Quanto teniamo ai nostri dati? Ecco il paradosso della privacy

scritto da il 07 Dicembre 2022

Post di Riccardo Polizzy Carbonelli, sales director di InfoSum Italia – 

Quando si parla di privacy siamo tutti sensibili e attenti, ma quanti sono coloro che sono realmente consapevoli delle informazioni personali che vengono rilasciate in rete? Secondo GWI (Global Web Index) nell’anno 2021, Facebook è stato il social network preferito dagli italiani, con oltre 20 milioni di utenti registrati e un coefficiente di penetrazione del 93%.

Sapreste dire, o fare una stima, a mente fredda di quante applicazioni e siti web possono accedere ai vostri dati di Facebook? Se siete seduti al computer o avete il cellulare a portata di mano e avete un account Facebook, procedete come segue: Aprite Facebook, andate su “Impostazioni”. Quindi selezionare “App e siti web”. Quante app e siti web sono costantemente collegati ai vostri dati di Facebook?

C’è da chiedersi se sia possibile per l’industria dei media e della pubblicità, risolvere il cosiddetto ‘Paradosso della Privacy’ che in letteratura si riferisce alla discrepanza tra le “preoccupazioni” o gli atteggiamenti espressi dagli individui e i loro “comportamenti”.

1. La praticità vince. Sempre

Come ha iniziato WhatsApp la sua marcia trionfale? La sincronizzazione automatica con la rubrica dello smartphone ha reso tutti raggiungibili in modo facile e veloce. Se a questo si aggiunge un’app molto ben progettata e facile da usare, il trionfo è stato inarrestabile.

Molti ricorderanno il caso del social network tedesco StudiVZ – abbreviazione di “Studienverzeichnis” che significa “directory per studenti” – il sito che assomigliava visivamente a Facebook, aveva un’utilità pratica, più che di svago. StudiVZ voleva vincere contro Facebook puntando sull’aspetto della “protezione dei dati prima di tutto”. Tutti i sondaggi confermavano l’importanza della sicurezza nella scelta di un social network. Tuttavia, l’eccellente esperienza utente di Facebook e la sua costante crescita in termini di utenti avrebbe comunque segnato il declino del destino di StudiVZ.

Con gli attuali regolamenti sulla protezione dei dati, qualcosa di simile all’impostazione predefinita di WhatsApp non sarebbe più possibile. Ma la lezione è comunque chiara: un prodotto davvero di ‘prima classe’ batte anche quello che garantisce la migliore protezione dei dati.

2. In tema di protezione dei dati, una volta che una situazione è data per scontata, è necessario un grande sforzo per cambiarla

Secondo un sondaggio condotto da Appinio, l’85% degli intervistati sceglierebbe WhatsApp per il servizio di messaggistica, e circa due terzi (68%) degli intervistati sono effettivamente preoccupati per il modo in cui l’azienda (Meta) utilizza i dati personali. Il 61% accetterebbe le modifiche previste dalle norme sulla protezione dei dati per continuare a utilizzare Messenger. Anche in Italia, tra gli utenti dei social network, WhatsApp continua a essere l’applicazione più utilizzata con il 39,7% delle preferenze (Digital 2022 Global Overview Report), mentre l’altra app sempre di casa Meta – Facebook Messenger – si posiziona a seguire.

Il GDPR ha aumentato la consapevolezza dei consumatori circa l’esistenza di un compromesso in corso e come dimostrano i dati, l’effetto lock-in funziona.

Questa scarsa comprensione nell’uso dei dati, aiuta in particolare i grandi provider quali Google, Apple, Meta e Amazon. Una volta conquistato il cuore degli utenti – attraverso servizi spesso molto utili e apparentemente gratuiti- si dispone anche di dati in modo costante e aggiornati (login) e molto raramente si assiste a una resistenza significativa, cioè a un maggior numero di disiscrizioni, quando si cambia la politica sulla privacy.

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(Reuters)

3. Gli utenti adottano (almeno) due pesi e due misure

Gli editori sanno quanto sia difficile e oneroso ottenere il consenso dei propri utenti per l’utilizzo dei dati a fini pubblicitari attraverso l’utilizzo di un login.

Gli inserzionisti che vogliono instaurare un rapporto diretto con i propri clienti devono valutare molto attentamente come fare perché spesso risulta molto più facile utilizzare i “walled garden”, le piattaforme o ecosistemi chiusi, anziché raccogliere i dati di ‘prima parte’ che potrebbero poi essere utilizzati in altri ambienti, come ad esempio, i contenuti premium editoriali di grandi editori indipendenti.

L’acquisizione dei dati e la gestione dei consensi ricevuti, presuppone l’impegno da parte dell’azienda di adottare tutte quelle azioni che puntano alla loro protezione.

4. Non solo privacy: la sicurezza deve essere a monte

La Data Collaboration tra aziende è il futuro, ma la sicurezza non può essere considerata un elemento ‘accessorio’, deve essere semmai integrata all’interno dell’ecosistema dati. Le aziende stanno cercando di estrarre maggior valore dai dati di prima parte (quelli raccolti direttamente dal pubblico o dai clienti, ndr) per riempire il vuoto lasciato dalla fine dei cookie di terza parte. Per questo, stanno guardando a collaborazioni reciprocamente vantaggiose per generare insight di elevato valore.

Il nostro mercato è certamente al corrente di “che cosa” si può ottenere attraverso la “data collaboration” ma dobbiamo aggiungere anche un “perché” alle scelte fatte su come il tutto avviene. Una scelta che presuppone un’attività di data collaboration in un contesto dove i dati non vengono mai spostati, esposti o condivisi e che sta a indicare di avere deciso di considerare la sicurezza e la privacy dei dati dei propri utenti – e di conseguenza la reputazione della propria azienda – come elementi prioritari.

La data collaboration deve avvenire su piattaforme tecnologiche di nuova generazione per consentire ai brand di fare attività marketing, analisi dei dati e attivare collaborazioni con altre aziende mantenendo un livello di sicurezza massimo grazie alle Data Clean Room che permettono alle aziende di utilizzare i dati in proprio possesso senza cederli a terzi o spostarli al di fuori dei propri sistemi.

Bisogna fare attenzione. Oggi spesso vediamo sul mercato che la terminologia “clean room” viene applicata a tecnologie che utilizzano di base soluzioni di “hashing” o altre soluzioni crittografiche. Tuttavia queste sono “clean” solo per una parte molto breve del processo. Inoltre, altre soluzioni di “clean room” richiedono che i dati vengano copiati, mescolati insieme ad altri dati. E offrono una protezione della privacy minima o nulla mentre i dati sono inattivi, in movimento o in uso.