per natura al bene comune o non è piuttosto pensabile come il contesto di ogni prevaricazione e di un conflitto continuo e irrimediabile? Forse se Adamo ed Eva non fossero caduti ci sarebbe stata una libera e reale socialità, ma dopo quel peccato la natura umana si è stravolta e l’uomo è esposto alla jacquerie permanente delle emozioni, delle paure, delle passioni e del disordine antisociale”.

E poi, se l’uomo è in sé “uomo politico”, per quale ragione dovremmo ritenere che l’uomo con competenze specifiche sia “inferiore”, per la politica, all’uomo che ne è privo? Se l’essenza dell’”uomo politico” accomuna gli esseri umani, non potremmo concludere che anche i “tecnici” la possiedono?

Certo che sì. In fondo è lo stesso Platone che ci racconta che Zeus mandò Ermes a distribuire “a tutti” gli uomini le virtù del rispetto e della giustizia quali essenze dell’”arte politica” “perché non potrebbero nascere città se solo pochi di loro ne avessero parte, come accade per le altre arti”.

E allora dove risiederebbe la differenza tra un “politico” e un “tecnico”? Non sarebbe, dunque, preferibile il secondo se, oltre alla tecnica, possiede una visione generale e non solo focalizzata su un tema specifico, e quelle virtù platoniche della giustizia, rispetto, saggezza, temperanza e coraggio, che evitano all’uomo di perseguire il bene individuale (o apparente) come proiezione dei suoi interessi, desideri, compreso quello di dominare gli altri?

Ma se dopo le vicende che interessarono Adamo e i suoi discendenti non potessimo più sostenere che l’equa distribuzione delle virtù sia rimasta equa; se dovessimo addurre che apparterrebbero a una parte del genere umano, come caratteristica, si innata e non trasmissibile e non insegnabile con il metodo dei sofisti, ma che per essere mantenute nel tempo necessitano di essere comunque coltivate, affinate e salvaguardate dagli influssi esterni negativi, o che addirittura dovrebbero essere ricercate e apprese secondo il pensiero socratico, quale conclusione potremmo trarre?

Non dovremmo forse cercare quegli uomini (e donne) dotate di quelle capacità che sono in grado di esprimere al massimo livello quell’”arte politica” per rendere l’uomo in grado di governare le città?

Del resto, non è lo stesso Platone che sosteneva che il potere politico poteva essere esercitato solo dai più capaci, dotti e meritevoli, ossia dai filosofi, da coloro che praticavano la filosofia? E se philosophia, da philein “amore e sophia “sapienza” o “saggezza”, significa “amore per la sapienza”, non è forse vero che solo una parte del genere umano ne è dotato e, per questo, sia adatto a gestire la rès publica? Naturalmente oggi non potremmo limitarci a individuare i governanti sulla base del perimetro che siamo soliti individuare quando pensiamo ai filosofi, per ragioni diverse che ben si possono immaginare. Mentre, invece, potremmo pensare ai governanti come a coloro che devono possedere quelle caratteristiche e qualità innanzi dette che li renderebbero “meritevoli” di quell’incarico.

A dispetto del secolo scorso, oggi la gestione della res publica non può essere affidata a chiunque. Il mito dell’”uno vale uno” è crollato sotto il peso della complessità del sistema, dell’insieme delle regole che l’uomo stesso ha introdotto, motu proprio o su istanze di parte. Per tale ragione non si può pensare che sia sufficiente essere un semplice “politico”, seppur di lungo corso, ma è necessario possedere un livello di competenza, di sapienza, più elevato rispetto al passato, in ogni campo della vita pubblica. Per di più, come “politico” non basta la sola eloquenza, ma è d’obbligo il possesso dell’attitudine al dialogo sociale, che implica capacità di ascolto e comprensione degli eventi, e non una mera attitudine ad amplificare il sentiment delle masse.

In questo senso la discriminazione tra “politici” e “tecnici” non ha una ragione specifica e razionale e, forse, nemmeno filosofica. Semmai la discriminazione è tra “politici”, “politici competenti” e “politici tecnicamente competenti”, in funzione dei ruoli che potrebbero assumere. Ed è su queste due ultime categorie che dovrebbe convergere la scelta, sia nella fase della prima selezione, quella dell’elezione in Parlamento, sia, soprattutto, nella fase di formazione del governo.

NOTE

[1] Se rileggessimo le dichiarazioni del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella rilasciate al termine dell’incontro con il Presidente della Camera Roberto Fico, potremmo notare il vero punto centrale, quello realmente dirompente, contenuto in sole 4 righe (su 78) nel finale del documento, che potremmo scomporre in tre elementi.

La presenza di un appello” alle forze politiche, che va ben al di là di un semplice invito o auspicio, perché è carico della percezione – “avverto” – di un preciso “dovere” istituzionale non derogabile; l’estensione della platea dei soggetti interessati a “tutte le forze politiche”; infine la statuizione finale racchiusa nella solennità del “perché conferiscano la fiducia a un Governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica”.

Quest’ultimo sostanziale precetto – in realtà duplice –  non lascia alternative. Il Governo non dovrà identificarsi con alcuna “formula politica” e, quindi, con una diversa “maggioranza compatibile”. La caratteristica dell’”alto profilo” impone l’abbandono delle “qualità” dell’ignoranza, della incapacità, dell’impreparazione, dell’inadeguatezza al ruolo, del ridicolo principio dell’”uno vale uno”, a favore di quelle esattamente opposte. E’ una formula “prendere o lasciare”, che non ammette eccezioni, pregiudiziali, veti o altre ridicole corbellerie. In realtà le cose sono andate in modo diverso, e non sapremo mai perché e chi le determinò.

[2] Si parla anche del Ministero dell’interno, per il quale non ci sarebbe affatto la necessità che a guidarlo fosse un prefetto, mentre nulla si dice, ad esempio, dei ministeri dell’istruzione, dell’università e della salute, le cui direzioni, nel tempo, hanno prodotto danni inenarrabili.